Scritto da Matteo Alteri
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Community Hub: elementi caratterizzanti
I Community Hub sono spazi ibridi, dinamici e difficili da incasellare in una definizione univoca: rappresentano innovazioni territoriali capaci di generare un esito di natura collettiva che si traduce in un aumento del dinamismo culturale, della coesione sociale, dell’inclusione e della densità delle relazioni attraverso il riconoscimento, l’attivazione, la capacitazione e l’accompagnamento delle energie sociali presenti nei contesti in cui sono inseriti.
I Community Hub sono strutture a servizio della comunità, immobili ri-valorizzati che offrono e co-producono servizi integrati alla e con la comunità, per incrementarne capacità e coesione: servizi di natura sociale, culturale, per il tempo libero, di promozione del lavoro, di sensibilizzazione ambientale, di partecipazione cittadina, di formazione, etc.
Sono luoghi plurali, dove questa pluralità si coniuga tanto nella diversità delle funzioni ospitate quanto in quella del bacino di utenza e degli attori incaricati della loro gestione.
Si tratta infatti di luoghi che intersecano, interagiscono e impattano su differenti ambiti: dalla valorizzazione dei territori (come i casi degli Ecomusei del Casilino a Roma o Mare Memoria Viva a Palermo) alla formazione ed educazione (come Foqus a Napoli o la Scuola Open Source a Bari), dalla creazione di spazi di comunità (come la Rete delle Case di Quartiere a Torino) alla riapertura di spazi dismessi come luoghi di creazione di lavoro e occupazione (come Young Market Lab a Bari o Casa Netural a Matera), dalla reinterpretazione di edifici ex industriali (come i Laboratori di Barriera a Torino o i Cantieri Culturali Zisa a Palermo) all’erogazione di servizi sociali (come Exmè a Cagliari o il Centro Territoriale Mammut a Napoli)[1].
Sono spazi generativi, spazi di produzione e di lavoro, che fanno convivere l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la startup e la cooperativa sociale, il coworking e il fab-lab; la caffetteria e la web radio; l’evento culturale e il corso di formazione.
Sono luoghi della prossimità, radicati cioè nel contesto in cui si inseriscono e con gli attori con cui dialogano, e sono sperimentali, ricalibrano cioè funzioni e modalità operative in un atteggiamento di tensione dinamica capace di adattarsi alle esigenze che progressivamente emergono dalla comunità di cui sono espressione.
I Community Hub sono insieme avvio, garanzia e presidio di processi di sviluppo locale in quanto abilitano attori, sostengono percorsi di resilienza e animano il territorio in cui sono inseriti: fanno dello sviluppo locale un processo di sviluppo di comunità, basato su pluralità, coproduzione, circolazione e redistribuzione di valore percepito a più livelli[2].
Come afferma Claudio Calvaresi[3], sono Community Hub perché della “comunità che viene” danno una accezione del tutto processuale, secondo una tensione progettuale che cerca dispositivi di avvio. Sono “spazi della condivisione”, dove si danno azioni atte ad ispessire il legame sociale.
I Community Hub sono “spazi del possibile” dove ad un disegno progettuale si affiancano una flessibilità ed un’apertura ai diversi futuri possibili che rendono queste iniziative capaci di adattarsi ai cambiamenti che periodicamente si presentano e che pretendono, spesso in tempi brevi, risposte nuove a bisogni emergenti.
Community Hub: scale territoriali e possibili traiettorie di sviluppo
Alla luce di quanto detto finora, i Community Hub spesso si configurano come potenziali dispositivi di sviluppo locale, dove il termine “locale” assume declinazioni diverse a seconda della scala territoriale di riferimento.
A livello metropolitano, i Community Hub non si limitano a riattivare spazi dismessi ma si configurano come attori capaci di promuovere lo sviluppo delle periferie in cui hanno sede e di cui diventano soggetti territoriali, arrivando a determinare un’inversione di rotta rispetto alla narrazione con cui spesso vengono descritte le periferie delle grandi città (esempi in questo senso possono essere riconosciuti nelle esperienze di Mare Culturale Urbano a Milano o dei Laboratori di Barriera a Torino).
In questi casi si riconosce l’emergere di city maker che, nelle parti di città definite come “periferie”, si attivano, intraprendono e trasformano quartieri dimenticati ed immobili abbandonati erogando servizi per e con la comunità, seguendo logiche di place making secondo una logica di collaborazione con le energie civiche presenti nei quartieri.
In piccola scala, il Community Hub in chiave metropolitana sembra così rispecchiare l’etica della “città aperta” descritta da Richard Sennett[4]. Una città dove i cittadini mettono in gioco attivamente le proprie differenze dando vita ad un’interazione virtuosa con le energie urbane.
Nei centri di medie dimensioni i Community Hub possono configurarsi come realtà capaci di aggregare le energie urbane dell’intera città e la scala “locale” qui assume una declinazione più ampia di quella di una singola periferia, volgendo lo sguardo verso l’intera città ed i territori circostanti (un esempio in questo senso è rappresentato dall’esperienza di Ovest Lab a Modena).
Il loro operato, attraverso l’offerta residenziale, la promozione culturale, l’animazione sociale, l’offerta di servizi di welfare e di formazione, etc. tende a restituire valore ed attrattività ai territori e, in questo senso, una possibile traiettoria di sviluppo dei Community Hub potrebbe essere riconosciuta nell’opportunità di configurarsi come poli di riferimento, di scala provinciale o anche regionale, capaci di restituire significato e rilevanza ai centri di medie dimensioni.
Come scrive Giuseppe Frangi, le città “intermedie” si stanno rivelando interessanti “laboratori di futuro”[5] e la prospettiva appena descritta per i Community Hub potrebbe essere proprio una delle espressioni di questo “futuro”. I centri di medie dimensioni sono infatti, come afferma Ledo Prato, tutte città resilienti, a volte con un dinamismo economico, sociale e culturale che contraddice le narrazioni sulle città non metropolitane, contrapposte con le aree metropolitane[6]. In questo quadro, i Community Hub potrebbero configurarsi come un dispositivo capace di cogliere e valorizzare tale dinamismo.
Infine, nelle aree rurali riattivano territori dimenticati attraverso la valorizzazione e la messa a sistema di risorse dormienti (un esempio in questo senso è rappresentato dall’esperienza di Facto, a Montelupo Fiorentino).
Qui i Community Hub potrebbero configurarsi come dispositivo per recuperare l’attrattività di luoghi che si contraddistinguono per forti tendenze di spopolamento, invecchiamento della popolazione ed abbandono, nel segno non di un passato ideale da recuperare quanto piuttosto della contemporaneità, senza però dimenticare tradizioni e specificità dei luoghi in cui si trovano ad operare.
Uno dei punti di forza dei contesti di piccole dimensioni, risiede inoltre nella relativa facilità di dialogo con le pubbliche amministrazioni locali: l’avvio di un dialogo costante e costruttivo potrebbe essere quindi l’innesco per politiche di sviluppo locale co-progettate e co-prodotte tra società civile e soggetti pubblici.
In contesti rurali i Community Hub diventano dunque espressione di quelle che Giovanni Teneggi chiama “economie di luogo”, ossia economie che non possiamo riconoscere senza includere il luogo nelle quali si sviluppano, i suoi caratteri, la sua gente, la sua storia. Queste economie vivono la partecipazione delle istituzioni locali non come responsabilità o vincolo, ma come opportunità di un reciproco processo trasformativo, verso nuovi livelli di competitività sostenibile[7].
Progettare un Community Hub: il caso di Spazio Betti a Fermo
A Fermo, una città di circa 37.000 abitanti nel sud delle Marche, è in corso un progetto per la riattivazione dell’ex scuola media Ugo Betti, nei pressi del centro storico, finanziato dal Fondo di Innovazione Sociale e promosso da un partenariato che vede il Comune di Fermo come soggetto proponente insieme ad un gruppo di partner tra cui figura anche “Avanzi – sostenibilità per azioni”.
Il progetto consiste nella realizzazione di un Community Hub, di nome “SpazioBetti”, che abbia caratteristiche orientate alla costruzione di servizi integrati e sostenibili. A questo proposito, nello spazio si intendono insediare una pluralità di funzioni: eventi culturali, housing sociale, ricezione turistica, ristorazione a km0, formazione, co-working e welfare territoriale per ciascuna delle quali, in fase di progettazione, è stato sviluppato un modello di business ed un impianto di valutazione degli impatti sociali specifico.
La prima fase di progetto, che si avvia a conclusione, prevede la realizzazione di uno studio di fattibilità, comprensivo di un piano esecutivo di un’idea progettuale di innovazione sociale.
La fase successiva prevede la realizzazione della sperimentazione dell’idea progettuale finalizzata ad una verifica empirica dell’efficacia dell’idea, oltre a quella della sostenibilità della soluzione di innovazione sociale individuata.
Infine, l’ultima fase prevede una sistematizzazione, cioè un consolidamento della sperimentazione attraverso l’utilizzo di strumenti di finanza d’impatto sociale che consentano al soggetto proponente di replicare in contesti diversi gli interventi per i quali è stata condotta la sperimentazione per incorporarli nelle politiche pubbliche locali.
Attraverso un approccio aperto, sperimentale e collaborativo, Spazio Betti intende configurarsi come un Community Hub capace di attivare una reale catena di valore di sviluppo locale e territoriale: un progetto tagliato sulle caratteristiche di un territorio non metropolitano che svolge una funzione di carattere metropolitano, al fine di configurarsi come un polo di riferimento capace di aumentare l’attrattività del territorio attraverso un’offerta multifunzionale di qualità.
Tuttavia, affinché Spazio Betti possa realmente profilarsi come un soggetto territoriale capace di avviare un percorso di sviluppo locale, si ritiene necessario concentrare l’attenzione, a partire dalla fase di sperimentazione, su alcune questioni progettuali rilevanti, emerse a seguito di un confronto interno al team di Avanzi:
In conclusione, Spazio Betti può configurarsi come dispositivo di sviluppo territoriale, a condizione che riesca a lavorare in modo efficace sulla circolarità e sulla sinergia tra funzioni, partner e pubblici di riferimento costruendo le condizioni per la sostenibilità economica e sociale dell’intervento.
Conclusione
I Community Hub si configurano come luoghi fondamentali delle passioni civili, sociali e culturali, e sono capaci di innescare, una volta maturi, dinamiche di sviluppo territoriale.
Quelle che Bertram Niessen definisce “parole a volte un po’ di plastica” – creatività, comunità, innovazione sociale, coesione, inclusione, rigenerazione – trovano qui la loro piena espressione e si declinano come azioni concrete di coinvolgimento e attivazione civica[8].
I Community Hub prefigurano dunque un nuovo modello di rigenerazione urbana e territoriale e – data la loro capacità di integrare politiche urbane, culturali, sociali, turistiche, lavorative e formative – si rivelano un terreno inedito di policy-making e di innovazione istituzionale che suggerisce uno sviluppo integrato dei territori attraverso un dialogo sinergico tra una pluralità di funzioni, partner e comunità di riferimento.
[1] Cfr., Avanzi, Dynamoscopio, Kilowatt, Cooperativa SuMisura, Community Hub. I luoghi puri impazziscono, Festival delle comunità del cambiamento, 2016.
[2] Ivi, p. 22.
[3] Claudio Calvaresi, Community Hub, due o tre cose che so di loro, CheFare, 6 ottobre 2016.
[4] Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli Editore, 2018.
[5] Cfr., Giuseppe Frangi, Dalle Smart City alle Città-Territorio, Vita, 5 dicembre 2020.
[6] Cfr., Associazione Mecenate 90, L’Italia Policentrica. Il fermento delle città intermedie, Franco Angeli, 2020.
[7] Giovanni Teneggi, Non chiamatele aree interne, ACRI, 10 marzo 2020.
[8] Bertram M. Niessen, Partecipazione. Oltre le parole di plastica, Pandora Rivista 3/2020 “Piattaforme”.