Scritto da Daniele Molteni
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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale. Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Gianluca Salvatori – Segretario generale di EURICSE (European Research Institute on Cooperatives and Social Enterprises), membro del GECES (Gruppo di esperti della Commissione Europea sulla economia sociale) e della UNTFSSE (Inter-Agency Task Force on Social and Solidarity Economy), Vicepresidente del Centro Nazionale di Competenza sull’Innovazione Sociale (SEED) – intervenuto nel panel “Economia sociale: l’action plan europeo”.
Alla Biennale dell’Economia Cooperativa erano presenti diverse imprese sociali e cooperative che hanno contribuito alla discussione portando le loro esperienze. Qual è, dal vostro osservatorio privilegiato, lo stato di salute dell’economia cooperativa?
Gianluca Salvatori: Il sistema della cooperazione italiano è tra i più rilevanti a livello europeo, sia quantitativamente – Francia, Italia e Spagna sono infatti i Paesi con la maggiore presenza di cooperative rispetto alle imprese ordinarie e alla popolazione – sia qualitativamente. La creatività italiana ha portato nel corso dei decenni a innovazioni organizzative significative, come nel caso della cooperazione sociale, nata in Italia e poi adottata in molti altri contesti. Oggi, trent’anni dopo questa fioritura, vediamo un fenomeno simile con la cooperazione di comunità, come nel caso delle comunità intraprendenti che si sviluppano in aree marginali e a rischio di spopolamento. Il sistema cooperativo, parte rilevante dell’economia sociale in Italia, contribuisce quasi all’8% dell’occupazione privata e genera tra il 7 e l’8% del valore aggiunto, numeri paragonabili a quelli registrati da settori chiave del Made in Italy come quello della moda. Negli anni, l’economia sociale e la cooperazione hanno dimostrato una notevole capacità di adattamento, alternando fasi di innovazione a momenti di consolidamento e riorganizzazione. Oggi siamo sicuramente in una fase di transizione e accanto a nuove esperienze, ancora poco strutturate, opera il corpo centrale della cooperazione storica che però fatica a riposizionarsi e richiede nuove idee e maggiore dinamicità. Un nuovo contesto che non è ancora evidente nei numeri, che riflettono i cambiamenti solo a posteriori, e dove si percepiscono delle difficoltà dovute alla carenza di produzione culturale, idee, leadership e visibilità. Eventi come la Biennale sono importanti proprio per riportare l’economia cooperativa al centro del dibattito pubblico e contrastare una tendenza generale a banalizzare le differenze tra modelli imprenditoriali. Nonostante assistiamo sempre più a un racconto omogeneo, non tutte le imprese sono sociali o responsabili nei confronti della comunità, e valorizzare le peculiarità del modello cooperativo è essenziale, tanto a livello nazionale quanto europeo.
A proposito del livello europeo, qual è la situazione dell’economia sociale e cooperativa?
Gianluca Salvatori: Come Euricse monitoriamo le dinamiche europee e partecipiamo ad alcuni processi di definizione delle politiche. In un contesto complicato per l’Unione come quello attuale, riposizionare e valorizzare la specificità del modello cooperativo è necessario ma complesso. L’Europa sta cercando di rilanciare l’economia sociale e cooperativa reagendo alle difficoltà emerse dopo le crisi del 2008-2012, quando si è registrata l’impressione delle istituzioni europee di non avere più il contatto con la realtà e quindi di dover rivedere alcuni fondamentali della propria azione di governo. Questo ha portato a rivedere le politiche economiche e industriali, aggiornando strumenti e modelli organizzativi spesso marginalizzati ma essenziali in una fase di transizione. Possiamo fare un parallelismo tra quanto attualmente accade in Italia, evidenziato dalla Biennale, e il livello europeo, dove l’economia sociale ha un impatto significativo ma non ha avuto, per anni, il riconoscimento adeguato. La necessità è la stessa, ovvero quella di aggiornare la “cassetta degli attrezzi” riportando in evidenza modelli organizzativi che erano meno considerati e che invece in questa fase di transizione risultano essenziali proprio in termini di approccio pluralista alle politiche.
Secondo uno studio di Euricse dal titolo Benchmarking the socio-economic performance of the EU social economy, realizzato con Ciriec International e Spatial Foresight per la Commissione Europea e pubblicato a settembre 2024, in Europa nel settore dell’economia sociale lavorano 11,5 milioni di addetti, impiegati soprattutto nelle cooperative. Si tratta di stime per difetto, data l’assenza di standard statistici comuni e i dati non sempre disponibili per tutti i settori e tutti i Paesi, ma in termini di occupazione e valore aggiunto la cooperazione europea pesa quasi quanto il settore automotive, che certo oggi non è in ottima salute ma rimane rilevante. Inoltre, negli ultimi anni, dalla fine del 2021, c’è stato un cambio di direzione nelle politiche europee e internazionali, con una maggiore attenzione a paradigmi alternativi al modello di impresa del capitalismo tradizionale, che dal discorso pubblico emergeva spesso come l’unica possibilità. L’aumento di consapevolezza ha coinvolto istituzioni come la Commissione Europea, il Parlamento, il Consiglio, l’OCSE, l’ILO e le Nazioni Unite, riflettendo un riconoscimento crescente dell’importanza dell’economia sociale. In una fase di transizione così complessa, è dunque fondamentale adottare approcci più diversificati rispetto ai trent’anni precedenti.
Un obiettivo della Biennale è stato quello di rappresentare la cooperazione come uno dei soggetti che determina una visione differente per il futuro del Paese e presentare una diversa agenda delle priorità. Questa visione dell’economia che è stata tratteggiata, con questi numeri, era in un qualche modo sottorappresentata o non sufficientemente nota all’opinione pubblica? Quali sono i fattori che determinano, se c’è, questa sottorappresentazione?
Gianluca Salvatori: La sottorappresentazione del ruolo della cooperazione esiste, ed è dovuta a due fattori principali. Il primo è il dominio, a partire dagli anni Ottanta, di una cultura economica mainstream che ha semplificato brutalmente il concetto di mercato e di impresa. In quel periodo si è diffusa l’idea che il mercato fosse un meccanismo autoregolante, orientato esclusivamente alla competizione, e che l’impresa avesse il solo obiettivo di massimizzare i rendimenti per i capitali investiti. Questa visione, promossa da università, business school e centri decisionali, ha oscurato la complessità e la ricchezza delle dinamiche economiche e sociali. La mercatizzazione della società, per dirla con Karl Polanyi, ha ridotto il mercato a una realtà autoreferenziale, separata dalla sfera sociale, ignorando che il mercato è, in fondo, un’istituzione sociale. Negli anni del dopoguerra, durante i cosiddetti “trenta gloriosi”, c’era un equilibrio tra potere politico ed economico. Ma dagli anni Ottanta in poi questo equilibrio si è rotto e il potere si è spostato interamente verso una concezione distorta del concetto di mercato. In questo scenario, la cooperazione e altre forme economiche alternative sono state marginalizzate o ridimensionate. Anche in Europa, il Trattato di Maastricht ha costruito l’Unione sull’ampliamento della libera circolazione, trascurando il pilastro sociale, recuperato solo nel 2017. Sono serviti vent’anni per rendersi conto che un’impostazione che costruiva l’Unione Europea esclusivamente sul market first e il mercato unico, ovvero sull’eliminazione di tutti gli ostacoli che si frappongono alla libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali, non era sufficiente. Il secondo fattore è l’impatto di questa cultura dominante sulle imprese sociali e sul sistema cooperativo stesso, che ha in parte assimilato il modello prevalente, adattandosi ai paradigmi di efficienza, competizione e concorrenza. Questo processo, noto agli economisti come “isomorfismo”, ha portato a un impoverimento culturale anche all’interno delle organizzazioni cooperative, che si sono allineate alle pratiche manageriali e agli obiettivi strategici delle idee imprenditoriali mainstream. In sostanza, nuotando in quelle acque, le cooperative hanno finito per adeguarsi a un’idea di impresa definita secondo criteri estranei alla loro natura.
Quali sono le direzioni su cui sta lavorando o dovrà lavorare il mondo cooperativo per accrescere la propria rappresentazione, contrastando queste dinamiche?
Gianluca Salvatori: Sicuramente è necessario che entri in gioco un approccio diverso, su cui si sta lavorando da molti anni. Il mercato e l’impresa vanno riportati alla loro natura di istituzioni sociali, perché il mercato è fatto molto di più che di scambio per il guadagno e include anche forme collaborative basate sulla fiducia e sul sostegno reciproco. L’impresa non può essere solo un meccanismo per massimizzare il profitto degli azionisti. Negli ultimi anni la revisione critica della shareholder theory ha portato alla valorizzazione degli stakeholder, e questo cambiamento è stato accelerato da quindici anni di crisi – dalla recessione del 2008 alla pandemia, fino alla crisi energetica e ai conflitti attuali – che hanno evidenziato la necessità di un approccio più pluralista e bilanciato. Lo Stato, dopo anni di marginalizzazione, è tornato centrale nella gestione delle crisi, ma oggi è più debole e isolato, privo del consenso diffuso che ne sosteneva l’autorità in passato. Oggi, infatti, le istituzioni pubbliche non sono più sorrette dal consenso dei cittadini e legate da una trama di corpi intermedi, di partiti e di associazioni che creavano un tessuto di connessioni tra potere politico e società. Parallelamente, le istituzioni di mercato, nella loro versione neoliberale, hanno dimostrato di essere inadeguate ad affrontare le emergenze. Ma come si introduce all’interno della formazione dei dirigenti, della cultura manageriale, una visione in cui il bilanciamento dei poteri è la priorità, e non lo è invece il sequestro di ogni potere da parte di chi detiene la leva dello sviluppo economico, come è avvenuto nel corso degli ultimi anni?
Il discorso su che cosa significa essere comunità manca ancora del lessico elementare, perché siamo stati abituati a distruggere le comunità e ad agire all’interno dello spazio sociale ed economico come singoli individui. Questo, tuttavia, crea uno scenario in cui il mondo cooperativo e sociale ha un’opportunità unica: diventare un ponte tra economia, società e politica, bilanciando vantaggi economici e valori sociali. Le imprese sociali e le cooperative hanno il potenziale di poter riconnettere questi mondi, seppure in una situazione complicata e più polarizzata rispetto al passato, in cui molte idee devono essere rinfrescate o rinnovate. Per cogliere questa opportunità e cambiare un’idea di mercato prevalsa dal 1980 al 2008 servono idee e linguaggi nuovi, capaci di superare i paradigmi e il lessico del passato. È necessario un lavoro di formazione e rigenerazione delle competenze cooperative. La possibilità di ricostruzione delle connessioni tra Stato, economia e società esiste, ma richiede un impegno strutturato e a lungo termine.
A proposito del rapporto tra Stato e mercato, la cooperazione sembra poter rappresentare un’alternativa politica intesa come creazione di uno spazio di azione civile alternativo. Le esperienze nuove che citava nella prima risposta, come si inseriscono nell’attuale fase di cambiamento? Quali sono gli esempi di queste nuove esperienze, ancora marginali, che perseguono questa trasformazione culturale?
Gianluca Salvatori: Nel corso degli ultimi tre anni un gruppo di ricerca di Euricse si è dedicato a identificare e censire una serie di pratiche e di esperienze che mescolano motivazioni sociali e dimensione economica, che producono beni e servizi, ma non sono facilmente classificabili perché sono forme nuove che nascono in ambiti di resistenza rispetto alle crisi territoriali e ai rischi di spopolamento: fondazioni di comunità, imprese di comunità, portinerie di quartiere, agricoltura sociale, circuiti di acquisto solidale. Una serie di forme economiche che dal basso danno consistenza a quest’idea dell’economia sociale, in cui la finalità ultima è fare sviluppo ma per una specifica comunità a rischio, in condizioni particolarmente critiche, e muovendo una serie di leve che non sono puramente economico-monetarie, ma di tipo motivazionale e culturale. Ne abbiamo censite circa ottocento e abbiamo dedicato una serie di rapporti verticali alle varie grandi “famiglie”, dalle imprese di comunità fino alle esperienze di agricoltura sociale. Dopo questa esperienza abbiamo deciso di passare dalla fase dello studio alla fase della messa in rete, per favorire un’esperienza di attivismo. Così le abbiamo invitate a riunirsi per due giorni nel primo incontro nazionale delle “comunità intraprendenti” in Val di Fiemme in Trentino, una valle con una storia comunitaria unica e bellissima. Qui, il territorio è un’unica proprietà collettiva, gestita dalla “Magnifica Comunità della Val di Fiemme”, un’istituzione medievale che sopravvive tutt’oggi, lottando per farsi riconoscere all’interno delle maglie dell’ordinamento della Repubblica. La peculiarità è anche che tutti i residenti della valle sono allo stesso titolo proprietari delle risorse naturali.
Tra coloro che abbiamo invitato hanno aderito un centinaio di esperienze nate dal basso, in aree marginali, interne o urbane, che hanno espresso una grande creatività dal punto di vista organizzativo. Le forme giuridiche in questo caso sono irrilevanti, non perché non contino ma perché ci sono esperienze differenti. Andando oltre la dimensione giuridica, emerge un mondo molto dinamico composto inoltre da realtà che operano in contesti difficili, dove devono svolgere molteplici ruoli: dalla gestione di servizi essenziali (come negozi o assistenza sociale) all’animazione culturale e turistica. La loro natura multiscopo sfida le classificazioni tradizionali del mondo cooperativo e riflette un dinamismo che non si limita all’Italia, ma ha echi in tutta Europa. Queste esperienze dimostrano come il rapporto tra Stato e mercato possa essere arricchito da un “terzo soggetto” – le istituzioni sociali – che non si limitano a rivendicare autonomia, ma ridefiniscono il funzionamento stesso del mercato. Questo ci permette di riflettere sull’economia sociale più che sul tradizionale concetto di terzo settore. È importante, infatti, non isolare queste organizzazioni come una realtà separata tramite la concezione del “settore”, ma integrarle nel mercato per promuovere regole e meccanismi più inclusivi, orientati a finalità sociali, per mostrare che il mercato è qualcosa di molto più complesso e ampio di quello che si pensa solitamente.
Quale potrebbe essere il ruolo delle istituzioni europee, a partire dalla nuova Commissione, nella promozione di questo tipo di realtà, anche nell’ambito di una competitività internazionale?
Gianluca Salvatori: Gran parte delle riflessioni a cui ho appena accennato nascono proprio dall’esperienza europea. L’Europa è stata determinante perché è stata costretta ad esserlo. La reazione alla crisi del 2012, dell’euro e della stabilità finanziaria dei Paesi meridionali, in un primo momento ha portato a iniziative di austerità durissime, che non hanno calcolato le conseguenze di dissesto sociale che poi si sarebbe tradotto in dissesto politico. Inizialmente, dunque, ha reagito in modo miope, con la solita idea market first, liberalizzazione e austerità. All’interno del dibattito politico europeo, quando ci si è resi conto degli effetti negativi e delle prime reazioni nazionaliste e populiste, c’è stata un’inversione di rotta. Ursula von der Leyen è arrivata in un momento in cui già Barroso, pur con una Commissione più schierata in senso conservatore, aveva iniziato a rimettere in questione la risposta standard. Nel primo mandato, von der Leyen ha tratto beneficio da una revisione profonda in corso dove erano già presenti alcuni ragionamenti sul tema del social business e della social entrepreneurship. Pur in modo confuso, questo dibattito sviluppatosi nelle sedi europee, a Bruxelles e in particolare nelle direzioni generali “Employment, Social Affairs and Inclusion” e “Grow”, ha preso una direzione al cui orientamento hanno contribuito le organizzazioni dal basso, il mondo cooperativo, le imprese sociali, le associazioni, che hanno trovato le condizioni per affermare una visione diversa. Così facendo, hanno contribuito a far correggere la rotta a una Commissione che nel tentativo di reagire aveva cominciato a importare dei modelli nordamericani legati al tema delle startup sociali e al social venture, molto sbilanciati su una interpretazione del sociale in chiave ancora fortemente legata ai paradigmi capitalistici. La spinta dal basso ha convinto von der Leyen a adottare la nuova terminologia di social economy, il cui terreno era stato preparato da un intenso dibattito tra le organizzazioni di rappresentanza e centri di ricerca. Così, quando la Social Business Initiative ha cominciato a svilupparsi, c’è stata una sollevazione da parte di studiosi e operatori sociali per allargare le maglie e far partecipare le cooperative e le associazioni, non soltanto i social entrepreneur alla nordamericana.
Nella prima Commissione guidata da von der Leyen è stato determinante il ruolo di due commissari che venivano da una sensibilità politico-sociale abbastanza chiara all’interno del gruppo dei Socialisti e Democratici, cioè Nicolas Schmit e Thierry Breton, due commissari che hanno riequilibrato l’influenza del Partito Popolare Europeo della presidente, creando l’amalgama che ha consentito l’avvio del Social Economy Action Plan, il piano d’azione per rafforzare l’innovazione sociale, sostenere lo sviluppo dell’economia sociale e aumentare il suo potere di trasformazione sociale ed economica. Il Social Economy Action Plan (2021-2031) è destinato a proseguire, non solo per la sua durata decennale, ma perché una volta avviato un piano d’azione a livello europeo, le sue linee guida sono difficili da cambiare radicalmente. La Commissione può rallentarne l’attuazione, ma non invertirne la rotta. Tuttavia, alcune preoccupazioni emergono dal contesto politico attuale: l’attuale Commissione ha assegnato le deleghe a figure meno influenti rispetto al passato, come dimostra il ruolo di Stéphane Séjourné, succeduto a Breton, che appare politicamente meno incisivo. Ursula von der Leyen, inoltre, ha evitato di affrontare temi controversi nelle lettere di missione per mantenere un equilibrio interno, e l’economia sociale è stata inizialmente esclusa, rientrando solo grazie alle audizioni parlamentari. Nonostante un inizio non entusiasmante, si intravede un riequilibrio: il Parlamento europeo rimane un attore attento su questi temi. L’implementazione concreta dipenderà ora dalla commissaria rumena Roxana Mînzatu (S&D), il cui peso politico nell’ambito della Commissione europea è ancora da valutare. Per garantire che il piano d’azione mantenga slancio, sarà necessaria una pressione costante dal basso, da parte di organizzazioni, ricercatori e attivisti, così come avvenuto negli anni della Social Business Initiative. Continuare a promuovere discussioni e riflessioni sarà fondamentale per evitare che la velocità di attuazione rallenti in modo significativo. A livello globale, l’interesse per l’economia sociale si sta espandendo. Al congresso dell’International Cooperative Alliance (ICA), pur con qualche difficoltà a cogliere appieno i cambiamenti in corso, è emerso il riconoscimento di opportunità significative. Anche le Nazioni Unite stanno promuovendo strategie simili, specialmente nel contesto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), influenzando politiche nazionali, in particolare nei Paesi emergenti. Questo evidenzia come l’economia sociale non sia più una questione solo europea, ma un processo di portata globale.