Scritto da Gianluca Piovani
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Il 27 febbraio 2019 la Commissione Europea ha terminato i country report relativi agli stati membri. Lo scopo di questi studi è stabilire il progresso delle riforme strutturali nonché della prevenzione e della correzione di squilibri macroeconomici così come stabilito ai sensi del Regolamento Europeo No 1176/2011. Tra gli obiettivi dei report vi sono quelli di valutare i risultati con riferimento alle raccomandazioni formulate dagli organi europei specifiche ai paesi membri. Le analisi che questi lavori propongono hanno un’ottica principalmente economica, con una parte di analisi quantitativa allo scopo di svolgere una valutazione dell’andamento economico, e una qualitativa per formulare un giudizio e presentare suggerimenti. Soggetto di questo articolo sarà il country report relativo all’Italia.
Il country report relativo l’Italia prende atto di un rallentamento economico in corso. La crescita del PIL italiano è stata pari a 1.6% nel 2017, a 1% nel 2018, ed è prevista a 0.2% nel 2019; solamente nel 2020 è prevista una modesta ri-accelerazione a 0.8%. A preoccupare particolarmente la Commissione Europea è la produttività stagnante. Il PIL è la misura della produzione totale, la produttività è il rapporto tra PIL e monte ore lavorato da tutti i lavoratori italiani: in altre parole, la produttività misura quanto produce un lavoratore medio italiano in un’ora. Nel periodo 1995-2017 la crescita media della produttività italiana è stata pari allo 0.3% mentre in Europa questa è stata di 1.3%. Nel breve periodo il PIL di uno stato può essere trainato dall’aumento del monte ore lavorato a causa per esempio dell’aumento della popolazione o del monte ore di straordinari. Nel medio-lungo periodo è invece la produttività del lavoro che determina il futuro economico di un paese ed il benessere della sua popolazione. Gli economisti sono concordi nel rilevare una forte correlazione tra la produttività e la qualità del lavoro sia da un punto di vista umano (formazione ed istruzione) che di strumenti utilizzati (investimenti infrastrutturali e tecnologici, ricerca e sviluppo). La Commissione Europea rileva che nel periodo 2010-2017 la produttività italiana è aumentata dello 0.5%: è un segnale positivo e maggiore dello 0.3% precedente ma resta ancora molto da fare, il divario con gli altri paesi europei continua sempre di più ad allargarsi.
La produttività del lavoro è la variabile con cui si può monitorare il posizionamento di un paese nella catena del valore: una produttività bassa vuol dire lavoro poco retribuito e di qualità bassa. Lavoro a produttività alta vuol dire posti di lavoro ben pagati, possibilità di ridurre le ore lavorate, eccellenza in campi economici a forte crescita (tecnologie informatiche, industria 4.0, etc.). Un paese con una produttività bassa fatica a dare dignità ai suoi lavoratori e avrà problemi ad assorbire la disoccupazione perché mancano comparti economici forti in grado di impiegare la mano d’opera anche meno qualificata. Per questo nel nostro paese il tasso di partecipazione rimane basso: il tasso di partecipazione è la percentuale della popolazione in età lavorativa che lavora o che sta cercando lavoro (e comprende quindi sia gli occupati che i disoccupati). In Italia solo il 66.4% della popolazione partecipa al mercato del lavoro mentre la media OCSE è pari a 72.1%; in Francia il tasso di partecipazione è il 71.8% ed in Germania è il 78.2%. Se da un lato la popolazione che partecipa al mercato del lavoro è bassa, dall’altro la disoccupazione italiana è elevata ed è pari a circa il 10% (media OCSE 5.2%). La perdita in termini di risorse umane è ingente e questa debolezza impatta soprattutto sulle categorie più deboli: la disoccupazione giovanile è al 32%, la partecipazione al mercato del lavoro delle donne italiane è solo al 52%, il lavoro precario ed i così detti working poors sono in aumento. In tutti questi campi le statistiche italiane sono peggiori degli altri paesi OCSE ed europei.
Per aumentare la produttività è necessaria una politica di investimenti che sblocchi la capacità di crescita economica del paese, il suo “potenziale”. Investimenti significa ricerca e sviluppo, opere infrastrutturali, formazione scolastica e lavorativa, tecnologia e capitale produttivo e riforme strutturali del mercato del lavoro. Lo studio della Commissione Europea rileva come l’analisi costi benefici del governo stia ritardando molti cantieri, tra cui alcuni particolarmente rilevanti come la TAV e il tunnel del Brennero e come negli ultimi anni non vi siano state riforme importanti dal punto di vista della competitività.
La spesa per ricerca e sviluppo dello stato Italiano è storicamente tra le più basse d’Europa così come quella per il sistema universitario. Si rileva inoltre come gli stipendi degli insegnanti siano inferiori a quelli dei colleghi europei mentre la loro carriera non dipende dal “merito” bensì solamente dall’anzianità: ciò rende più difficile reperire insegnanti motivati e capaci. Il tasso di abbandoni scolastici è alto mentre è bassa la percentuale dei laureati.
Il report dedica un’attenzione speciale alla situazione finanziaria del nostro paese. Da un punto di vista di debito privato (cittadini e imprese), il giudizio della Commissione Europea è positivo. Positiva è anche la situazione della bilancia commerciale (export-import). Viene rilevata l’inefficienza del sistema di tassazione italiano, il quale pesa eccessivamente sul lavoro dipendente per compensare l’ampia evasione degli altri tributi come ad esempio l’IVA e la tassazione del lavoro autonomo. Viene data valutazione positiva del provvedimento che introduce l’e-fatturazione a partire da gennaio 2019. È al contrario negativa la valutazione di numerose misure troppo simili ad amnistie e condoni tributari.
Il settore finanziario, seppure resti eccessivamente bancocentrico, evidenzia un positivo sforzo per la riduzione dei crediti deteriorati (Non Performing Loans, NPL). L’ammontare lordo degli NPL si è infatti ridotto nell’ultimo anno dall’11.5% al 10.2% mentre la misura netta dal 2015 ad oggi si è dimezzata ed è ora pari a circa il 5%. Questo risultato è stato anche possibile grazie agli sforzi dei precedenti governi in termini di varo di schemi di garanzie pubbliche che hanno permesso la rivitalizzazione del mercato di questi prodotti. Seppure i risultati siano positivi resta ancora molto da fare per allinearci agli standard europei (NPL lordi 3.6%, netti 1.95%). Il sistema finanziario italiano rimane inoltre vulnerabile alle dinamiche del debito pubblico: nei momenti di stress finanziario gli investitori esteri vendono titoli di stato italiani che non possono che essere assorbiti dalle banche tricolori. L’ammontare di titoli di stato nel portafoglio delle banche è infatti aumentato, tra aprile e novembre 2018, da 298 a 328 miliardi.
Il debito pubblico resta un elemento di debolezza strutturale. Le previsioni governative di riduzione del debito non sono condivise dalla Commissione Europea a causa delle diverse previsioni sulla crescita. È parere della Commissione Europea che il debito pubblico italiano resterà all’incirca invariato, oppure aumenerà nel caso non vengano attivate le clausole di salvaguardia sull’IVA. Ciò che preoccupa la commissione non è tanto il livello elevato del debito quanto la sua dinamica comparata a quella dell’avanzo primario. Il disavanzo primario è definito come entrate meno uscite dello stato escludendo le spese per interessi: questa grandezza misura l’andamento della gestione economica dello stato senza considerare elementi di “contorno” che invece rientrano nel rapporto debito/PIL. Uno stato che risparmia molto potrebbe poi essere penalizzato, nel calcolo del rapporto debito/PIL, da un PIL calante oppure da una forte spesa per interessi dovuta a uno stock di debito elevato. L’avanzo primario misura quindi l’impegno e la “volenterosità” di ridurre il debito pubblico. Nel 2010-2013 l’avanzo primario dello stato italiano è risultato pari al 2% ma in seguito è costantemente calato fino all’1.4% nel 2018. Al contrario il rapporto deficit/PIL ha continuato a migliorare passando dal 3% circa nel 2014 all’1.9% nel 2018; è tuttavia previsto aumentare al 2.4% nel 2019.
Di misura minore, se non assente, è il budget per gli investimenti. La riduzione del deficit vuol dire che, nonostante un minore impegno, siamo stati comunque premiati dal miglioramento della crescita economica e dalla riduzione dei tassi di interesse sul debito. Lo scenario macroeconomico sta tuttavia mutando in senso negativo eliminando il beneficio della crescita economica. La debolezza del nostro paese e l’incertezza riguardo la posizione del governo su numerosi temi economici ha inoltre già innescato l’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico. Ciò considerato, la Commissione Europea valuta che la sostenibilità del debito italiano diverrà sempre più complessa e difficile.
Le difficoltà di cui sopra hanno causato frustrazioni e hanno aumentato le disparità e le sacche di povertà. Il sito dell’eurostat riporta un indicatore del livello di reddito degli stati rapportato alla media europea, in cui la media europea è 100:
Il reddito pro capite italiano era al di sopra della media dei paesi europei (pari a 100 nel grafico sopra per convenzione), mentre ora è al di sotto di questo livello. La sfida per il futuro è invertire il declino che ha contraddistinto gli anni post crisi economica.
Ritornare ad essere un paese mediamente ricco e avanzato anche per gli standard europei è una sfida possibile. Non è però possibile pensare di vincerla proponendo visioni e risposte semplicistiche. Per rivitalizzare la sua economia l’Italia ha infatti bisogno di ritrovare una direzione politica e una progettualità di lungo periodo in grado di rispondere alle molteplici sfide globali, economiche e non solo.