Scritto da Giacomo Bottos
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Carlo Francesco Salmaso è Vicepresidente Cooperativa Dozza.
Cos’è la cooperazione di abitanti? In particolare, come funziona una cooperativa di abitanti e quali sono le diverse tipologie possibili?
Carlo Francesco Salmaso: La cooperazione di abitanti, come ogni forma di cooperazione, si fonda sul principio dello scambio mutualistico. Le persone si uniscono per raggiungere un obiettivo comune, che nel caso specifico delle cooperative di abitanti è la casa. La cooperativa offre il servizio abitativo grazie alla partecipazione collettiva dei soci, che si mettono insieme per ottenere un alloggio per sé e le persone con cui vogliono vivere. Nel modello della cooperativa a proprietà indivisa, tutti gli immobili realizzati sono formalmente di proprietà della cooperativa stessa, ogni socio detiene una quota della cooperativa, ma non è proprietario del singolo alloggio che utilizza, il quale gli viene assegnato in godimento permanente. Non si tratta di un affitto tradizionale, poiché non ha scadenza e comporta condizioni più vantaggiose. Inoltre, alcune responsabilità normalmente attribuite al proprietario ricadono sulla cooperativa, che opera grazie al contributo dei soci; altre, invece, restano a carico del singolo, che può intervenire sul proprio alloggio, sempre nel rispetto delle norme generali e dei regolamenti interni e che vengono stabiliti collettivamente in assemblea. Nel modello della proprietà divisa, invece, può essere trasferita la proprietà ai soci, e la cooperativa può sciogliersi una volta completata l’assegnazione. In questo caso, la funzione principale della cooperativa è quella di realizzare e assegnare gli alloggi a condizioni di maggiore vantaggio rispetto al mercato.
Oggi ci definiamo “cooperative di abitanti”, non di abitazione, spostando il focus dai muri alle persone, ma nel nostro nome: Cooperativa Edificatrice Giuseppe Dozza, resta la testimonianza del fatto che nasciamo e ci sviluppiamo soprattutto costruendo case. Purtroppo, da più di dieci anni non abbiamo avuto modo di realizzare nuovi alloggi, limitandoci ad assegnare quelli che già costituivano il nostro patrimonio e che si rendevano disponibili quando i soci che lì vivevano si sono trasferiti o, purtroppo, sono venuti a mancare. I nostri alloggi non sono ereditabili, non vengono trasmessi automaticamente ai figli. Certo, se coniugi o figli del socio deceduto hanno sempre abitato nell’alloggio possono acquisire il titolo per rimanervi, ma i nostri regolamenti limitano molto queste casistiche in modo che ci sia possibilità di rotazione. In ogni caso non si tratta di beni che possono essere ereditati, venduti o scambiati sul mercato, ma rimangono accessibili a tutti generazione dopo generazione, che è poi lo scopo della cooperativa. Non siamo un’impresa che ha scopo di lucro, non è il nostro modello sfruttare gli immobili per ottenere il massimo profitto possibile per chi ha investito del capitale. Operiamo nel campo dell’edilizia residenziale sociale, il nostro scopo è garantire alle persone che ne hanno bisogno il miglior abitare possibile e siamo soggetti a vincoli specifici, ad esempio chi riceve un alloggio in godimento non deve possedere altri immobili sul territorio comunale o in comuni contermini e c’è un limite di reddito da non superare. Così i nostri alloggi hanno canoni inferiori al canone concordato e in questo momento, a Bologna, del 60% inferiori dei prezzi di mercato.
Come nasce la Cooperativa Dozza? Quali sono le fasi principali della sua storia?
Carlo Francesco Salmaso: La Cooperativa Dozza ha 105 anni di attività. Nasce nel 1920 come: «la federale a proprietà inalienabile e indivisibile» con 16 alloggi. Durante il periodo fascista, a differenza di altre realtà cooperative o della stessa Legacoop di Bologna, non viene sciolta, ma smette temporaneamente di costruire. È solo nel secondo dopoguerra che riprende l’attività edilizia, ricevendo un grande impulso dalla legge 865/71 sull’edilizia convenzionata. Nel 1980 dopo un processo di fusioni con le cooperative di abitanti Urbanistica Nuova e Avvenire Proletario iniziamo a chiamarci Cooperativa Edificatrice Giuseppe Dozza, con un patrimonio di 423 alloggi, anche grazie agli immobili dalla Cooperativa Appennino.
La crescita delle cooperative di abitanti avviene anche per aggregazione: piccoli gruppi di persone si organizzano per costruire insieme il proprio abitare, e se emerge il desiderio di maggiore solidità, o anche difficoltà finanziarie, si fondono con altre cooperative. Un passaggio significativo avviene nel 1978, con la legge 457, che dà grande impulso alla realizzazione di nuovi alloggi tramite fondi pubblici. In quegli anni la cooperativa riesce ad aggiungere 334 unità abitative. Un ulteriore potenziamento arriva con la legge 179/92, e realizziamo 222 alloggi di cui 73 in autofinanziamento, e ancora con il programma del quadriennio 1999/2003 periodo in cui realizziamo 312 alloggi, di cui 97 in autofinanziamento
Gli ultimi interventi sono nel 2012, grazie a fondi regionali, costruiamo a Bentivoglio e in Via Fava in zona Triumvirato a Bologna rispettivamente 13 e 35 alloggi. Il ritmo rallenta, recuperiamo 2 alloggi ulteriori nel 2016 da locali già di nostra proprietà, ma continuiamo ad avere soci in lista di attesa che chiedono alloggi e per questo siamo attenti a cogliere ogni opportunità. Adesso, grazie a un bando della Regione Emilia-Romagna e al contributo del Comune di Bologna inizieremo i lavori per realizzare finalmente altri 10 alloggi in Viale Lenin, che saranno pronti nel 2028.
Le tappe che ha attraversato sono, in qualche modo, rappresentative di un percorso più ampio, condiviso da altre cooperative di abitanti, oppure costituiscono un caso specifico?
Carlo Francesco Salmaso: Direi che la nostra traiettoria riflette in generale quella delle cooperative a proprietà indivisa. Ci sono cooperative nate prima, altre nate dopo, ma l’andamento è condizionato dalle vicende politiche del nostro Paese. Il contesto dei primi anni Venti del secolo scorso, come quello degli anni Settanta è segnato da una forte idealità e ricerca di modi di dare risposta ai bisogni, casa inclusa, che siano alternativi al mercato, alla concorrenza e alla proprietà privata. La possibilità concreta di costruire molti alloggi è dipesa dai finanziamenti pubblici. In tutta Italia, molte cooperative di abitanti sono cresciute grazie al recepimento di queste risorse nazionali, così come tramite fusioni e incorporazioni.
Quali sono i numeri della vostra cooperativa, relativi agli alloggi e ai soci?
Carlo Francesco Salmaso: Abbiamo più di 7.580 soci attivi (su un totale di iscritti di 11.068) e oltre 730 di loro si sono iscritti nella graduatoria per avere assegnato un immobile. Parliamo di persone che stanno cercando attivamente casa oggi, non semplici iscritti che hanno un bisogno potenziale. I nostri alloggi sono 1.340, tutti occupati e con una morosità inferiore al 2%.
Dozza non è la cooperativa indivisa più grande – a Bologna c’è Risanamento che ha quasi il doppio degli alloggi, a Milano e a Torino ci sono cooperative a proprietà indivisa ancora più grandi. Insisto sulla dimensione perché cooperative grandi hanno possibilità di raccogliere quote piccole dai canoni di godimento dei soci, da noi si chiama “contributo di solidarietà” che tutti insieme diventano significativi e contribuiscono a integrare i finanziamenti pubblici nella costruzione di nuovi alloggi. Così possiamo mantenere un importo equo del singolo canone e riuscire ad accumulare risorse per lo sviluppo futuro.
Qual è la composizione, sia sociale che anagrafica, dei vostri soci?
Carlo Francesco Salmaso: I nostri soci sono generalmente persone che faticano a trovare nel mercato privato un affitto sostenibile per le loro entrate ma che hanno comunque risorse tali da essere escluse anche dall’edilizia residenziale pubblica. Siamo una forma di abitare pensata per chi ha redditi contenuti: operai in origine, oggi anche educatori, infermieri, pensionati e molte altre categorie per cui la casa è diventata insostenibile, a maggior ragione in questi anni, che hanno alcune risorse che da sole non bastano, ma insieme fanno la differenza. È a queste persone che si rivolge la cooperativa, organizzando una risposta che coniuga sostenibilità economica, solidarietà e qualità dell’abitare.
È importante non confondere la cooperazione di abitanti con l’edilizia residenziale pubblica anche su aspetti di modello: noi non siamo la risposta di assistenza che il pubblico fornisce, giustamente, alle situazioni di povertà più significative. Noi siamo imprese dell’economia sociale, che valorizzano le risorse dei propri soci, investono e le moltiplicano, contribuendo così a rafforzare la qualità della vita delle persone e la coesione sociale. Un socio può ed è invitato ad informarsi, a fare riunioni, a mettersi d’accordo. E questo modello democratico, a mio parere, è un valore pubblico estremamente importante.
Aggiungo che nella mia esperienza precedente facevo parte di una cooperativa sociale, Piazza Grande. Abbiamo accompagnato molte persone senza dimora nel percorso per accedere a una casa popolare, o a una casa affittata da privati nel progetto housing first, ed è giusto, oltre che estremamente efficace, che queste persone trovino una sistemazione dignitosa e sicura da cui iniziare una nuova fase. La ricerca su housing first non lascia dubbi che la casa sicura e dignitosa, a un prezzo accessibile, sia un elemento fondamentale per l’inclusione sociale. Ma sarebbe stato ancora meglio se queste persone non fossero mai arrivate in strada. Ecco, credo che la cooperazione di abitanti abbia anche un ruolo preventivo, offrendo non solo la sicurezza di alloggi a canoni gestibili, per tutta la vita, ma anche competenze relazionali, reti di solidarietà, contesti accoglienti. Investire nella cooperazione abitativa significa anche investire nell’impatto che producono cittadini e comunità più forti: prevenire le crisi sociali, contrastare l’impoverimento, non è solo occuparsi di abitare.
Dal punto di vista anagrafico, stiamo registrando un progressivo innalzamento dell’età media legato anche al fatto che, una volta ottenuto l’alloggio, molte persone scelgono di rimanere in cooperativa per tutta la vita. Molti dei nostri edifici risalgono agli anni Settanta o Novanta, e chi vi è entrato da giovane oggi è o sta diventando anziano. Di conseguenza, il numero medio di occupanti per alloggio è diminuito, scendendo sotto la soglia delle due persone, accompagnando le fasi di vita, come quella in cui, ad esempio, i figli escono di casa.
Anche per cercare di mantenere una certa alternanza generazionale non assegniamo alloggi solo in base all’anzianità di iscrizione. Secondo il nostro regolamento attuale questo è solo uno dei tre criteri che usiamo a rotazione. Il secondo è legato alla condizione di sfratto esecutivo (sebbene sia il più difficile da realizzare, visti i tempi che non spesso coincidono tra l’uscita del bando e la situazione personale), e il terzo è riservato a coppie di giovani, dove almeno uno dei due, il socio che diventerà assegnatario dell’alloggio, ha meno di 35 anni. In questo modo cerchiamo di mantenere un certo equilibrio e un mix sociale nei nostri insediamenti. Accade inoltre che alcuni finanziamenti pubblici per i contributi di costruzione prevedano che noi emettiamo bandi di assegnazione con criteri specifici, definiti in base a scelte politiche dell’Ente, legate alle esigenze del territorio. In questi casi ci sono criteri aggiuntivi, come appartenere a determinate categorie di bisogno (persone disabili, anziani…).
Qual è, invece, il tipo di partecipazione dei soci? Quanto e in che modo partecipano alla vita della cooperativa?
Carlo Francesco Salmaso: Non sorprenderà, ma la base dello scambio mutualistico riguarda l’abitare e quindi è importante quanto i soci vivano negli alloggi della cooperativa, non li lascino. Abbiamo già detto che questo obiettivo lo raggiungiamo abbastanza facilmente e che le persone tendono a restare per la vita. Non è nemmeno possibile utilizzare diversamente gli alloggi, ad esempio trasferendosi altrove e subaffittando. C’è poi l’organizzazione pratica di questo scambio: ogni socio versa un contributo trimestrale, la corrisposta di godimento, calcolata con criteri uguali per tutti e in cui rientrano le spese generali, le manutenzioni straordinarie, il rimborso dell’eventuale mutuo per la costruzione… Poi c’è una parte delle spese relative alla gestione del proprio alloggio o dell’insediamento (quota di riscaldamento se centralizzato, parti comuni come ascensore, giardino…). La cooperativa, dal canto suo, si occupa della gestione complessiva: manutenzioni straordinarie, amministrazione e contratti con i fornitori, gestione delle pratiche dei soci o supporto ai momenti di socialità negli insediamenti. Ma la partecipazione va oltre l’aspetto pratico ed economico. A ciascun insediamento viene richiesto di scegliere insieme i fornitori per servizi come la pulizia delle scale, la gestione della centrale termica o la cura del verde. Inoltre, ogni comunità locale può dotarsi di un proprio regolamento, che disciplini la convivenza e tuteli i beni comuni. In questo processo c’è anche un supporto attivo dell’ufficio soci, che aiuta a scrivere questi regolamenti, a trovare un equilibrio tra i diversi punti di vista e a collocarli all’interno dei regolamenti generali della cooperativa.
A un livello più ampio c’è poi la partecipazione alle assemblee della Cooperativa. In queste occasioni si approvano modifiche ai regolamenti generali, o anche allo statuto se necessario, si elegge il consiglio di amministrazione, la commissione elettorale, si approva il bilancio annuale. È una partecipazione più politica e meno legata ai fatti quotidiani di casa, ma in realtà molto rilevante, perché l’ambito di impatto di queste decisioni è molto ampio. Proprio per questo motivo è stata nel tempo istituita una commissione elettorale interna, composta da soci scelti dall’assemblea, con il compito di vagliare le candidature, colloquiare i candidati e proporre all’assemblea le persone ritenute più in grado di guidare la cooperativa. Esiste poi un livello di partecipazione più informale e legato alla dimensione comunitaria in cui la cooperativa promuove e sostiene la socialità nei singoli insediamenti. Quasi tutti i 47 insediamenti in cui sono divisi gli alloggi hanno sale sociali, cioè spazi comuni che i soci possono usare per incontri, corsi, momenti di aggregazione o di impegno sindacale e politico. In ogni insediamento è attivo, inoltre, un comitato di gestione, una forma di auto organizzazione della vita quotidiana dei residenti e un ponte con la struttura generale della cooperativa a cui segnala bisogni, proposte, manutenzioni o richieste di intervento su situazioni problematiche.
Considerando che oggi il tema dell’abitare è sempre più sentito e centrale, in che misura la cooperazione di abitanti può rappresentare una risposta efficace?
Carlo Francesco Salmaso: Bisognerebbe chiarire cosa intendiamo per “abitare”. L’house: la casa intesa come il fatto di avere un tetto sopra la testa, o l’home, la casa come dimora sicura, luogo delle relazioni, degli affetti e contrasto al rischio di isolamento. La risposta cambia, ma in generale noi rappresentiamo la possibilità di valorizzare e liberare risorse già presenti nelle persone per costruire beni comuni, materiali e relazionali, che aumentano e mantengono la loro funzione con il passare del tempo. Legacoop Abitanti, l’associazione nazionale che rappresenta la cooperazione di abitanti, di recente ha lanciato un piano per la realizzazione di 20.000 alloggi a livello nazionale, di cui 5.000 in Emilia-Romagna, combinando risorse in autofinanziamento, nazionali ed europee.
Quali sono i limiti oltre i quali la cooperazione di abitanti non può spingersi?
Carlo Francesco Salmaso: I limiti emergono quando viene meno uno dei tre pilastri su cui si regge il modello: il contributo personale dei soci, il sostegno pubblico iniziale e la struttura organizzativa della cooperativa. Se venisse meno la volontà e la partecipazione attiva dei soci, sia sul piano economico, sia su quello decisionale e di cura condivisa dell’abitare, il sistema non reggerebbe perché svuotato di senso e di risorse. E questo è anche un lavoro intergenerazionale. Allo stesso modo, se venisse a mancare la componente pubblica, verrebbe meno l’equilibrio economico per permettere un canone contenuto, che da solo nel tempo non copre i costi di costruzione. Poi come ogni impresa, se l’organizzazione non è gestita in modo adeguato si creano grossi problemi.
Ci sono altri limiti, più esterni al modello, dati dal contesto, come nel caso della rigenerazione urbana. In questi interventi i costi – legati ad esempio alle bonifiche o al recupero – sono molto superiori rispetto a quelli del consumo di nuovo suolo per cui è evidente serva una forte volontà politica, una squadra e molte risorse, con lo scopo di tutelare sia il bene ambientale sia quello dell’abitare a prezzi accessibili. Tuttavia, a differenza delle condizioni strutturali prima citate, questo è un limite legato alla contingenza. Oggi i costi sono troppo elevati e si fatica a trovare le risorse necessarie, speriamo in futuro la cooperativa possa tornare a partecipare a operazioni di rigenerazione urbana.
Qual è lo stato di salute di questo modello cooperativo oggi?
Carlo Francesco Salmaso: Noi stiamo bene, ma possiamo anche dire che notiamo segni di affaticamento a cui prestare attenzione. Nascono in generale meno cooperative, e il bisogno di socialità tra vicini di casa, che un tempo era molto sentito, sembra essersi attenuato. Tra gli anni Settanta e Novanta, quando sono nati molti dei nostri insediamenti, le iniziative per costruire relazioni tra vicini erano numerose e diffuse, mentre oggi è diverso: l’età media si è alzata, ci sono meno energie disponibili e anche le dinamiche familiari sono cambiate. Le persone hanno talvolta necessariamente altre priorità, con famiglie più piccole e diffuse sul territorio nazionale e internazionale, il welfare in recessione e l’emergere di nuovi bisogni di cura e assistenza a cui occorre fare fronte da soli, o in pochi parenti e amici. È un circolo vizioso: più si è lontani dagli altri e meno tempo rimane per avvicinarsi.
Una delle cause di impatti significativi meno evidente, per noi, è l’innalzamento dell’età pensionabile. In passato, c’era una base di soci pensionati sui 50-60 anni che avevano ancora voglia, tempo e forze per occuparsi del proprio insediamento, mentre oggi questa situazione si verifica meno. Anche per questo motivo, la priorità che ci siamo dati è di lavorare per adeguare alle persone di oggi la componente partecipativa. Siamo ancora una comunità attiva, per niente rassegnata di fronte alle spinte individualiste e che non intende rinunciare alla propria dimensione di comunità. Quindi investiamo tempo ed energie per trovare nuovi modi di vivere insieme, che siano sostenibili per le persone di oggi: modalità che non richiedano uno sforzo eccessivo e che siano comunque capaci di generare benessere, partecipazione e relazioni democratiche all’interno del vicinato. Non si tratta di tornare a un passato migliore, ma di adattare la forma di abitare collettivo ai tempi attuali, perché gli esseri umani sono sempre stati, e saranno sempre, animali sociali.
Come state lavorando dal punto di vista del cohousing?
Carlo Francesco Salmaso: Il cohousing è una delle sperimentazioni che stiamo portando avanti. Non è tanto una questione di modello alternativo, quanto ancora una volta di adattare i nostri principi ai bisogni del tempo, un’operazione di coerenza e di convenienza. Il progetto specifico di cohousing riguarda un immobile di proprietà del Comune di Bologna in Viale Lenin, inutilizzato da decenni e pericolante, su cui abbiamo vinto un bando della Regione Emilia-Romagna. Come da regolamento del Comune, il 20% della superficie sarà destinato a spazi comuni e sarà il primo cohousing a proprietà indivisa di Bologna, in cui ogni socio è comproprietario, tramite la cooperativa, dell’immobile. Ogni decisione passa attraverso l’assemblea, secondo il principio “una testa, un voto” e ridefinisce il ruolo classico del gestore sociale come interfaccia tra residenti e proprietà, perché tutto si risolve all’interno di un organismo democratico.
Con il Comune di Bologna stiamo lavorando affinché l’accesso al cohousing non avvenga tramite una selezione dei “migliori”, dei più collaborativi, ma che sia possibile per chiunque abbia motivazione e desiderio di abitare in quel contesto e scelga consapevolmente. Per questo stiamo immaginando un percorso formativo che permetta alle persone di comprendere e accordarsi su cosa significhi abitare in cohousing prima ancora di essere selezionate. Non è un processo basato sul merito individuale, ma sulla coerenza tra aspettative personali e progetto collettivo. All’interno del progetto ci saranno dieci alloggi principali e un undicesimo alloggio, pensato come spazio per l’ospitalità temporanea. Questo alloggio potrà essere messo a disposizione del quartiere o di realtà del Terzo settore, per rispondere a bisogni sociali diversi: accoglienza di parenti di persone ricoverate ad esempio, o progetti di housing first, esperienze educative o inclusive. Ci piacerebbe integrare ulteriormente il progetto sperimentando forme di comunità educante, vedremo. Questo progetto è un punto d’incontro tra il discorso attuale, i nostri principi e la sperimentazione concreta.
Il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale prevede un’azione specifica sull’abitare, con un’attenzione particolare alla cooperazione tra abitanti e alla costruzione di nuovi servizi e processi. Cosa pensa di questo piano e quale dovrebbe essere il ruolo dell’attore pubblico per sostenere queste forme di cooperazione?
Carlo Francesco Salmaso: È il primo piano del genere in Italia, sono molto contento che ancora una volta il nostro territorio dimostri attenzione all’economia sociale. Inoltre, è stato un processo molto partecipato, con numerosi incontri di confronto, che ha coinvolto tutto il territorio in approfondimenti e costruzione di un linguaggio comune sul tema. Credo sia un passo avanti importante nell’adeguare ai tempi ruoli e modalità di interazione tra ente pubblico, imprese che hanno obiettivi non di profitto, ma di benessere delle persone, altre organizzazioni dell’economia sociale e anche imprese profit. Vedo un grande potenziale.
Su cosa dovrebbero fare gli enti pubblici, mi rifaccio anche a quanto afferma il piano di Legacoop Abitanti: riconoscere l’edilizia residenziale sociale come un servizio di interesse generale, la necessità di una quota di finanziamento a fondo perduto, considerare nei piani urbanistici meccanismi specifici per l’edilizia residenziale sociale in godimento permanente, distinguendola da altre forme significativamente più brevi o addirittura dagli studentati, che hanno altri modelli economici e impatti sociali, che non è opportuno mettere in concorrenza tra loro.
Un altro aspetto, secondo me, molto interessante, su cui il piano bolognese insiste e che merita di essere approfondito, riguarda il collegamento tra la dimensione materiale degli alloggi e quella immateriale del modo in cui si abita insieme. La possibilità di aggregarsi e svolgere attività collettive deve poter restare accessibile e questo significa anche lavorare sugli strumenti tecnici, come è stato ben fatto con i patti di collaborazione. È fondamentale proseguire nel riconoscere e sostenere i gruppi informali di cittadini, abbassare la soglia di capacità e strumenti necessari per portare avanti iniziative, per dare spazio e strumenti all’aggregazione spontanea di persone che vogliono costruire insieme azioni a rinforzo del proprio abitare. Contenere il micromanagement burocratico sui progetti e guardare in senso complessivo alla natura e agli obiettivi delle organizzazioni, valutando indicatori di impatto, governance, trasparenza.
Ci sono altre forme di collaborazione possibili, oggi o in prospettiva, tra la cooperazione di abitanti e altre aree dell’economia sociale?
Carlo Francesco Salmaso: Sì, in parte queste collaborazioni esistono già, soprattutto con la cooperazione sociale. Accennavo al progetto di Viale Lenin dove ci piacerebbe sperimentare un modello integrato. In generale mi sembra di notare una maggiore apertura e anche un’aspirazione diffusa a costruire un sistema in cui le diverse organizzazioni sono partner nel raggiungimento di obiettivi, più che soggetti interessati a massimizzare il proprio tornaconto. Per quanto ci riguarda, la nostra attività sull’abitare ci fa entrare in contatto costante con bisogni sociali più ampi. C’è il problema dei lavoratori che non trovano casa, o il tema dell’invecchiamento della popolazione su cui già sono attive imprese e fondazioni con cui collaborare. Un altro ambito su cui sarà necessario trovare nuove soluzioni, meglio se con più soggetti è quello della sostenibilità ambientale, in particolare sul profilo energetico. A Ferrara la cooperativa di abitanti Castello ha realizzato una comunità energetica rinnovabile (CER). Anche noi stiamo rivedendo il nostro approccio al tema energetico, distinguendo cosa siamo in grado di fare internamente e dove occorrono collaborazioni. La dimora, in sostanza, è un nodo centrale nella vita delle persone, intorno al quale si possono attivare molte connessioni. In generale però è più facile pensare a progetti che non siano esclusivamente partecipati da attori dell’economia sociale, ma anche dal pubblico e imprese profit. Conta l’obiettivo e la modalità con cui si lavora.