“Spazi che contano: il progetto urbanistico in epoca neoliberale” di Cristina Bianchetti
- 15 Febbraio 2017

“Spazi che contano: il progetto urbanistico in epoca neoliberale” di Cristina Bianchetti

Recensione a: Cristina Bianchetti, Spazi che contano: il progetto urbanistico in epoca neoliberale, Donzelli, Roma 2016, pp. 120, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Andrea Baldazzini

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La città è per eccellenza lo spazio della vita moderna, il luogo strategico che per secoli ha rappresentato la culla dello sviluppo dell’intero Occidente, nonché la sede delle tre principali forze sociali: quella politica, quella culturale e quella economica. Nel corso delle prossime pagine, l’intento sarà quello di discutere brevemente l’ultimo libro di Cristina Bianchetti intitolato Spazi che contano. Il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, proprio alla luce dell’intersecarsi delle tre forze appena avocate all’interno dello spazio urbano contemporaneo. È importante fin da subito sottolineare che l’autrice affronta la questione relativa all’evolvere delle città e dei territori a partire dalle trasformazioni e dalle possibilità ermeneutiche offerte dal concetto di spazio, oppure, per dirla altrimenti, essa è interessata allo studio dei modi in cui il neoliberismo progetta (termine da tenere molto in considerazione) un qualunque spazio urbano. Attraverso uno sguardo accorto, diviene infatti possibile individuare le costanti che, secondo l’autrice, definiscono i tratti costitutivi dell’approccio progettuale neoliberale, un approccio caratterizzato da un estremo riduzionismo funzionalistico. Ciò permette inoltre di considerare in maniera corrispondente, quelle forme alternative e potenziali di abitare gli spazi di vita comuni, che rompono con una visione di spazialità considerata già totalmente progettata, o egemonizzata.

L’autrice tenta dunque di muoversi sempre su un doppio binario: da una parte l’identificazione dei caratteri peculiari delle modalità progettuali neoliberali, dall’altra il suggerimento delle diverse linee di fuga che ne permettono una disarticolazione e la conseguente sperimentazione verso possibilità alternative di vivere lo spazio urbano. In un contesto di questo tipo infatti, lo spazio non è mai una geometria neutrale, esso è costantemente attraversato da flussi di potere, risorse, informazioni, corpi ecc… che lo determinano rendendolo unico, e allo stesso tempo espressione di precise decisioni che a loro volta incarnano specifici interessi. L’urbano costituisce uno spazio tutt’altro che piatto, monotono, pacifico e abitudinario, esso è segnato da una relazionalità che è sempre in movimento (e fermento), fonte di infiniti incontri/scontri, di fenomeni imprevisti, di pura creatività; l’urbano insomma è tutt’altro che uno spazio liscio. Le città diventano non a caso il cuore materiale del capitalismo contemporaneo, il crocevia di scambi e produzioni che innervano i territori i quali sono gli spazi dove la materialità e l’immaterialità della vita individuale e collettiva, privata e pubblica, si incontrano, si scambiano, si riproducono e si consumano.

Alla luce di quanto detto, dovrebbe allora diventare già più chiaro il perché sia necessario studiare i modi attraverso cui il neoliberismo (che non è mai solo una dottrina economica ma piuttosto una modalità più ampia di concepire l’esistenza individuale sotto tutti i suoi punti di vistai) progetta lo spazio di vita di ciascuno. L’urbanistica viene così a rappresentare un sapere di vitale importanza, capace di mediare tra le istanze vitali quotidiane del singolo e quelle relative ai modi di organizzazione di spazi mai neutrali, come scrive Bernardo Secchi: «l’urbanistica non è pratica acquiescente, essa deve rimanere un continuo esercizio radicale di critica sociale»ii. Urbanistica quindi quale pratica di immaginazione di un abitare differente, mediante il disegno dei luoghi dell’amore, della conoscenza, del lavoro, del divertimento; cioè mediante l’organizzazione del vivere in spazi generativi che stimolino la creatività, l’inclusione, l’ospitalità o più in generale il cosiddetto well-being, spazi dunque intrinsecamente politici.

Se tutto ciò può apparire in prima battuta un discorso alquanto retorico e superficiale, basta osservare più da vicino l’operare neoliberale per rendersi invece immediatamente conto della necessità ed urgenza di ripensare i modi di progettare l’abitare comune. Proprio il progetto, cuore di tutta l’urbanistica e secondo Bianchetti «momento alto della politica», viene qui osservato alla luce del suo cadere nelle maglie di un nuovo funzionalismo, ma che cos’è di preciso questa modalità progettuale neoliberale? Per rispondere l’autrice individua tre piste principali che delineano i tratti caratteristici di tale progettualità:

  1. Autocrazia: «la riduzione funzionalista rimanda a un potere impersonale che ridisegna i comportamenti. Rimanda alla fiducia in sistemi gerarchicamente strutturati e bene organizzati, cui sono conferiti supremazia logica e maggiore efficienza in virtù della loro gerarchia e del loro ordine»iii

  2. Riduzione della densità dello spazio e dei processi: cioè l’imbrigliamento di questi due elementi all’interno di dispositivi formali che riducono la qualità dell’abitare a standard, ad agenzie di monitoraggio, ad indicatori, in nome della razionalità dell’uso degli spazi totalmente inquadrati in categorie e griglie, nella convinzione che la ‘densità normativa’ sia il miglior strumento per organizzare, dunque gestire, la complessità urbana: «densità normativa è innanzitutto moltiplicarsi di prescrizioni e divieti e questo tocca il progetto e la sua critica, entrambi sempre più frequentemente affidati a regole». La seconda caratteristica si può dunque riassumere nella ricerca di uno spazio che vuole essere completamente codificato e codificabile.

  3. Negazione dell’individualità del soggetto e dell’azione: i punti uno e due confluiscono poi in una sorta di antropologia neoliberale che vorrebbe il soggetto, cioè l’abitante, come un’entità totalmente calcolabile, dove i suoi desideri, aspirazioni, sentimenti e conflitti sono tenuti a basso regime, vengono permessi brevi momenti di sfogo immediatamente riassorbiti e comunque sempre normativamente stabiliti. A questo livello i dogmi dell’efficienza, della capacità gestionale, dello sfruttamento (perenne ma mai eccessivo), dell’autocontrollo ecc… trovano diretta espressione in un rigoroso modello di colui che dovrà popolare gli spazi urbanizzati secondo i precedenti canoni.

Volendo riassumere tutti e tre gli aspetti in un’unica osservazione, si potrebbe affermare che l’urbanistica neoliberale schiaccia la progettualità sulla regola, sulla norma, sul codice, imponendo il dominio di uno spazio ridotto a necessità, nel quale la pluralità, la contingenza, la differenza sono negate, fino a che non si ottiene uno spazio rigido e piatto nel quale è possibile solo l’adeguamento o la rivolta. Ciò comporta contemporaneamente il proliferare e il radicarsi del disagio, dell’esclusione, e di tutte quelle forme di violenza che nascono per rassegnazione o disperazione, perché si viene dimenticati o rinchiusi. In uno spazio neoliberale di questo tipo non si permette al dissenso o alle semplici individualità di fluire, per riprendere un termine caro a Saskia Sassen (il cui ultimo libro è stato recensito sempre per Pandora qui: http://www.pandorarivista.it/articoli/espulsioni-saskia-sassen/): o ci si adegua alla ‘densità normativa’ o si viene espulsi, e l’espulsione costituisce una forma radicale di esclusione rispetto alla quale non è prevista ri-abilitazione, si è fuori dallo spazio normativo nonostante si continui ad occupare uno spazio fisico, il che crea una schizofrenia necessariamente violenta.

Anche nel contesto urbano, l’atteggiamento neoliberale (dal punto di vista delle pratiche di controllo) si esplica nel rifiuto dell’accettazione di tutti quegli aspetti patologici, problematici, incoerenti, imprevedibili che caratterizzano qualunque territorio. Bianchetti spiega chiaramente come «la città reale funziona per incoerenza e temporalità», e chi ritiene che normativizzare sia sinonimo di organizzazione ed efficienza, mostra una grande miopia verso l’esperienza reale di chi quella città la vive, miopia verso il vissuto quotidiano delle persone che popolano quelli spazi giornalmente, portandosi dietro le proprie specificità e contraddizioni. Il nuovo funzionalismo urbanistico è insomma un progettare sordo e cieco che risponde in gran parte agli interessi di un capitale estremamente differenziato, diffuso, policentrico e adattivo, che necessita però di città e territori nei quali muoversi senza incontrare ostacoli, incongruenze, ostilità, pieghe, uno spazio dunque, come già scritto, totalmente liscio.

Ad essere completamente rimosso è così il carattere relazionale che dovrebbe legare le finalità della progettualità urbana «ai soggetti, ai corpi, alle passioni, alle pratiche. […] Pare infatti che oggi il realismo sia solo imposizione. Non più campo di esplorazione di possibilità diverse, ma condizione usata in maniera intimidatoria. […] Il reale sembra chiedere innanzitutto sottomissione. Non è solo attrito con il progetto (inteso quale occasione di cambiamento), è imposizione che spesso si regge sulla prevalenza del discorso economico»iv.

Fortunatamente però non è ancora il momento della rassegnazione, anzi, proprio oggi, in questi tempi così ‘maledettamente interessanti’, si aprono grandi possibilità di riscatto e spazi di sperimentazione. «L’attacco al riduzionismo funzionalista quarant’anni fa veniva portato avanti entro due principali angolazioni: da un lato Henri Lefebvre, a sfidare l’ortodossia marxista e rifondare un’idea di diritto in senso esteso, contro la burocratizzazione della cittàv. […] Dall’altro lato, la pista anarchica di Colin Ward»vi che vedeva nel funzionalismo il depotenziamento delle possibilità di scegliere, e il conseguente tentativo di rimozione della complessità. Nel 2016 però lungo quali piste ci si può muovere per tentare di disarticolare una progettualità neoliberale come quella descritta sopra? Per rispondere bisogna in primo luogo occuparsi dei tre aspetti fondamentali e produttivi per l’analisi politica che individua l’autrice, e considerarli quali tre possibili linee di fuga per rompere l’apparente omogeneità dello spazio urbano neoliberista:

  1. «il nuovo funzionalismo non riesce a fronteggiare il sovrapporsi di familiare ed estraneo», cioè per esso lo spazio non può che essere trasparente, igienizzato, chiaro, dove tutto ricade sotto la codificazione binaria di familiare (accettabile) o estraneo (inaccettabile), senza riuscire ad elaborare uno sguardo più articolato in grado di accorgersi come ciò che in un primo momento è estraneo può diventare familiare, possono nascere logiche di condivisione o di cooperazione, la differenza può venire integrata senza che perda la sua distintività grazie ad esempio alla ri-scoperta dalla dimensione del Comune.

  2. «Il nuovo funzionalismo non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio», oggi si assiste infatti all’irruzione del corpo nello spazio pubblico in una molteplicità di maniere assolutamente differenti, le quali però condividono la rivendicazione di un elemento di pesantezza, di materialità, di pienezza contro l’ideale di spazio popolato solo da leggerezze, astrazioni, norme e flussi. Il corpo è rottura, in quanto incessante produzione di desideri, bisogni, sentimenti, risorse, che pluralizzano lo spazio pubblico rendendolo perennemente non pacificato.

  3. «Il nuovo funzionalismo non riesce a misurarsi con le forme molecolari, sconnesse, micro della sovranità e del conflitto»vii, aspetto questo tra i più difficili da affrontare poiché chiama in causa una grande varietà di attori e problemi, anche se il centro del discorso ruota attorno alla creazione autonoma di piccole bolle di sovranità, all’interno di uno sfondo tecnocratico dove la rappresentanza è venuta meno e non si annuncia ancora una forma di organizzazione convincente in grado di riarticolare i conflitti e renderli trasformativi.

L’estraneo e il familiare, il corpo e lo spazio, la sovranità e il conflitto sono nodi (a ognuno di essi viene dedicato un capitolo nel libro) che sfuggono al riduzionismo funzionalista, la città non è un tutto organico e territorializzato, un sistema in equilibrio dove la produzione è solo quella di stampo neoliberale, cioè produzione per il capitale. Nei territori e nelle città vi sono delle irriducibilità che sfuggono alla normazione poiché completamente estranee, impreviste o emergenti, e sono queste le istanze da coltivare mediante l’aiuto di una politica che sia intenzionata a salvaguardare le differenze (intese nell’accezione più vasta del termine, ovvero come qualunque elemento di rottura e differenziazione) e a renderle poi generative attraverso forme di organizzazione che lascino un certo grado di autonomia, senza ovviamente scadere in processi totalmente controproducenti di de-istituzionalizzazione.

La sfida è quella di vedere nella progettazione una forma di vincolo che non si faccia sinonimo di disciplinamento estremo, ma diventi il carattere necessario per lo sviluppo di individualità libere e per la rottura del meccanismo di riproduzione dei rapporti sociali esistenti: progettare per trasformare, organizzare per agire. A partire infatti da queste problematiche in ambito urbanistico si potrebbe poi passare alla discussione delle tematiche riguardanti l’organizzazione delle forze politiche in un contesto urbano così complesso e tutt’altro che liscio, nonché si potrebbe discutere dell’identità e del ruolo delle istituzioni che detengono una posizione di primaria importanza in qualunque territorio o tessuto urbano, ma di questo si darà conto in futuri lavori.

Volendo concludere questa breve presentazione, si deve infine sottolineare che le tre direttrici individuate dall’autrice permettono di chiarire meglio cosa significhi realizzare uno spazio (perché lo spazio è sempre frutto di un agire politico che sottrae ad esso la neutralità propria dello spazio vuoto abitandolo con decisioni, sentimenti, corpi, e rendendolo così immediatamente schierato, attraversato da flussi e forze che tracciano distinzioni e innescano l’uso dei poteri) capace di essere allo stesso tempo progettato ma anche passibile di auto-organizzazione, circoscritto ma anche aperto a nuovi confini ed ampliamenti, abitato nel presente ma attrattivo per il futuro, uno spazio insomma popolato da linee di fuga, da minoranze, da progetti singolari, da pratiche sperimentali che attraversano lo spazio fisso dello Stato dilagando in uno spazio nomade dove non esiste alcuna possibilità di una sua appropriazione definitiva. Un elemento di pregio che va certamente riconosciuto a questo libro sta nella sua abilità a mescolare l’avanguardia della filosofia francese secondo-novecentesca, in particolare quella post-strutturalista, con una riflessione riguardante i fondamenti della stessa urbanistica la quale, al di là dell’egemonia neoliberale, soffre realmente di una perenne tendenza a ricadere verso una dimensione del progetto eccessivamente funzionalista.

In un articolo di qualche tempo fa Antonio Lavarello si chiedeva: «Che cosa resta da fare ad un’architettura che non può più permettersi il lusso di ribellarsi? L’alternativa alla completa integrazione sembra essere costituita da una disincantata ma sistematica resistenza»viii. Con il libro della Bianchetti si può tentare di fare un passo in avanti, non limitandoci più alla semplice resistenza, ma cercando di renderla sistematica in maniera tale da produrre resistenze istituenti, cercando cioè di riconoscere all’abitare e alla sua progettazione il carattere di piena politicità che gli spetta, affiancandoli poi con un’azione specificatamente politica che abbia prima di tutto la cultura sufficiente per accompagnare, consigliare, incentivare una spazialità abitativa libera dal disciplinamento normativo e fertile per qualsiasi individualità desiderante.

La vera domanda che resta infatti per il momento senza risposta è: come integrare in questo discorso l’agire delle istituzioni politiche, così da innescare la sperimentazione di pratiche realmente produttive e alternative? Come far ripiegare su se stessa la filosofia manageriale del cambiamento e dell’innovazione per poi impiegarla contro lo stesso modello neoliberale dominante, quindi come e quale spazio progettare che sappia dare forma alla moltitudine di quei ‘desideri urgenti’ che trovano nell’urbano la loro culla e la loro arena?


i# Cfr., Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, prefazione all’edizione italiana di Paolo Napoli, Roma: DeriveApprodi, 2013.

ii# Bernardo Secchi, La città del ventesimo secolo, Roma: GLF editori Laterza, 2005.

iii# Ivi, p. 7.

iv# Ivi, pp. 111-115.

v# Si legga a questo proposito l’articolo di Paolo Missiroli nel numero cartaceo 3 di Pandora dedicato alla città.

vi# Cristina Bianchetti, Spazi che contano : il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, Roma: Donzelli, 2016, p. 101.

vii# Ivi, p. 57.

Scritto da
Andrea Baldazzini

Ricercatore Senior presso AICCON, centro di ricerca dell’Università di Bologna dedicato alla promozione della cultura della cooperazione e del non profit, dove si occupa di imprenditoria sociale, innovazione e trasformazioni dei sistemi di welfare territoriale. Svolge inoltre attività di formazione e consulenza per organizzazioni di terzo settore e pubbliche amministrazioni. Per «Pandora Rivista» è membro della Redazione.

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