Scritto da Michele Marsonet
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Chiunque si occupi del tema “linguaggio e metafisica” sa quanto la formazione di una concezione o visione del mondo dipenda dal linguaggio. Se un soggetto ha una visione della realtà (un insieme di credenze intorno alla realtà), allora deve avere accesso a criteri inter-soggettivi – vale a dire, a un mondo socio-linguistico. È soltanto imparando un linguaggio che acquisiamo la capacità di rispondere concettualmente al mondo, poiché solo allora possiamo verificare se – e come – le nostre azioni vengono valutate mediante norme sociali comuni. La nostra concezione della realtà è resa possibile da un linguaggio condiviso; ma è pure importante notare che il discorso vale anche per la costruzione di qualsiasi tipo di ontologia.
Si dice spesso, a questo proposito, che vediamo il mondo “attraverso” il linguaggio. Si tratta naturalmente di una metafora, ma occorre verificare quale sia il suo significato. Possiamo dire che il linguaggio è un mezzo che riproduce la realtà o che registra ciò che è esterno alla mente? Oppure è più esatto dire che il linguaggio è un mezzo così opaco da impedirci di vedere come il mondo è realmente? Sono entrambe posizioni diffuse. Il linguaggio è uno strumento che utilizziamo per rapportarci all’ambiente, e senza esso non potremmo pensare alle cose. Da ciò tuttavia non segue, né automaticamente né necessariamente, che non percepiamo mai il mondo come è, o che ogni visione del mondo è distorta dal linguaggio. Si potrebbe sostenere tale posizione solo se fosse possibile, almeno in linea di principio, isolare dati non concettualizzati che la mente sarebbe in grado di plasmare completamente. Solo allora, infatti, avrebbe senso immaginare una moltitudine di strutture o cornici entro le quali il dato potrebbe essere plasmato ex novo. Ma, senza un’idea precisa di tale dato, diventa impossibile dire che cosa dovrebbe essere plasmato[1].
Anche prescindendo dalla difficile tesi di modi radicalmente diversi o incommensurabili di pensare e di parlare, ha senso sostenere che il linguaggio plasma (dà forma alla) la nostra percezione del mondo al punto da fornircene un’immagine costantemente distorta? È ovvio è che il linguaggio riflette i nostri interessi e non possiede – se non in misura assai limitata – le risorse per esprimere ciò che da tali interessi è distante. I nostri vocabolari di base sono fondati sulle nostre generalizzazioni più comuni, e vi sono classi di entità per le quali non disponiamo di termini adeguati. Ma si tratta veramente di distorsione della realtà? Anche rispondendo positivamente alla domanda, sarebbe assurdo incolpare il linguaggio per questa situazione. Naturalmente esso riflette i nostri interessi fondamentali e i valori e i bisogni determinati dalla nostra storia, sia biologica che culturale. Questo fatto, tuttavia, non è sufficiente per affermare che il linguaggio distorce la nostra comprensione della realtà; più plausibile è il ragionamento opposto. Sono gli interessi, i valori e i bisogni che influenzano il linguaggio. In quanto individui, ereditiamo categorie che si sono evolute culturalmente e che abbiamo contribuito a creare soltanto in misura molto limitata. Se è così il linguaggio non produce distorsione; è piuttosto la società a fornirci uno strumento flessibile per interagire con l’ambiente circostante.
Il linguaggio può avere certamente qualcosa a che fare con il nostro interesse – tanto individuale che sociale – per l’influenza, poniamo, dell’effetto-serra sui mutamenti climatici, ma non ha alcunché a che fare con il fatto che l’effetto serra ci sia o meno. Il linguaggio non distorce la verità intorno al mondo, ma può al massimo indurci a illudere noi stessi – o gli altri – a seconda degli scopi che abbiamo in mente. Si può insomma sostenere che il linguaggio lascia la propria impronta su tutto ciò che rientra nel suo dominio di competenza, ma questo, tutto sommato, è un fatto ovvio e non foriero di conseguenze drammatiche, poiché è il risultato del legame tra linguaggio, valori, interessi e bisogni.
Cosa resta allora della metafora di prima: il linguaggio è qualcosa attraverso cui vediamo il mondo? Si tratta di una metafora fuorviante perché basata sull’assunto che il linguaggio svolga un ruolo di mediatore “neutrale” o “indipendente” tra noi e il mondo. Se accettiamo acriticamente la metafora, il linguaggio diventa, dal punto di vista epistemico, qualcosa come i dati sensoriali di Russell, qualcosa che incorpora ciò che possiamo acquisire dall’ambiente, ma che è a sua volta solo una “rappresentazione”, non sappiamo fino a che punto fedele, del mondo cosiddetto “esterno”. Sostenere che il linguaggio rappresenta in modo distorto la realtà equivale a dire che i sensi ci forniscono soltanto apparenze. Se fosse vero, le rappresentazioni, che sono immagini, non ci consentirebbero mai di raggiungere gli obiettivi che la conoscenza si propone di conseguire. E, infatti, lo scetticismo circa la capacità del linguaggio di afferrare ciò che è reale altro non è che una versione – ri-aggiornata – del vecchio scetticismo circa la capacità dei sensi di afferrare il reale. È, insomma, lo scetticismo tradizionale aggiornato secondo i criteri della svolta linguistica.
Ogni volta che prendiamo in considerazione i rapporti tra linguaggio e realtà – e tra linguaggio e metafisica – ci muoviamo in una sorta di circolo praticamente inevitabile. Afferriamo il concetto di verità soltanto quando possiamo comunicare agli altri i contenuti delle esperienze condivise, e per far questo abbiamo bisogno del linguaggio. Ma solo allora, cioè quando la comunicazione viene stabilita, possono svilupparsi in modo compiuto linguaggio e pensiero. Quali sono, infatti, le condizioni necessarie affinché ci sia del pensiero – ivi incluso il pensiero dell’essere – e ci siano degli individui in grado di pensare? Sembra difficile credere che il pensiero abbia potuto nascere in una mente totalmente isolata, in assenza di altre menti con le quali condividere un mondo.
Le posizioni anti-realiste si manifestano in molte forme e in diversi contesti. Nel pensiero filosofico dei nostri giorni, per esempio, spesso si sottolinea che non possiamo riferirci ad enti che si situano oltre la nostra capacità di riconoscerli in un tempo finito. Se si imbocca questa strada, si può ammettere che ci sia “qualcosa” nel mondo che rende veri i nostri enunciati, aggiungendo al contempo che questo “qualcosa” deve essere accessibile a noi dal punto di vista epistemico. Ciò implica che un’intuizione realista diventa accettabile anche per un anti-realista, qualora i termini coinvolti vengano re-interpretati. Non è quindi scontato che la definizione classica della verità come corrispondenza conduca necessariamente a sostenere il realismo. Per ottenere tale risultato dobbiamo aggiungere che la realtà non dipende da alcunché al di fuori di essa per la sua esistenza e, in particolare, occorre aggiungere che essa non dipende dalla mente. Già a questo livello iniziale, tuttavia, si può notare che basare sull’indipendenza dagli esseri umani la definizione della realtà causa problemi, poiché sembra quasi implicare che noi non siamo parte della realtà.
Dunque, appena limitiamo la definizione di realtà a ciò che siamo in grado di riconoscere, la teoria della verità come corrispondenza può ancora essere accettata, ma perde i suoi connotati realisti. Si verifica, cioè, il passaggio dalla “realtà” senza ulteriori specificazioni alla “realtà-per-noi”. Secondo un’opinione diffusa, tale passaggio conduce immediatamente dal realismo all’anti-realismo, ma non è così.
Rorty definisce in questo modo il “realismo metafisico” che oggi, com’è noto, ha un’accezione diversa da quella classica: «Il senso banale per cui la “verità” è “corrispondenza alla realtà” e “dipende da una realtà indipendente dalla nostra conoscenza” non basta al realista (quello metafisico). Ciò cui egli aspira è precisamente (…) la nozione di un mondo tanto “indipendente dalla nostra conoscenza” da poter provare, a quanto ne sappiamo, che non contiene alcuna delle cose di cui abbiamo sempre pensato di parlare. Egli vuole passare da, diciamo, “possiamo avere torto su come sono fatte le stelle” a “tutte le cose di cui parliamo possono essere completamente diverse da quel che pensiamo”»[2].
Non mi sembra che tale quadro, pur contenendo degli elementi di verità, sia esatto. Il vero timore del realista metafisico non è che il mondo possa essere totalmente diverso da come noi lo vediamo. Piuttosto, egli cerca di capire se il mondo possa essere ridotto completamente alla concezione che noi ne abbiamo.
Se ciò che esiste è auto-sussistente, non può dipendere dall’osservazione o da altre attività di riconoscimento per essere ciò che è. Ne segue che potrebbe esistere anche senza che nessuno fosse in contatto – dal punto di vista mentale e concettuale – con esso. Questo è il nucleo del realismo metafisico, ed è precisamente quello che l’anti-realista nega. Si tratta indubbiamente di una disputa circa ciò che si può dire che esista, ma il realista metafisico si sente obbligato ad aggiungere: è una disputa circa ciò che potrebbe esistere anche quando non fossimo in una posizione tale da dire alcunché a questo riguardo. Siamo insomma di fronte ad un problema di metafisica, piuttosto che ad un’argomentazione concernente una definizione linguistica. Dobbiamo decidere che cosa si può ammettere come “reale”, ancor prima di sapere in virtù di che cosa i nostri enunciati sono veri.
La verità è, nella filosofia contemporanea, un concetto essenzialmente semantico. Tuttavia, le restrizioni riguardanti il significato, riguardanti cioè ciò che può essere ammesso come vero in un linguaggio, presentano sempre implicazioni metafisiche. Una teoria verificazionista del significato attribuisce alla metafisica la patente di non-senso, poiché i suoi enunciati non risultano verificabili adottando “certi” criteri scientifici (lo si noti: “certi” equivale a “relativi ad un particolare periodo storico”). In ultima istanza, tuttavia, le considerazioni che riguardano quello che si può dire in modo significante, comportano necessariamente il prendere in considerazione ciò che si può dire tout court.
È importante notare che l’adeguatezza del linguaggio nel descrivere la realtà, e lo status della realtà indipendentemente dal linguaggio, non sono questioni linguistiche. Perfino l’adozione di una posizione anti-realista volta a giustificare il fatto di concentrarsi sul linguaggio non è, di per sé, un problema linguistico. È possibile che una preoccupazione esclusiva per il linguaggio conduca ad avvicinarsi all’idealismo. Accade quando si afferma che nulla esiste a meno che non possa essere espresso nel linguaggio. La realtà diventa la realtà-così-come-viene-rappresentata dal linguaggio. E quando la “mente” viene equiparata a “capacità linguistica”, la somiglianza con l’idealismo diventa evidente.
Il problema, come ho già notato, è che risulta errato identificare “anti-realismo” e “idealismo”. Un conto è dire che le entità che compongono il mondo sono mentali; un altro è sostenere che il nostro accesso alla realtà è sempre mediato da fattori epistemici. A differenza del realista, per l’anti-realista non è possibile attribuire alcun senso plausibile agli enunciati metafisici senza la presenza di supporti gnoseologici. Si deve insomma notare che rifiutare il realismo metafisico non equivale automaticamente ad affermare che “non vi sono nel mondo oggetti indipendenti dalla mente”[3].
Ancora una volta: è scorretto spingere troppo in là il paragone tra l’idealismo tradizionale e l’anti-realismo che nasce da considerazioni linguistiche. Non è necessario che l’anti-realista odierno neghi l’auto-sussistenza della realtà come viene descritta dal linguaggio. Egli può limitarsi a negare che la realtà possa essere compresa come qualcosa di diverso da ciò che è esprimibile linguisticamente. Tuttavia, anche se il linguaggio può in questo caso essere inteso come qualcosa che parla del mondo, è pur sempre esso a determinare per noi ciò che il mondo è. A ciò che si colloca al di là della portata del linguaggio non possiamo fare alcun riferimento.
Si tratta di una posizione ambigua. Certo l’anti-realismo linguistico non è soltanto una specie dell’idealismo. Esso ammette che gli aspetti della realtà che siamo in grado di determinare appartengono al mondo; ma quegli aspetti sembrano costituire il mondo, dove per “aspetti” si devono intendere le caratteristiche della realtà che possiamo esprimere. In altre parole, la realtà può essere oggettiva, ma i suoi limiti vengono fissati dal linguaggio. La “realtà” è ancora una “realtà-per-noi”. Ma risulta controverso affermare che possiamo parlare in modo intelligibile soltanto di ciò che può essere determinato in modo conclusivo. Questo significa limitare la portata del linguaggio. Più plausibile sarebbe dire che il mondo è costituito da tutti gli aspetti che possono essere determinati in maniera conclusiva. Si tratta di una tesi metafisica, che restringe la realtà a ciò che è accessibile (a noi, ovviamente).
La restrizione della realtà a ciò di cui si può parlare in modo intelligibile implica una conseguenza importante. Ogni conclusione concernente i limiti del linguaggio pone delle restrizioni alla natura della realtà. Gli anti-realisti odierni dovrebbero chiarire – ma non lo fanno – in quale senso almeno alcuni aspetti della realtà sono logicamente anteriori al linguaggio, se davvero vogliono distinguersi dagli idealisti. È invece evidente da quanto si è detto che essi sembrano far dipendere dal linguaggio “tutti” gli aspetti del mondo, e non solo per poterne parlare in modo intelligibile, ma anche per accettarli come reali. Inoltre, non introducono alcuna distinzione tra ciò che viene accettato come “reale in un linguaggio” e ciò che è reale senza ulteriori specificazioni.
Non è sufficiente, a questo proposito, sottolineare l’impossibilità di ridurre le condizioni di verità alle condizioni di verificazione. Risulta pure necessario accettare che ciò che è inesprimibile in un linguaggio possa ancora essere reale. Dal punto di vista realista l’argomentazione non può limitarsi al significato e alla verità entro il linguaggio. Essa deve pure riguardare i limiti del linguaggio stesso. Se qualcosa non è esprimibile o verificabile, può essere a causa della debolezza del nostro linguaggio. Il realista è portato ad ammettere che i limiti del nostro linguaggio possono essere i limiti del nostro mondo, ma sostiene anche che essi non sono i limiti del mondo. Pretendere che lo siano significa adottare una prospettiva esclusivamente antropocentrica. Ed è sicuramente possibile sollevare dubbi circa i limiti del linguaggio umano, dal momento che esso è strettamente legato ad altri nostri limiti ancora più importanti, quelli fisici.
Certamente il realismo metafisico, con la sua insistenza sul fatto che molte cose sono al di là dei poteri espressivi del linguaggio, pone problemi difficili. Non possiamo parlare di ciò che è inesprimibile, e non possiamo quindi trasferirlo nelle parole. Che cosa è, infatti, questo “qualcosa” che non possiamo esprimere linguisticamente? Una possibile risposta ci viene dalla scienza: la conoscenza scientifica è costantemente accompagnata da mutamenti – anche radicali – del vocabolario. Si devono produrre nuove parole per riferirsi a nuove entità, man mano che esse vengono scoperte e fanno il loro ingresso, per così dire, nel nostro orizzonte cognitivo.
Ma il realismo è compatibile con una concezione dinamica della conoscenza umana e del linguaggio. Conoscenza e linguaggio non sono statici, e ciò spiega i mutamenti che, altrimenti, sembrerebbero arbitrari. L’obiezione, piuttosto scontata, è che l’accordo avviene su basi inter-soggettive, a partire dalla somiglianza delle impressioni sensoriali. Ma come spiegare tale somiglianza in assenza di una realtà che ne è la causa?
C’è la tendenza in alcune correnti della filosofia contemporanea a restringere la possibilità – e la validità – della conoscenza alla sfera scientifica, di modo che ciò che non può essere conosciuto mediante i procedimenti e il linguaggio della scienza (ma si dovrebbe sempre aggiungere: della scienza attuale) non può essere conosciuto. Ma ancora una volta, se si pensa che l’interesse della scienza sia limitato esclusivamente alla realtà percepibile ed esprimibile linguisticamente (qui e ora), allora siamo in presenza di una decisione metafisica concernente ciò che esiste.
Il problema è capire che cosa collega il mondo al nostro modo di pensare e di parlare. Ci troviamo di fronte a un dilemma. O rompiamo del tutto i rapporti con la realtà, oppure la leghiamo così strettamente alle capacità umane che la realtà oggettiva si identifica con la realtà umana. In altri termini, (prima opzione) o rendiamo la realtà così accessibile da rimuovere la possibilità dell’errore – e questo è il risultato dell’anti-realismo linguistico radicale – oppure (seconda opzione) concludiamo che essa è così inaccessibile da non poter mai essere conosciuta – e questo è il risultato ultimo del realismo metafisico forte.
La risposta risiede parzialmente nel fatto che la realtà fornisce la base della conoscenza, anche se non deve essere definita in termini di conoscenza. Dobbiamo riconoscere l’indipendenza logica del mondo reale dalle nostre credenze e dai nostri concetti, ma ciò non significa che non vi sia alcuna connessione. Noi stessi siamo una parte della realtà che vogliamo conoscere, il che significa che non stiamo al di fuori di essa. Poiché i nostri concetti e le nostre credenze sono correlati ad altre parti del mondo, essi devono, nella maggior parte dei casi, essere radicati nel mondo. Non potremmo vivere in un mondo senza essere correlati ad esso in una quantità di modi.
Si dice da più parti che abbiamo bisogno di una “teoria della conoscenza evoluzionistica”, la quale sostiene che non avremmo potuto evolvere mediante la selezione naturale senza imparare come, per esempio, effettuare osservazioni efficaci del nostro ambiente. Pertanto, alcune capacità vengono trasmesse dopo essere state acquisite, e si tratta indubbiamente di un buon argomento dal punto di vista della scienza attuale. Come non c’è alcun elemento miracoloso nel fatto che l’occhio umano possa vedere il mondo, così non è un miracolo che la mente umana possa comprenderlo. Molti pensano che sia questa la strategia da adottare per spiegare perché la natura e la mente sembrano andare d’accordo. Un mondo in cui degli esseri dotati di intelligenza emergono grazie a processi evolutivi deve per forza di cose essere un mondo intelligibile. Tuttavia, il riferimento all’evoluzione non basta a fornire una spiegazione della sintonia tra i nostri concetti e la realtà.
La domanda a questo punto è: un mondo del tutto intelligibile? Oppure un mondo parzialmente intelligibile? Il realista, volendo evitare lo scetticismo, deve cercare qualche spiegazione. La teoria dell’evoluzione spiega, fino a un certo punto, perché siamo in sintonia con il mondo ma, nonostante la loro plausibilità, gli argomenti basati su tale teoria non risolvono il problema. La preoccupazione di partenza era se possiamo avere la garanzia che i nostri concetti siano in sintonia con il mondo, e la risposta si basa su una particolare teoria scientifica, la cui validità non è garantita in eterno.
Dando per scontata l’evoluzione, sembra ovvio che gli esseri umani si siano evoluti in un certo modo: ciò è necessario per sopravvivere. Ma nel caso del pensiero metafisico, per esempio, le cose non sono così chiare. Non sembra esservi alcuna ragione evolutiva per supporre che esso debba in qualche modo trovarsi in sintonia con il mondo. L’evoluzione, mediante la selezione naturale, è stata un processo lungo, e la ragione umana è stata impiegata soltanto per un periodo di tempo limitatissimo. Ma, ancora più importante, è il fatto che la stessa teoria dell’evoluzione è un prodotto del ragionamento. Non possiamo basarci sulla sua verità per dimostrare che la ragione è affidabile, pena la caduta nel ragionamento circolare.
Si noti che la scienza richiede che la natura sia intelligibile come pre-condizione per qualsiasi indagine scientifica. Eppure, senza qualche garanzia di questa intelligibilità, non possiamo assumere alcuna “sintonia” tra concetti e realtà. Se la realtà è, come l’idealista concettuale suggerisce, una costruzione dei nostri concetti, nessun divario dovrà preoccuparci. L’uomo diventa allora la misura di tutte le cose, poiché “tutte le cose” sono soltanto dei riflessi della mente umana.
Il realismo fa dell’intelligibilità del reale qualcosa di molto più misterioso. Solleva addirittura il dubbio che la realtà, in ultima analisi, non sia intelligibile alla nostra mente, almeno globalmente. Certamente vi saranno sempre dei limiti alla nostra comprensione. Perché vi dovrebbe essere una coincidenza completa tra il modo in cui il mondo è, e la nostra comprensione di esso? L’intelligibilità di ciò che stiamo investigando, proprio come la sua oggettività, sembra essere un presupposto necessario della ricerca.
Potremmo, tuttavia, scoprire una mancanza di intelligibilità nel mondo, almeno oltre un certo livello della ricerca. Mentre l’oggettività rende la ricerca possibile, la mancanza di intelligibilità completa può soltanto porre limiti alla portata del suo successo. Non vi è nulla di contraddittorio nel constatare che ci imbattiamo nei limiti della nostra comprensione. L’ipotesi che il reale sia inesauribile dal punto di vista cognitivo non può insomma essere esclusa.
L’ordine e la regolarità del mondo sono necessari per la vita quotidiana, poiché senza uno sfondo relativamente stabile la vita diverrebbe troppo precaria. Ma, ai livelli cui la ragione umana aspira, stabilità, ordine e regolarità possono essere cercati ma non presupposti. La metodologia scientifica assume che vi siano, ma sul piano metafisico niente garantisce che vi debbano essere. È, questo, un fatto troppo spesso trascurato quando si parla dei rapporti tra metafisica e scienza. Si tratta, in fondo, degli stessi motivi che inducono a rifiutare l’identificazione tra realtà da un lato e quel particolare sotto-insieme della realtà che la scienza è in grado di descrivere in un certo periodo storico. Le concezioni convergentiste sono problematiche proprio perché, adottandole, si corre il rischio di affermare, senza ovviamente dimostrarlo, che tutta la realtà è accessibile alla scienza.
Il consiglio pratico di “partire da dove siamo” diventa, alla luce di tali considerazioni, assai più plausibile di quanto non appaia a prima vista. L’atteggiamento pragmatico, in questo caso, è suggerito dalla constatazione dei nostri limiti percettivi e cognitivi. Sembra troppo ottimistico dire che la realtà può essere da noi concettualizzata globalmente. Questo sarebbe vero se fossimo esseri onniscienti. Tuttavia, una posizione di questo tipo presuppone – senza poterlo dimostrare – che il mondo abbia una particolare struttura ben determinata, abbastanza stabile da poter essere identificata (e re-identificata) da menti limitate come le nostre. L’ipotesi della inesauribilità cognitiva del reale tiene conto proprio di questo problema.
Non possiamo ottenere la certezza dalla scienza accettandone senza esitazione le affermazioni, né è lecito confidare in modo assoluto sul senso comune. Entrambi rimandano ai limiti della nostra conoscenza, e all’errore di far coincidere la realtà con la nostra capacità di esperirla, e di esprimerla dal punto di vista linguistico, globalmente.
Occorre, dunque, rovesciare il tema del limite e scorgerne le implicazioni. È perché la realtà è più vasta della nostra conoscenza di essa che dobbiamo ammetterne l’esistenza indipendente dalla mente. Ma cosa significa dire che vediamo sempre la realtà da un certo punto di vista? Semplicemente che la vediamo in un certo modo perché la nostra struttura fisica (il nostro apparato percettivo) è fatta in un certo modo. Anche gli schemi concettuali vengono influenzati in maniera decisiva da limiti di tipo fisico, un fatto di cui non sembrano accorgersi tanti filosofi contemporanei che esaltano, invece, un loro presunto carattere aprioristico. Non occorre un grande sforzo di riflessione per comprendere che, essendo collocati in un mondo naturale, i nostri concetti sono condizionati dalle circostanze naturali in cui operiamo.
Si manifesta pertanto l’esigenza di formulare l’ontologia con una doppia consapevolezza: essa non è assoluta a causa dei nostri limiti cognitivi e della nostra struttura fisica, ma non può nemmeno essere identificata in toto con la teoria della conoscenza. Paradossalmente, è proprio la constatazione che i nostri schemi concettuali dipendono essenzialmente dalla nostra struttura fisica e dal nostro modo di rapportarci con il particolare ambiente naturale che ci circonda, a testimoniare la necessità di un realismo che tenga conto del lato umano della conoscenza. La nostra realtà è costituita – nella forma in cui la percepiamo – dal fatto che il nostro apparato percettivo dispone di criteri specifici.
Tuttavia, se scopriamo che la realtà di cui parliamo è per-noi, ciò non significa negare la presenza di una realtà che non è per-qualcuno. È difficile, per esempio, sostenere che tutti i particolari della cosiddetta realtà esterna vengono rappresentati dal funzionamento della struttura del cervello mediante un processo di selezione evolutiva. Parimenti, è poco probabile che il cervello rifletta tutti gli aspetti del mondo. Si può soltanto ipotizzare che il nostro apparato cognitivo non selezionerebbe certe regolarità se esse non avessero dei corrispettivi esterni. In altri termini, tale apparato non si sarebbe formato in un mondo che non disponesse dei referenti di simili regolarità.
Se ora ci chiediamo quale tipo di metafisica può essere costruito, la risposta è che occorre adottare un concetto di metafisica più modesto di quello classico. La metafisica, proprio come la scienza, evolve con il trascorrere del tempo. I metafisici contemporanei non possono giungere a determinare la struttura della realtà utilizzando soltanto il puro ragionamento deduttivo.
D’altro canto, il filosofo non considera mai il mondo così com’è ma cerca sempre di interpretarlo. E l’interpretazione porta sempre con sé la costruzione di una visione o immagine del mondo. Coloro che sottolineano una netta differenza tra i termini “metafisica” e “visione del mondo” sono ancora legati ad una concezione “forte” della metafisica che aveva senso nei secoli passati, quando si pensava che i filosofi potessero avere l’ultima parola in ogni settore della conoscenza. Oggi la situazione è diversa. Ciò significa adottare una prospettiva che, a differenza dei sistemi metafisici classici, è una sorta di “ipotesi di lavoro” sempre aperta alla revisione. Naturalmente si tratta di una metafisica “aperta”, in cui non si prevedono risposte finali.
Nella filosofia contemporanea il realismo metafisico è stato ed è spesso attaccato. La risposta a questi attacchi è che è possibile che la realtà non sia totalmente intelligibile. È possibile che essa non sia del tutto riducibile allo spazio logico delle ragioni, alla dimensione dei concetti. Rammento il caso di Mente e mondo di McDowell, che va proprio in tale direzione[4]. Il timore di McDowell e altri è che la realtà non sia da noi completamente concettualizzabile e dominabile, ma qual è il pericolo di tale stato di cose? Si tratterebbe, più che di un pericolo, di una conferma dei nostri limiti intrinseci.
La conclusione di questo discorso, necessariamente breve e schematico, è che il realismo non è così indifendibile come ritengono molti autori contemporanei. Si tratta di una posizione che, entro certi limiti, può essere difesa. E se qualcuno chiede che differenza fa dal punto di vista cognitivo l’accettazione dell’esistenza di un mondo extra-concettuale, la risposta è la seguente: tale accettazione mette in crisi la visione antropocentrica, oggi largamente diffusa, che identifica la realtà con la nostra – limitata – conoscenza di essa.
[1] Considerazioni importanti su questo tema si trovano nelle opere di Donald Davidson. Si veda Donald Davidson, Verità e interpretazione, tr. it. il Mulino, Bologna 1994; e Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, tr. it. Cortina Editore, Milano 2003.
[2] Richard Rorty, Conseguenze del pragmatismo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1986, p. 49.
[3] Per maggiori dettagli su questo tema si veda Michele Marsonet, I limiti del realismo. Filosofia, scienza e senso comune, Franco Angeli Editore, Milano 2000; e The Limits of Realism, in Michele Marsonet (a cura di), The Problem of Realism, Ashgate, Aldershot – Londra 2002, pp. 190-204.
[4] John McDowell, Mente e mondo, tr. it. Einaudi, Torino 1999.