Usare l’Intelligenza Artificiale Sociale per creare beni comuni: un estratto dal libro di Vanni Rinaldi
- 04 Dicembre 2025

Usare l’Intelligenza Artificiale Sociale per creare beni comuni: un estratto dal libro di Vanni Rinaldi

Scritto da Vanni Rinaldi

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I dati rappresentano il punto di partenza per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Una riflessione sui modelli della loro gestione può essere la base per immaginare un’intelligenza artificiale più orientata al perseguimento di obiettivi socialmente desiderabili. In Intelligenza Artificiale Sociale (Rubbettino 2025), Vanni Rinaldi – cooperatore, innovatore e giornalista – riflette sui percorsi possibili per arrivare ad IA che producano “beni comuni digitali”. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore e dell’editore Rubbettino, un estratto del libro.


«Le nuove tecnologie informatiche stanno cambiando il modo tradizionale di vedere le cose e in qualche maniera anche il mondo così come lo conosciamo. La Intelligenza Artificiale (IA) potrebbe condurre l’essere umano a superare i suoi limiti cognitivi e biologici. Con il rischio futuribile ma non troppo di creare un universo in cui l’intelligenza sia separata dalla consapevolezza e dalla umanità stessa. Un rischio distopico quest’ultimo che impone una riflessione pubblica. Non si tratta però di una novità. Proprio su un presupposto di questo tipo, le ICTs (Information and Communication Technologies) sono state studiate non solo dal punto di vista della scienza e delle sue applicazioni ma anche dal punto di vista del loro impatto morale, sociale e ontologico». Così ha scritto il filosofo Sebastiano Maffettone alla fine di un percorso di ricerca avviato nel 2013 tra l’Università Luiss e la Lega delle Cooperative, che si poneva l’obiettivo di analizzare criticamente il rapporto tra noi utenti e le piattaforme digitali per creare «un nuovo rapporto virtuoso e paritetico» e quindi più giusto, tra queste entità nel nuovo mondo digitale. Un tentativo di “mutualizzare il digitale” attraverso la condivisione dei dati digitali in forma cooperativa che il progetto Cooperative Commons, aveva posto alla base di un modello alternativo, appunto cooperativo e democratico, del futuro digitale.

In realtà siamo entrati, 12 anni dopo, in una fase avanzata di quel cambio di paradigma di cui si parlava nel Manifesto di Cooperative Commons. L’incredibile successo delle prime applicazioni di intelligenza artificiale generativa come ChatGPT e di tutte le successive evoluzioni, ha dimostrato come siamo di fronte ad un salto di qualità di cui l’intelligenza artificiale è l’epifenomeno, l’ultimo ritrovato del marketing globale. L’ennesima pietra filosofale con cui i venture capitalist, i veri alchimisti dei nostri tempi, stanno trasformando in oro il digitale.

Ma dietro il successo e la diffusione dell’IA, al di là dei significati semantici e filosofici, c’è qualcosa di molto concreto: l’incredibile potenza di calcolo dei nuovi computer che sono dati dall’enorme forza bruta della nuvola (cloud) e dei chip, ma sono soprattutto il frutto della progressiva e inarrestabile “datificazione” del mondo.

Oggi che l’IA è in forte crescita, si sta sempre più polarizzando la discussione che coinvolge i Governi, le istituzioni sovranazionali, e che è arrivata a coinvolgere persino il Santo Padre, tra tecno-entusiasti e catastrofisti. Favorendo così ancora una volta le forze tecno-capitalistiche che sfruttano il disorientamento che scaturisce nelle opinioni pubbliche da una narrazione bipolare, per rafforzare le loro posizioni di monopolio sulle materie prime digitali.

Il mondo digitalizzato, che si sta sempre più espandendo, è guidato dalle informazioni, che a loro volta derivano dai dati. Più dati si posseggono, più informazioni si hanno, più potere si detiene. Questo principio, che non è certo nuovo nella storia dell’umanità, sta accelerando alla velocità oggi consentita dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali che possono raggiungere miliardi di esseri umani in pochi mesi, favorendo un’asimmetria informativa senza precedenti. Questa asimmetria informativa consente un sempre maggior accumulo di potere economico e politico da parte di pochissimi soggetti privati come è oramai evidente nel caso degli USA, o di Governi come nel caso della Cina, e moltiplica i fenomeni di disuguaglianza all’interno delle società. Non solo disuguaglianza sociale ed economica ma anche cognitiva. Un nuovo “colonialismo digitale” sta espropriando le risorse informative attraverso l’uso dei loro dati digitali, di miliardi di persone ovunque nel mondo, purché connessi, e le sta usando per accrescere a dismisura la potenza dei propri strumenti tecnologici, e in particolare l’IA.

Nella transizione digitale, come nella transizione gemella, quella energetica, ciò che finora sappiamo per certo è che i processi in atto continueranno a procedere inarrestabili, guidati da leggi interne e dalla forza del mercato. Per cui sarebbe meglio incominciare a chiamarle trasformazioni, piuttosto che transizioni, per segnalare in maniera più efficace la dimensione e la profondità dei mutamenti che porteranno. Quello che non sappiamo è come la società li istituzionalizzerà e quindi quali cambiamenti effettivi comporteranno.

Quelli che conosciamo sono i trend scientifici dei cambiamenti, come nel caso del clima, cioè le dinamiche del riscaldamento globale dovuto alle emissioni climalteranti e i loro effetti sull’ambiente, così come conosciamo i trend scientifici sullo sviluppo delle tecnologie digitali, come la legge di Moore sul raddoppio della capacità di calcolo dei chip e i loro effetti sui materiali e sugli oggetti tecnologici che usiamo.

Quello che invece ancora non conosciamo, perché siamo noi a determinarlo attraverso i significati che attribuiamo a questi processi, è come influiranno sulla società e nelle nostre vite. In realtà esistono solo due modi per affrontare qualsiasi cambiamento significativo: subirlo o governarlo. Ma per affrontare qualsiasi fenomeno sociale, parafrasando Antonio Gramsci, bisogna prima conoscerlo, poi agitarsi e infine organizzarsi.

Cercare di conoscere il fenomeno della trasformazione digitale soprattutto negli effetti sulla società e sulla vita delle persone non basta, c’è bisogno poi di proporre qualcosa per dare un segno diverso a quello che sta accadendo davanti a noi, con la nostra colpevole indifferenza. E infine bisogna organizzarsi per fare in modo che un futuro diverso da quello disegnato sia possibile.

L’IA è, secondo la definizione data dall’UE nell’IA Act è «un software sviluppato con una o più tecniche, […] che può, per una determinata serie di obiettivi definiti dall’uomo, generare output quali contenuti, previsioni, raccomandazioni o decisioni che influenzano gli ambienti con cui interagiscono». Si tratta dunque di uno strumento molto potente e sicuramente destinato a diventare pervasivo nelle nostre vite. Ma anche un “pappagallo stocastico”, cioè una tecnologia basata sulla dittatura della “media statistica” del risultato, che si alimenta di dati grezzi e dei bias (errori) che essi contengono, e priva a tutt’oggi di capacità di pensiero. Quindi il rischio è che, se non si opera un allargamento e una diversificazione dei modelli di IA, introducendo anche un modello che inverta il senso attuale in direzione di una nuova epistemologia delle tecnologie digitali affinché possano essere utilizzate anche per fare le cose ritenute utili e giuste dalle persone, pochi soggetti privati avranno il potere per “influenzare” la parte di società con cui questi sistemi interagiscono, e cioè la maggior parte, a loro vantaggio. Un rischio sempre più presente, dal momento che i cambiamenti di scenario in corso, e cioè l’uso massiccio delle tecnologie digitali, insieme alla finanziarizzazione e alla globalizzazione, hanno prodotto uno spostamento progressivo e inarrestabile della distribuzione della ricchezza dal lavoro al capitale, spegnendo il sogno della classe media basato sull’ascensore sociale e aumentando a dismisura la disuguaglianza sociale ed economica. Queste trasformazioni hanno contribuito a favorire una “secessione di massa” dalla società e la nascita di un “io tiranno”, l’individuo digitale, che sempre più si isola grazie alla tecnologia in una postura digitale risentita e frustrata, mettendo in crisi le fondamenta stesse della democrazia.

Però qualsiasi tecnologia produce effetti a partire dal modo in cui viene recepita nelle istituzioni e nella società. E questo modo dipende da un lato dalla capacità delle classi dirigenti di interpretare i bisogni delle persone alla luce dei cambiamenti che vengono introdotti dalla stessa tecnologia, e dall’altro però, dalla capacità delle persone di partecipare a questo sforzo epistemologico e democratico. In un circuito cooperativo di retroazione tra conoscenza e politica.

Ecco dunque il bisogno di costruire una diversa interpretazione e un diverso uso delle tecnologie digitali a partire dall’IA, rispetto a quelli che ci vengono oggi offerti e che tengono conto solamente delle logiche di profitto del capitale, e tuttalpiù delle dinamiche di efficientamento produttivo, mettendo in campo una interpretazione di senso diversa, che invece crei valore anche dai valori etici di riferimento delle persone per favorire lo sviluppo di un nuovo possibile modello alternativo, quello dell’Intelligenza Artificiale Sociale (IAS). 

L’IA Sociale è infatti un uso possibile delle tecnologie di analisi dei dati digitali che risponde prioritariamente ai bisogni dei cittadini/utenti, la cui proprietà è democratica, valorizzando il fattore umano. Quindi potremmo definirla come un “bene pubblico digitale”, così come viene riconosciuto anche dal Global Digital Compact delle UN, in contrapposizione all’utilizzo dominante delle IA gestite da società capitalistiche il cui fine ultimo è il profitto e il “controllo”.

Le IAS sono dunque un “bene pubblico digitale” che si può sviluppare a partire dai dati, un bene che produciamo nell’interazione con queste tecnologie e di cui queste si nutrono, ma il cui utilizzo ci è stato sottratto a favore di un gruppo ristretto di entità che si nascondono dietro “nuvole” digitali, giocando a rimpiattino con leggi e regolamenti. Di queste tecnologie abbiamo bisogno perché decideranno il nostro futuro, in un modo o in un altro. Alcuni dei “beni comuni digitali” che le IAS potrebbero aiutare a produrre sono quelli che servono a raggiungere gli SDGs, gli obiettivi di sviluppo sostenibile approvati nell’Agenda 2030. Sono le linee guide con cui la maggior parte delle Nazioni ha deciso di affrontare in maniera concreta alcune delle sfide più importanti del mondo di oggi, dalla crisi climatica, alla lotta alla povertà e alla fame nel mondo, alla realizzazione di città sostenibili, alla transizione alle energie rinnovabili. Sono 17 macro-temi e oltre 296 target, e molti studi dimostrano che l’IA potrebbe contribuire al raggiungimento di una parte di questi obiettivi, se adeguatamente nutrita di dati sociali di qualità e se governata in maniera democratica. Se però fosse un’Intelligenza, si Artificiale, ma anche Sociale.

Le IAS, non sono un’invenzione letteraria o politica, sono già state sperimentate e utilizzate, anche in Italia, per esempio nella lotta alla povertà attraverso l’analisi di “data set sociali” che consentono di “predire” e contrastare l’avanzare della povertà. Così come vengono immaginate per aiutare il percorso di transizione alle energie rinnovabili, facilitando meccanismi di condivisione energetica mutualistici, finalizzati all’efficienza, alla sostenibilità ambientale e al contenimento dei costi e alla lotta alla povertà energetica. Un altro campo in cui le tecnologie dell’IAS stanno dando un contributo importante, è quello di accompagnare una trasformazione del sistema attuale della sanità, dal modello curativo, che non regge più di fronte alla sfida demografica, ad un modello preventivo e partecipativo, dove l’uso delle IAS può non solo efficientare e ridurre i costi ma accompagnare un vero e proprio cambiamento culturale con una partecipazione attiva delle persone.

Ma per alimentare di dati di qualità le IAS, bisogna prima di tutto liberare i dati dai server dove oggi sono detenuti, senza un regolare processo.

È una vera e propria guerra quella che si è scatenata intorno al possesso dei dati digitali da parte delle Big Tech e gli scontri di potere che hanno caratterizzano questa nuova corsa all’oro, ma anche la possibilità di usare in maniera diversa i dati digitali da parte dei cittadini, e cioè come un bene comune. I dati digitali sono stati infatti più volte paragonati al “nuovo petrolio” di questa rivoluzione industriale. Ma in realtà in quanto “beni non rivali” i dati, a differenza del petrolio, si possono riusare all’infinito. Anzi più si utilizzano e più acquistano valore.

Per questo è possibile un nuovo modo di utilizzazione dei dati per accrescere i beni comuni nella società, in una sorta di “new deal” digitale. Per consentire questo obiettivo di empowerment del cittadino/consumatore, c’è bisogno di condividere i dati per costruire delle vere e proprie “reti fiduciarie” tra cittadini, capaci di competere con le logiche “espropriative” delle piattaforme private. Bisogna che i dati siano liberati e possano anche essere aggregati dai cittadini, sulla base di principi che non siano solamente quelli del profitto, dell’avere, ma anche quelli dell’essere, anzi del benessere delle persone. E per questo bisogna fare in modo che le leggi a nostra disposizione, particolarmente in Europa, possano produrre quegli effetti, che le dichiarazioni e i proclami politici promettono, ma che finora sono rimasti sulla carta.

Il percorso del quadro normativo e politico europeo nel corso degli ultimi anni in materia è stato difficile e tormentato, però i dispositivi giuridici creati a livello europeo consentono oggi di immaginare una strategia di condivisione dei dati con la creazione dei nuovi “intermediari dei dati”, che potranno aiutare a costruire un ecosistema europeo di condivisione dei dati sociali, finalizzato allo sviluppo delle nuove IAS. È ad esempio il caso concreto delle “cooperative dei dati”, e i presupposti giuridico-politici del “mutualismo digitale”, inteso come alternativa ai rischi del modello “espropriativo capitalistico”, ma anche come elemento di rinnovamento dei principi cooperativi in direzione dell’accoglimento dei cambiamenti introdotti dalle tecnologie digitali, e il loro utilizzo ai fini non solo di una “rinascita cooperativa”, ma soprattutto il loro uso concreto da parte dei cittadini/consumatori per la creazione (alimentazione) di queste IA Sociali attraverso un nuovo soggetto (o servizio) cooperativo, e cioè le “cooperative di dati”, che sono finalmente a disposizione dei cittadini europei, e quindi anche italiani, grazie al Data Governance Act (DGA).

Ma tornando al parallelo gramsciano bisogna anche organizzarsi. E per questo io credo si debbano usare, rinnovandoli e digitalizzandoli, alcuni degli strumenti che la società civile ha creato per rispondere, oltre 150 anni fa, agli “eventi avversi” che la seconda fase dell’industrializzazione stava creando nella società di allora. Questi strumenti sono i corpi intermedi, cioè tutte quelle entità come i sindacati, le cooperative, le associazioni di volontariato, le mutue sanitarie, le misericordie, gli enti del Terzo settore e tanti altri, che ogni giorno nelle nostre società si occupano di fornire supporto, aiuto e servizi concreti alle persone, coprendo le insufficienze sempre più grandi dello Stato e contrastando lo spirito espropriativo del capitalismo. Qui si propone di far partecipare tutte le forze della cosiddetta “economia sociale” alla realizzazione di un nuovo “patto sociale digitale” che metta al centro un diverso e più equo rapporto tra lo Stato e i privati da un lato, e i mondi rappresentati dai “corpi intermedi”, finalizzato alla condivisione dei dati digitali per creare un ecosistema dove poter sviluppare in collaborazione tra i diversi stakeholder le IAS del futuro. Delle intelligenze artificiali, ma con un “anima” sociale, che possano dunque servire alle persone per rispondere con equità e sostenibilità ai loro reali bisogni. Perché come ha scritto uno dei più autorevoli storici della scienza, Alexandre Koyré: «la macchina intendo dire l’intelligenza tecnica dell’uomo – ha mantenuto la sua promessa. Sta alla sua intelligenza politica e alla sua intelligenza tout court di decidere a quali fini egli impiegherà la potenza che essa ha messo a sua disposizione».

Scritto da
Vanni Rinaldi

Presidente di CoopTech e Responsabile innovazione di Legacoop. Cooperatore e innovatore, è stato anche giornalista ed editore. Ha contribuito a fondare e dirigere diverse imprese nel mondo della telefonia mobile, di Internet e dei Big Data. Ha contribuito a scrivere e lanciare il Manifesto di “Cooperative Commons” per un uso etico e democratico delle tecnologie digitali. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Dalle Coop alle Co-app. Per una condivisione etica dei Big Data” (Rubbettino 2019).

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