Recensione a: Adriano Favole, Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura, Utet, Torino 2018, pp. 144, 12 euro (scheda libro).
Scritto da Andreas Iacarella
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In un suo articolo del 2007, Fabio Dei si interrogava sulle difficoltà dell’antropologia, italiana in particolar modo, di entrare in modo autorevole nel dibattito pubblico[1]. A più di dieci anni di distanza, la sua analisi conserva una parte di verità.
La capacità degli antropologi di professione di intervenire nella comunicazione pubblica sembra ancora piuttosto insoddisfacente. E sebbene non siano mancati esempi di grandi comunicatori, una per tutti Amalia Signorelli, l’antropologia mantiene a tutt’oggi un profilo accademico, piuttosto che divulgativo.
Le ragioni di questa carenza, come evidenziava Dei, risiedono sicuramente in una specificità del sapere antropologico, che è una scienza della complessità più che della semplificazione, seguendo la quale le questioni e gli interrogativi fioriscono, piuttosto che risolversi. E questo difficilmente si può adattare ai toni e ai modi della discussione massmediatica. A ciò va aggiunto inoltre uno scarso riconoscimento da parte dello Stato[2].
Eppure, questi elementi non bastano forse a spiegare. Nel suo scritto Dei attribuiva alla categoria cui anche lui appartiene un eccessivo timore, dato dalla paura di «finire stritolati all’interno di un contesto comunicativo che chiede prese di posizione nette, che non accetta distinguo troppo sottili (…), che antepone la polemica alla comprensione»[3]. In un momento storico come quello attuale, però, la sfida non è forse rimandabile. Di fronte alla comparsa di nostalgie nazionaliste e nuovi difensori di identità religiose e culturali più o meno fittizie, si sente forte l’esigenza del pensiero antropologico e della sua lezione di decostruzione di queste categorie.
Per risollevare una discussione giornalistica altrimenti fortemente impoverita, è quanto mai necessario riuscire a portare quei contenuti in contenitori più adatti all’ampia fruizione. Questo è in fondo quanto un gigante del pensiero come Ernesto de Martino ha fatto per tutta la propria vita, non rifiutando mai di offrire la propria scienza al rapporto con il grande pubblico, prestando la sua penna a Il Mondo o l’Avanti! come pure ai piccoli giornali locali. Forse a fare la differenza è l’urgenza di dire, di fare della ricerca uno strumento di tutti, ma ancora meglio, di comporre la propria ricerca nel rapporto.
Questo è certamente uno dei meriti più grandi del lavoro che Adriano Favole compie ormai da anni nel campo della divulgazione. Il termine non è gradito al professore piemontese, che preferisce parlare di una «economia circolare della conoscenza»: il ricercatore, come ogni essere umano, «abita catene di interdipendenze» (p. 129) e conduce dunque la sua ricerca seguendo il filo di rapporti, intrecci e relazioni.
Il suo ultimo saggio, Vie di fuga, è il frutto di questa attitudine, essendo nato dalla discussione proposta da Favole durante il festival di antropologia di Pistoia, Dialoghi sull’uomo. Come nei volumi precedenti (La bussola dell’antropologo. Orientarsi in un mare di culture, Laterza 2015; Oceania. Isole di creatività culturale, Laterza 2010), anche in questo l’autore ha saputo magistralmente coniugare i frutti della ricerca specialistica con una scrittura chiara ed efficacemente comunicativa.
Il testo propone otto tappe, otto “vie di fuga” che costituiscono altrettanti momenti di riflessione attraverso i quali il lettore è guidato nel difficile compito di mettere in crisi una visione granitica della cultura, per aprirsi a quella porosa offerta dall’antropologia. Teatro, satira, gioco sono presentati come modalità di espressione del sé che disvelano le nostre parzialità dello sguardo. Il punto di vista eurocentrico è costantemente messo alla prova, attraverso le parole di Swift o quelle meno note di Tjibaou. Procedendo nelle pagine, si prova così la straniante sensazione di essere defraudati del proprio senso di conchiusa centralità: il rapporto e la conoscenza delle culture altre scardinano ogni facile schematismo. Piuttosto che la ricerca di una irrealistica identità culturale tradizionale, l’invito è a far propria la consapevolezza che «la cultura abita lo spazio virtuale che lega tra loro gli esseri umani. Come la corrente elettrica, la cultura vive di relazioni, di transiti, di resistenze che ne manifestano l’esistenza e non può semplicemente essere “accumulata” e chiusa in una tradizione» (p. 26).
A ben guardare il vero cuore del testo di Favole è l’idea di creatività: la «vocazione alla progettualità, alla creatività, al nuovo» è una delle caratteristiche fondanti di tutte le culture umane (p. 15). Ciò che profondamente ci definisce, sostiene l’antropologo, non è soltanto l’appartenenza ad un ambito culturale ben determinato, di cui siamo al tempo stesso prodotti e produttori, ma anche la capacità di uscirne, la «capacità di (…) guardare il futuro, di immaginare altri mondi» (p. 78). La storia dell’Homo sapiens è stata fin dall’inizio una storia di “fuga” verso l’ignoto.
Questo è facilmente coglibile nei momenti liminali della vita culturale (riti di passaggio, crisi), momenti in cui si spalancano gli orizzonti più vasti. La crisi (krisis in greco) è insieme occasione di distacco, separazione, e di apertura verso nuove possibilità creative.
Non a caso il leader indipendentista oceaniano Jean-Marie Tjibaou usava dire: «l’identità è davanti a noi, mai dietro. E penso che sia una riformulazione permanente» (Cit. a p. 99). La sua concezione del futuro del proprio popolo non poggiava sulla ricerca di una perduta identità originaria, ma sullo sforzo di aprirsi al divenire. La decolonizzazione e l’attuale realtà di una società multiculturale hanno offerto l’occasione di un ripensamento delle culture tradizionali e non: non più monoliti da venerare e custodire, ma realtà in trasformazione, dialoghi permanenti e mai risolti tra esseri umani.
In questo senso il migrante, anche inconsapevolmente, è una delle figure più rappresentative del nostro tempo: un “passeur culturale”, un “mediatore”, un “traghettatore” che può favorire una sana «laicità (culturale)» (p. 55). A questo proposito un grande intellettuale italiano, Armando Gnisci, intitolava una sua raccolta di saggi Creolizzare l’Europa. E in effetti quella del creolo è forse l’immagine nuova cui l’occidente dovrebbe aprirsi: «orizzonti assolutamente diversi e che realmente si creolizzano, che realmente si stratificano e si confondono l’uno nell’altro per dar vita a qualcosa di assolutamente imprevisto e di assolutamente nuovo, la realtà creola»[4].
Il percorso disegnato da Favole porta dunque ad un progressivo spogliarsi di idee preconcette, di capitolo in capitolo l’antropologo rilancia sempre più alta la sfida. Problematizzando la nozione di cultura, quello che immediatamente si rivela è la debolezza di ogni costruzione identitaria escludente che su di essa provi a fondarsi[5]: «le culture producono somiglianza e condivisione, non uniformità (…). Prevedono vie di uscita, non istituiscono simboliche cinture di castità» (p. 40). Questo con buona pace dei sovranisti europei di varia provenienza.
In questo modo il concetto di cultura risulta al tempo stesso indebolito nella rigidità dei suoi schemi ma arricchito nelle sue possibilità euristiche e politiche. Citando il famoso episodio della “tregua di Natale” del 1914, Favole conferma l’idea che anche nei momenti più difficili della loro coesistenza, gli esseri umani hanno sempre saputo risvegliare un «interesse reciproco» che ha aperto una via di fuga.
L’ultimo passo, proposto dall’antropologo, è forse il più complesso. Seguendo le suggestioni di una «nuova ecologia», Favole presenta l’idea di studiosi come Philippe Descola che si sono interrogati sul superamento dell’opposizione natura/cultura, per giungere ad una visione omnicomprensiva nella quale i diversi esseri viventi, umani e non, siano solo differenti modulazioni del reale. Questo probabilmente il passaggio più difficilmente digeribile del saggio di Favole, cui si potrebbe rispondere con un rilancio in altro senso della sfida: se un oltre la cultura può essere preso in considerazione dall’antropologia, questo forse può essere quel «fondo comune di umanità» (p. 43) che fa vivere i rapporti anche nell’atroce quotidianità della Grande guerra. Quanto vi è nell’uomo oltre e prima la cultura. Su questa linea di ricerca una grande antropologa italiana, Clara Gallini, ha scandagliato l’affiorare nella modernità razionalistica di quello che lei chiamava il “meraviglioso”, e che si potrebbe affiancare a quanto gli psichiatri chiamano “irrazionale”. In quest’ottica, Gallini ha suggerito l’esigenza di «ritrovare il soggetto, come dato storico per cui le regole sono fatte e disfatte, e assieme come persona che le subisce e le modifica in un vissuto individuale e collettivo fatto di intelletto e passione, di ragione e di meraviglioso»[6]. Un rinnovato dialogo con le scienze della mente potrebbe aprire in questo senso nuove prospettive.
In conclusione, il saggio di Favole apre alla discussione questioni di enorme portata e attualità, nutrendo con una fitta rete di rimandi e riferimenti la riflessione sull’oggi. In quest’opera si compie pienamente quello che dovrebbe essere il senso del lavoro antropologico, ovvero il giro lungo che dallo studio delle società altre riporta sui propri passi arricchiti e cambiati, pronti ad approfondire la comprensione di sé. Con questo testo, con grande onestà e generosità, Favole apre anche al lettore comune il “laboratorio” dell’antropologo.
[1] F. Dei, Per un uso pubblico dell’antropologia, «Sociologica. Italian journal of sociology on line», n. 2, sett.-ott. 2007.
[2] Sebbene i beni demoetnoantropologici siano riconosciuti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs 42/2004), la valorizzazione della figura dell’antropologo da parte del competente Ministero è ad oggi del tutto inadeguata. A questo proposito si veda il recente appello delle associazioni di antropologia.
[3] F. Dei, Per un uso pubblico dell’antropologia, cit.
[4] É. Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma 2004, p. 13
[5] In questo il riferimento è alla lezione di Francesco Remotti.
[6] C. Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, L’Asino d’oro, Roma 2013, p. 375.