Afghanistan: la tomba degli imperi
- 21 Settembre 2021

Afghanistan: la tomba degli imperi

Scritto da Alice Bellante

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A pochi giorni dal tragico anniversario dell’11 settembre, dopo quasi vent’anni, l’Afghanistan è tornato nelle mani dei talebani. Il mondo intero è impegnato a fare domande a cui non ci sono risposte certe. Il Paese dell’Asia centrale era condannato fin dall’inizio? La responsabilità americana è in capo al presidente Biden? Oppure è colpa di Trump? Di Obama? Di Bush?

Chiaramente, chiunque elabori un pensiero critico alieno dal determinismo storico può riconoscere che il fallimento degli Stati Uniti in Afghanistan non era predestinato. Mentre Biden è impegnato a difendersi dalle critiche e a piangere lacrime amare per le perdite militari e civili, la presa del potere dei talebani ha intensificato la crisi umanitaria in corso nel Paese asiatico. I prezzi dei beni alimentari sono alle stelle. Le banche sono chiuse, le file agli sportelli sono interminabili. Gli stipendi dei dipendenti pubblici non raggiungeranno mai i conti correnti di destinazione. Il popolo afghano è così in preda all’incertezza.

Nel frattempo, i talebani cercano di portare avanti una sorta di “rebranding” della loro immagine di fronte alla comunità internazionale. Ciò nonostante, la nuova drammatica realtà è che l’Afghanistan, da settimane ormai, non ha un governo, un leader o delle forze armate. Secondo Rahmatullah Nabil, ex capo dell’intelligence nazionale, recentemente fuggito in Uzbekistan, «il vuoto non fa che aumentare la confusione attuale, mettendo a repentaglio la speranza di un cambiamento positivo».

Seguendo un processo logico piuttosto banale, è possibile affermare che la guerra in Afghanistan, come quella in Iraq, ha chiarito che le potenze democratiche occidentali non possono esportare la democrazia attraverso l’impiego della forza militare. Le guerre troppo lunghe stancano tutti gli attori coinvolti. L’afflusso di aiuti e risorse da fonti internazionali, se non accompagnato da un cambiamento interno del sistema istituzionale e della società civile, instaura una condizione di dipendenza per il governo e la popolazione stessa.

Gli Stati Uniti e i suoi alleati nel 2001 hanno deciso di intervenire militarmente in Afghanistan per rimuovere i talebani dal potere. Sono rimasti quasi un ventennio sul territorio per aiutare a costruire una società più stabile e libera. Hanno quindi speso 20 anni e 83 miliardi di dollari per costruire un esercito che si è dissolto nel giro di poche settimane. Ciò ha sollevato molte domande in merito alla ratio alla base del ritiro.

In linea generale, gli aspetti strategici che hanno influenzato gli Stati Uniti nella decisione di abbandonare l’Afghanistan sono molteplici. Tuttavia, di fronte alla disastrosa capitolazione del Paese, sorgono alcuni dubbi sulla natura delle questioni che hanno condotto alla situazione attuale. Sembrerebbe infatti che lo slogan «America first and only America first» non appartenesse unicamente al tanto discusso nazionalismo di Donald Trump. Al contrario, la preoccupazione alla base del ritiro degli Stati Uniti è la stessa che c’era in Vietnam nel 1975: «bringing the boys back home» o «riportare i ragazzi a casa». Il fattore determinante, in questo caso, non è stata la corruzione, il fallimento dell’esportazione della democrazia, la resilienza dei talebani o la nascita di nuovi gruppi terroristici, ma piuttosto l’interesse nazionale, la politica interna, il consenso. A conferma di ciò, il popolo americano rimane ampiamente favorevole al ritiro delle truppe dall’Afghanistan con un margine di approvazione del 63%, anche di fronte alle immagini delle persone attaccate agli aerei in partenza da Kabul. Il presidente Biden, dunque, al pari di Trump, non ha operato come una grande potenza leader della comunità internazionale, ma piuttosto come un Paese che agisce in nome della ragion di Stato. Da ciò consegue che, giuste o sbagliate che siano le decisioni prese nell’arco di tempo considerato, esse non dovevano necessariamente culminare nell’imbarazzante e drammatico esodo di agosto 2021.

Come afferma Anders Fogh Rasmussen, ex Segretario Generale della NATO ed ex Primo Ministro danese, fondatore della Alliance of Democracies Foundation e di Rasmussen Global, il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan ha violato tre principi fondamentali della gestione dei conflitti.

Primo, non dire al nemico quando avverrà il ritiro. Washington ha fissato unilateralmente il 31 agosto 2021, come data entro la quale tutte le forze statunitensi sarebbero partite, rimuovendo qualsiasi incentivo per spingere i talebani a cercare una transizione pacifica. In tal modo, il gruppo ha aspettato il progressivo ritiro degli Stati Uniti, iniziando a conquistare il Paese attraverso la forza, la corruzione e l’intimidazione. Ci sono volute solo alcune settimane prima che i talebani raggiungessero Kabul. Un ritiro di tale importanza strategica avrebbe dovuto essere portato avanti sulla base di specifiche condizioni, non guardando il calendario.

Secondo, non abbandonare i tuoi amici. Nel 2018, l’amministrazione Trump ha concluso un accordo di ritiro con i talebani, senza però condizionarlo, ad esempio, ad un divieto di attacco alle forze di sicurezza afghane. Tagliando il governo afghano fuori dal processo negoziale, dialogando direttamente con i talebani, tribù locali e signori della guerra, Washington e la coalizione internazionale hanno deluso i loro partner, minando la loro stessa credibilità. Oltre a ciò, gli Stati Uniti e i loro partner non solo hanno abbandonato il governo afghano, ma anche gli uomini e le donne che avevano lavorato più da vicino con loro. Infatti, nonostante la decisione di lasciare l’Afghanistan entro la fine di agosto fosse da tempo nota, la maggior parte dei paesi non aveva preparato piani di evacuazione per i propri cittadini, per gli interpreti e per gli afgani impegnati ad aiutare la coalizione. Queste persone ora si trovano in una condizione molto delicata, in quanto corrono il grave rischio di essere trovati e puniti dai talebani, in quanto attivi collaboratori delle forze occidentali occupanti. L’entità di tale rischio risulta drammaticamente chiara osservando le scene strazianti di migliaia di afgani ammassati all’aeroporto di Kabul, in cerca di protezione e libertà all’estero.

Terzo, non disprezzare i sacrifici delle tue truppe. Molti veterani della guerra in Afghanistan e le loro famiglie si chiedono se i loro sforzi siano stati vani. Tornando al 2001, la priorità fondamentale degli Stati Uniti e dei suoi partner era sradicare al Qaeda e il terrorismo internazionale dall’Afghanistan. Le truppe hanno portato a termine solo in parte quella missione. Sfortunatamente infatti, oggi, la situazione risulta più complessa rispetto a vent’anni fa. È vero, non c’è più stato un attacco dall’Afghanistan dall’11 settembre. Ma al Qaeda non è stata definitivamente sconfitta e non è sola. Lo Stato Islamico Khorasan, o IS-K, si è ormai qualificato come ente regolarmente impegnato in attività terroristiche, responsabile di attentati suicidi mortali in Afghanistan, anche nei confronti di ospedali e scuole, in particolare a Kabul. Proprio data la crescente complessità del quadro afghano, era importante che Washington e i suoi partner non abbandonassero il Paese in modo da sollevare seri dubbi sul valore dell’impegno e dei sacrifici fatti negli ultimi due decenni.

Il ritiro dall’Afghanistan ha messo in crisi e la credibilità globale delle democrazie occidentali. Si parla di tempo sprecato ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. La libertà e la democrazia rimangono valori umani fondamentali e non sono estranei a nessuna cultura. Risuonano a livello globale. Molti afghani hanno beneficiato di tali valori negli ultimi vent’anni. Durante la presenza americana, un’intera generazione ha vissuto in un Afghanistan dove le ragazze sono potute andare a scuola e la società civile è fiorita. Gli afgani hanno votato, avviato attività commerciali e beneficiato di contatti internazionali. Praticamente per ogni parametro dell’indice di sviluppo umano, come l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione, la mortalità infantile e i diritti delle donne, il Paese può dirsi è migliorato rispetto a vent’anni fa. Ora ci sono 3,5 milioni di ragazze afgane a scuola (anche se più di due milioni ancora non ci vanno). Le donne lavorano in tutti i campi: forze dell’ordine, cinema, robotica, magistratura e istruzione. Il sistema sanitario è stato trasformato e l’aspettativa di vita delle donne afghane è aumentata di quasi dieci anni. L’Afghanistan ha mezzi di comunicazione fiorenti. Anche la presenza dei cellulari indica una società connessa con il resto del mondo. I giovani afghani non rinunceranno facilmente a questi diritti conquistati a fatica. Inoltre, è interessante notare che, poiché il 65 per cento della popolazione del Paese ha meno di 25 anni, la maggior parte degli afghani non è cresciuta sotto gli orrori del regime talebano. Alcuni di questi coraggiosi uomini e donne afgane hanno protestato apertamente contro il gruppo, mentre altri si sono ritirati nelle remote valli e montagne a nord di Kabul per lanciare una resistenza armata.

Per quanto riguarda Washington, invece, attualmente, il piano degli Stati Uniti è contenere il terrorismo, agendo da lontano, utilizzando dunque droni, reti di intelligence e raid per operazioni speciali mirate e lanciate da basi nella regione. William Burns, il direttore della CIA, ha ammesso che questo piano comporta «un rischio significativo». Allo stesso modo, il capo della Difesa britannica, Nick Carter ha affermato che non era «la decisione che speravamo». Di fronte a tali asserzioni, William Hague, ex Ministro degli esteri britannico, ha dichiarato: «Questi sono eufemismi professionali. La maggior parte dei funzionari di sicurezza occidentali che conosco sono inorriditi».

Infatti, anche se la guerra degli Stati Uniti è finita, quella dell’Afghanistan non lo è. Gli afghani non hanno mai creduto che gli americani sarebbero rimasti nel Paese. Già nel 2005, nel remoto villaggio di Shkin, un luogo di intensi combattimenti nelle montagne dell’Afghanistan orientale, Christina Lamb, capo corrispondente estero per il Sunday Times, racconta di aver visto gli abitanti dei villaggi locali accettare con gioia assistenza sanitaria e aiuti dai soldati statunitensi durante il giorno, per poi attaccare la loro base di notte. Quando ha chiesto loro perché, la spiegazione è stata spaventosamente semplice: «Alla fine, se ne andranno e i cattivi saranno ancora qui».

Tirando le somme, emerge che la situazione attuale è il frutto di un fallimento di duplice natura: interna ed esterna. Per quanto riguarda la dimensione interna, è pacifico che la leadership politica nazionale dell’Afghanistan non è mai stata pienamente coerente su quale fosse il modo migliore per combattere i talebani. Ci sono state tensioni tra i mediatori del potere regionale e Kabul, tra i pashtun e le minoranze tagika, hazara e uzbeka. Sia l’ex presidente afghano Hamid Karzai che il presidente “uscente” Ashraf Ghani gestivano la rappresentanza etnica attraverso lo spoil system piuttosto che attraverso la promozione di una visione nazionale comune. Questo sistema prevedeva altresì che i vertici della pubblica amministrazione venissero sostituiti al momento dell’insediamento di un nuovo governo. Considerando ciò, non sorprende che gli sforzi degli Stati Uniti per identificare, persino selezionare, i leader nei ministeri siano riusciti solo a minare l’indipendenza e la legittimità del governo afghano.

Per quanto riguarda il ruolo dei talebani, invece, è possibile rilevare che essi si sono dimostrati resilienti non solo in quanto organizzazione militare e terroristica, ma anche come movimento politico. Dopo il 2001, infatti, i talebani hanno continuato a godere del sostegno popolare in alcune parti dell’Afghanistan e hanno mantenuto la capacità di reclutare decine di migliaia di giovani afgani. Anche in corrispondenza del picco della presenza statunitense in Afghanistan, tra il 2009 e il 2011, i talebani hanno dimostrato di essere in grado di adeguarsi alle nuove circostanze politiche. Gli sforzi di riconciliazione del governo afghano, dal 2010 in poi, hanno quindi rappresentato un’accettazione implicita dell’importanza politica e militare dei talebani all’interno dell’Afghanistan.

Tale consapevolezza si è poi trasferita nella dimensione esterna al conflitto, culminando nella decisione statunitense di negoziare formalmente con i talebani nel 2018 e nella decisione dei governi stranieri di accogliere gli emissari talebani dopo l’accordo di Doha del febbraio 2020.

Eppure, tali prese di posizione potrebbero essere considerate come il prodotto di un’interpretazione errata dell’identità e delle intenzioni dei talebani. Ad oggi, è facile asserire che il gruppo non ha mai avuto intenzione di raggiungere un accordo. Ne consegue che l’idea che i talebani siano “cambiati” appare sempre più ingenua, specialmente di fronte alle immagini inquietanti che si susseguono giorno dopo giorno.

In conclusione, affermare che il futuro rimane incerto è un eufemismo. Ciò che sappiamo è che l’Afghanistan rimane la più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti. Gli americani e l’intera comunità internazionale analizzeranno per molti anni le azioni, gli errori e le opportunità mancate che hanno impedito agli Stati Uniti di raggiungere i risultati desiderati. In definitiva, la guerra in Afghanistan non dovrebbe essere intesa né come una follia che era possibile evitare né come una tragedia inevitabile, ma piuttosto come un dilemma irrisolto.

Scritto da
Alice Bellante

Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla LUISS “Guido Carli”. Ha svolto un periodo di ricerca alla University of Pennsylvania a Filadelfia. Specializzata in Studi Diplomatici presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente sta frequentando un Master di II livello in Relazioni Istituzionali, Lobby e Comunicazione d’Impresa presso la LUISS Business School, dopo un’esperienza nel dipartimento di Innovation & Business Development di Linkem, ad oggi, è Government Affairs Regional Support Coordinator for Western Europe presso Microsoft.

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