Economia sociale e sostenibilità integrale. Intervista a Enrico Giovannini
- 14 Giugno 2025

Economia sociale e sostenibilità integrale. Intervista a Enrico Giovannini

Scritto da Giacomo Bottos, Daniele Molteni

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Enrico Giovannini è Co-fondatore e Direttore scientifico Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).


Spesso la sostenibilità nel discorso pubblico si riduce alla sola dimensione ambientale, mentre il concetto – che anche che lei propone – di sostenibilità integrale tiene insieme fattori economici, sociali e istituzionali. Perché è importante questo concetto e quanto ancora risulta difficile assumere questa impostazione da un punto di vista culturale?

Enrico Giovannini: Mentre gli scienziati ambientali ci hanno chiaramente mostrato i rischi dell’insostenibilità ambientale dovuti al superamento dei limiti planetari, e gli economisti hanno mutuato il concetto di “soglia”, seppur senza la stessa precisione, per trattare la sostenibilità finanziaria (affermando, ad esempio, che oltre un certo livello del rapporto tra debito e PIL un Paese non è più sostenibile), per tanti anni ci siamo domandati come riuscire a far capire che la sostenibilità non fosse solo economica e ambientale, ma anche sociale e istituzionale. La mancanza di una teoria condivisa della “rivoluzione”, in grado di dirci, ad esempio, che oltre un certo tasso di disoccupazione o di povertà il sistema esplode, rende difficile definirne i contorni, ma il fatto di non riuscire a definirla non vuol dire che la soglia sociale non ci sia. Pensiamo alle Primavera arabe, in cui un fenomeno climatico, la siccità, determinò il blocco delle centrali idroelettriche, con frequenti blackout, e un crollo dei raccolti, che portò a prezzi altissimi per i generi alimentari: in mancanza di energia e di cibo, si determinò una crisi economica e sociale gravissima, che a sua volta provocò una crisi istituzionale, dimostrando chiaramente come le diverse dimensioni della sostenibilità siano integrate tra di loro.

Ora è arrivato Donald Trump, che ha messo in campo politiche chiaramente contrarie ai valori dell’Agenda 2030 non solo dal punto di vista ambientale, ma anche in campo sociale e istituzionale, portando gli Stati Uniti a diventare un Paese a rischio anche dal punto di vista economico, il che dimostra ancora una volta l’interconnessione tra le diverse dimensioni. Peraltro, il rappresentante americano all’ONU ha detto che gli Stati Uniti denunciano e si ritirano dall’Agenda 2030 perché promuove il superamento delle disuguaglianze, la tutela della diversità, la lotta alla crisi climatica e un approccio di soft power alle relazioni internazionali, tutte finalità contrarie agli interessi americani. Tutto ciò ci fa capire, dunque, l’importanza dell’obiettivo 16 dell’Agenda 2030, che fa riferimento alla pace e alla buona governance. Ma la stessa cosa vale per l’obiettivo 17, che si riferisce alla partnership per lo sviluppo sostenibile, fortemente messo a rischio dagli attacchi dell’amministrazione americana al multilateralismo e alla cooperazione internazionale, con il taglio drastico dei fondi per quest’ultima. Forse, grazie a tali fenomeni, sarà più facile parlare di insostenibilità sociale e istituzionale ed essere capiti, anche dai non esperti.

 

Rispetto ai concetti di economia civile e sociale, che rapporto esiste in questo senso con quello di sostenibilità e come si inserisce l’economia sociale all’interno di una concezione di sostenibilità integrale?

Enrico Giovannini: L’economia civile, così come è stata sviluppata dai teorici dell’approccio relazionale, nega che la competizione sia l’unico modo per stimolare la crescita economica. Questa scuola di pensiero sottolinea l’importanza della cooperazione e propone un capitalismo diverso da quello che si è affermato, dapprima in Inghilterra e negli Stati Uniti e successivamente in tutto il mondo. Da questo punto di vista va detto che l’Europa sta tentando di favorire l’affermazione di un capitalismo parzialmente diverso da quello statunitense, che ponga una maggiore attenzione agli aspetti sociali e ambientali dello sviluppo economico, cioè a quei beni comuni, compresa la pace e un ambiente salubre, che sono a rischio, anche nel nostro Continente. Cooperare conviene, soprattutto quando si tratta di affrontare tempi straordinari come gli attuali e di assicurare quella sostenibilità sociale che in momenti di cambiamento di paradigma, anche economico, rischia di saltare. Ad esempio, per tanti anni ci siamo concentrati sull’indicatore di competitività rappresentato dal costo del lavoro per unità di prodotto, in quanto il lavoro era considerato l’unico fattore della produzione variabile nel breve termine, e questo ci ha spinto a tenere bassi i salari come elemento di competitività. Ma in un momento in cui grazie all’innovazione digitale, alle nuove fonti energetiche rinnovabili, all’economia circolare, ecc. l’intera funzione di produzione può cambiare, anche in tempi rapidi, capiamo che la definizione di una nuova funzione di produzione non può prescindere dalla cooperazione e dal coinvolgimento dei lavoratori, cioè del capitale umano, che va accresciuto grazie all’educazione e alla formazione continua, che andrebbe contabilizzata nei bilanci come investimento, non come costo.

Quando si vive in tempi, chiamiamoli così, disruptive, serve il contributo di tutti. Un esempio interessante che ho incontrato recentemente riguarda una nota impresa di materiali sportivi che ha deciso di passare all’economia circolare per costruire i suoi scarponi da sci, trovando il modo di riciclarli. Poiché si sono resi conto che, se avessero operato da soli, ne avrebbero potuti riciclare pochi, hanno deciso di condividere con le imprese concorrenti la tecnologia che avrebbero usato e hanno convinto tutti ad andare in questa direzione. Fuori dalle basi degli impianti del Dolomiti Superski adesso ci sono dei grandi cassoni in cui chiunque può depositare scarponi a fine vita che poi vengono riciclati. Ecco, questo è un approccio cooperativo che porta a realizzare un business fortemente innovativo, con vantaggi per tutti.

Purtroppo, questo modello non è quello dominante e i risultati si vedono: se prendiamo i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, i progressi in termini di riduzione delle disuguaglianze e della povertà, di educazione e formazione lungo tutto l’arco della vita, di adozione dell’innovazione tecnologica e di lotta al cambiamento climatico sono ancora troppo limitati, e in molti casi abbiamo addirittura visto negli ultimi anni regressi importanti.

 

Parlando ancora di economia civile ed economia sociale, di questo approccio cooperativo e anche del Terzo settore, quale impatto potrebbero avere e su quali SDG le realtà che afferiscono all’economia sociale e quali strategie potrebbero accelerare il raggiungimento dei target dell’Agenda 2030?

Enrico Giovannini: Ovviamente l’obiettivo 8, quello sull’occupazione e il reddito, ma anche l’obiettivo 4 che non è solo educazione, ma anche formazione continua, e l’obiettivo 12, che riguarda l’economia circolare e richiede un approccio cooperativo tra consumatore e produttore (si pensi al riciclo della plastica, del vetro, ecc.). Il paradigma diverso aiuta tutti gli obiettivi, compreso l’obiettivo 16 che ha a che fare anche con la giustizia tra generazioni. Il movimento cooperativo ha il concetto di trasmissione intergenerazionale dell’impresa sociale nei propri statuti, ma avendo bisogno di imprese che guardino al futuro e che dunque assumano la durabilità, come dicono i francesi, cioè la sostenibilità, come paradigma, dobbiamo spingere anche il resto delle imprese a porsi il problema della dimensione di lungo termine della loro attività. Ovviamente, se il CEO prende trecento volte la remunerazione media dei suoi dipendenti e i suoi bonus sono funzione dei tagli dei costi, compresi quelli del lavoro, invece che dello sviluppo dell’impresa nel medio-lungo abbiamo un meccanismo che genera disuguaglianze crescenti che persistono nel tempo.

 

Da un punto di vista europeo l’economia sociale negli ultimi anni è diventata un paradigma di cui si parla più spesso. Anche in Italia le cooperative, le imprese sociali e le mutue svolgono un ruolo chiave da un punto di vista dello sviluppo, soprattutto locale. In questo senso, tanto a livello europeo quanto italiano, qual è il rapporto tra l’economia sociale e il concetto di responsabilità?

Enrico Giovannini: La forma dell’impresa è molto importante per consentire anche una competizione corretta. Negli ultimi anni si sono sviluppate le B Corp e altre forme che vanno nella direzione di un capitalismo diverso. Non c’è dubbio che le spinte che stiamo vedendo negli Stati Uniti a favore di un capitalismo classico, anche se in forme molto nuove (si pensi allo strapotere delle Big Tech), sono negative perché riaffermano l’idea di Milton Friedman, che nel 1970 in un suo famoso articolo sosteneva che l’unica responsabilità sociale dell’impresa è fare profitto. Non è così, il capitalismo storicamente non è stato solo questo, e non lo è tutt’ora, specialmente in Europa. Quello a cui stiamo assistendo, dunque, è una battaglia culturale (oltre che politica ed economica) molto importante, che potrebbe determinare possibili passi indietro anche nell’Unione Europea, in nome della semplificazione o della deregulation. Ad esempio, il rischio che stiamo correndo con le semplificazioni è di smobilitare il reporting sulla sostenibilità e gli obblighi di due diligence delle imprese lungo la loro catena di fornitura per assicurare il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Come anche indicato dalla BCE, le proposte relative a drastiche semplificazioni rischiano di peggiorare la trasparenza e il funzionamento dei mercati, anche finanziari.

Peraltro, i dati disponibili anche per l’Italia mostrano che le imprese che investono in sostenibilità e in innovazione guadagnano competitività, non la perdono. Questo, dunque, è esattamente ciò che il Green Deal ipotizzava sarebbe successo, ma non sono tutti a favore, perché scardina posizione consolidate di potere economico e politico, mostrando che un’altra strada è possibile. Questo vento che stiamo vedendo spirare contro la sostenibilità è anche una reazione di chi non ha nessuna voglia di cambiare le regole del gioco, come anche la Costituzione italiana prevede, dopo la modifica agli artt. 9 e 41 intervenuta nel 2022, che dice esplicitamente che l’attività economica non può danneggiare l’ambiente e la salute delle persone.

 

Proprio il discorso sul Green Deal è reso più aspro da un punto di vista politico, perché spesso si è parlato di come la transizione ecologica finisca per colpire le fasce più deboli della popolazione. Da questo punto di vista, come si può favorire una transizione ecologica che possa essere invece più inclusiva e attenta anche verso salari equi, stabilità e diritti; evitando che chi è ai margini sia escluso dai benefici di questo cambiamento?

Enrico Giovannini: Il Green Deal non porta necessariamente a peggiorare le disuguaglianze, semmai è vero il contrario, perché le disuguaglianze che l’attuale modello di sviluppo provoca sono enormi: si pensi alle circa 300.000 morti premature all’anno che abbiamo in Europa per malattie legate all’inquinamento, la gran parte delle quali tra le fasce più povere, che vivono in territori più inquinati e non possono curarsi. Ovviamente, per realizzare una transizione “giusta” è necessaria una forte coerenza delle politiche, perché altrimenti i rischi di penalizzazione dei più poveri possono diventare reali, e a quel punto assisteremmo a una reazione che blocca la transizione stessa. Questo è quello che purtroppo manca anche nel nostro Continente, perché alcune politiche sono di competenza europea, mentre altre di competenza nazionale. I problemi nascono quando non c’è allineamento tra le due azioni. Basti pensare al fatto che l’Unione Europea fornisce ai Paesi membri fondi consistenti per la dimensione sociale della transizione, ma se poi sono usati male la colpa è della transizione o di scelte errate dei politici?

 

Sul piano locale sembra che qualcosa si stia muovendo verso una maggiore sostenibilità, anche riprendendo quello che è il discorso del Piano per l’economia sociale europeo. Ad esempio, a Bologna, dove è stato sviluppato un piano territoriale locale. Un recente rapporto di Euricse ha dimostrato anche come le imprese dell’economia sociale mostrino una maggiore resilienza per quanto riguarda il superamento delle crisi. Questo modello territoriale, che riprende anche concetti che l’Unione Europea ha sviluppato in questi anni riguardo l’economia sociale, potrebbe tradursi su altri territori, a livello nazionale? Come potrebbero essere trasformati questi piani in dei pilastri strutturali per un nuovo concetto di sviluppo?

Enrico Giovannini: Che a livello locale si assista a un dinamismo estremamente interessante, e non solo in Italia, lo dimostrano tanti studi. Il Covid, da questo punto di vista, ha fatto capire l’importanza del concetto di “resilienza trasformativa” che abbiamo definito con le ricerche condotte al Joint Research Centre della Commissione Europea. E questo vale non solo per le imprese sociali, come lei ricordava, ma anche per le società e i sistemi economici. Si pensi al caso degli aeroporti: chi, come l’Italia, ha scelto, durante il blocco del traffico aereo, di mandare i dipendenti in cassa integrazione invece che licenziarli, al momento della ripartenza ha potuto rispondere molto meglio all’impennata della domanda. Questa è una lezione che è stata appresa in molti settori ma, purtroppo, non è si è ancora trasformata in un nuovo paradigma che guidi le politiche in modo lungimirante. Se gli shock arrivavano una tantum è un conto, ma se sono ripetuti è proprio il modello concettuale orientato a minimizzare i costi nel breve termine che è sbagliato e inadatto. Tra l’altro, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e lo sottolineo perché ho una responsabilità piuttosto rilevante nell’aver portato il concetto di resilienza nelle politiche europee, doveva essere orientato proprio in quella direzione. Le lezioni negative dovute al Covid e ad altri momenti di crisi, ci hanno insegnato che bisogna reagire per “rimbalzare avanti”, come scrivevamo nei primi documenti europei su questi temi, e non semplicemente tornare al punto di partenza. Dopo uno shock la tendenza è di ritornare alla normalità, ma se la normalità non era coerente con una posizione ottimale che senso ha tornare semplicemente indietro? Serve cercare di rimbalzare avanti verso una traiettoria di sviluppo più sostenibile.

 

Dal punto di vista del modello di governance, un’esperienza come il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna riflette un coinvolgimento e un dialogo molto forte tra diversi attori, per un’azione di co-progettazione di una strategia politica di medio periodo. Un modello di questo genere può essere utile per il perseguimento di quegli obiettivi che vanno a costruire una nuova concezione di sostenibilità?

Enrico Giovannini: Sono iniziative molto importanti, perché nel momento in cui un modello funziona, poi si estende. Ed è proprio questo elemento di “contagio”, in questo caso positivo, che può rendere queste esperienze così valide e significative. Mentre a livello nazionale la spinta impressa dalla Commissione Europea e da molti governi nazionali negli anni scorsi a favore della sostenibilità si è affievolita, ma proprio quella spinta sta generando un dinamismo a livello locale estremamente positivo, che speriamo sia duraturo e capace di resistere alle spinte opposte, mostrando ai cittadini che così facendo le imprese funzionano meglio, i cittadini hanno un livello di qualità della vita più alto e così via. E sono molto importanti perché fanno capire, riprendendo l’obiettivo 17, che la partnership non è solo una parola vuota, ma un modo diverso di intendere lo sviluppo. Nel momento in cui la democrazia è sotto attacco su molti fronti o viene interpretata come una mera azione di voto, esperienze come quella di Bologna mostrano che essa è molto più dell’esprimere un voto, ma è partecipazione alle decisioni, come dice la Costituzione.

 

Riflettendo infine sul contesto internazionale, considerando gli aumenti delle spese militari, le spinte protezionistiche, e la maggiore frammentazione, quali sono le difficoltà aggiuntive rispetto al paradigma della sostenibilità e come possono essere superate?

Enrico Giovannini: Questa, come si dice, è la domanda da un milione di dollari. Intanto le difficoltà si possono superare solo usando la scienza e i dati. Come dicevo prima, io continuo a non trovare nessuna evidenza che dimostri che ritardare la transizione ecologica sia un vantaggio, e i dati dell’Istat e dell’ultimo Rapporto dell’ASviS lo dimostrano chiaramente. Ovviamente, siamo tutti interessati in questo momento a discutere della difesa comune europea, ma il cambiamento climatico non si ferma o le disuguaglianze non si riducono solo perché siamo impegnati a discutere di altro. I dati indicano chiaramente quali dovrebbero essere le soluzioni da adottare, ma evidentemente dobbiamo trovare nuove modalità di comunicazione della realtà che essi descrivono, perché i cittadini sono sommersi da informazioni contraddittorie che complicano anche l’implementazione delle politiche.

Il secondo elemento che sottolineo è la necessità, per stimolare la domanda di cambiamento, di evidenziare quei casi che confermano il paradigma dello sviluppo sostenibile in termini di buoni risultati e che facciano vedere che tanti progressi sono possibili. Di nuovo, i dati in tutto il mondo, anche in Italia, ci mostrano che i cittadini vogliono il cambiamento delle politiche ambientali, sociali, economiche: maggiore uguaglianza, un maggiore focus sulla salute, sul lavoro di qualità, sulla protezione ambientale. La politica sembra invece seguire percorsi diversi, il che vuol dire che dobbiamo essere ancora più capaci di farci ascoltare e più forti nel comunicare i punti di vista della maggioranza della società. I dati e le esperienze esistenti ci dicono chiaramente che l’alternativa a un mondo sostenibile è solo un mondo insostenibile, esattamente quello che purtroppo vediamo intorno a noi.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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