L’Egitto dalle primavere arabe al regime di al-Sisi
- 12 Settembre 2018

L’Egitto dalle primavere arabe al regime di al-Sisi

Scritto da Federico Rossi

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Fra i simboli più celebri delle cosiddette “primavere arabe” non si può non annoverare piazza Tahrir al Cairo, occupata nel gennaio 2011 da una folla di cittadini egiziani che manifestavano contro il regime di Mubarak. La molla della protesta era stata soprattutto l’insicurezza economica dovuta in parte alla crisi e in parte all’altissimo tasso di corruzione nella cerchia del “faraone” Hosni Mubarak, il tutto unito all’incapacità del regime stesso di mantenere la sicurezza nel paese, come aveva testimoniato l’attentato contro la comunità copta di Alessandria che aveva inaugurato il 2011.

La rivoluzione egiziana, scoppiata sulla scia di quella tunisina, aveva finito di fatto per essere il faro delle altre proteste e si era conclusa vittoriosamente con le dimissioni del dittatore nel febbraio 2011. La caduta di Mubarak metteva fine così al regime instaurato da Nasser nel 1954 e apriva la strada alle prime elezioni multipartitiche della storia egiziana, tenutesi l’anno successivo, che sembravano prospettare la realizzazione dei propositi della rivoluzione e facevano apparire l’Egitto come l’esempio più riuscito delle “primavere” assieme alla Tunisia.

L’illusione della conclusione dei moti rivoluzionari non è durata però che qualche mese e piazza Tahrir è tornata nuovamente a riempirsi di manifestanti in protesta contro la deriva accentratrice e confessionale del governo democraticamente eletto di Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani. Le nuove manifestazioni hanno offerto così l’occasione adatta all’ascesa di Abd al-Fattah al-Sisi, comandante in capo delle forze armate egiziane, che nel luglio 2013 ha deposto col sostegno dell’esercito il governo dei Fratelli Musulmani.

Al-Sisi era già stato il più giovane membro del Consiglio supremo delle forze armate, l’organo militare che aveva guidato la transizione da Mubarak a Morsi, ed aveva cercato attraverso il golpe di riproporre i militari come la figura di garanzia per il mantenimento dell’ordine nel paese. Adli Mansur, presidente della Corte costituzionale, era stato scelto come presidente ad interim e il Premio Nobel per la Pace Muhammad al-Barade’i come suo vice, ma queste scelte moderate si scontrarono da subito con il dilagare della violenza a seguito della reazione dei Fratelli Musulmani e della repressione violenta dell’esercito, che portò pochi mesi dopo alle dimissioni di a-Barade’i stesso.

Le elezioni dell’anno successivo consacrarono comunque la presa di potere del generale e l’esercito, allontanato dal potere con Mubarak, si riprese la sua posizione dominante nel paese. Dopo l’esclusione dei Fratelli Musulmani e l’annuncio della propria candidatura da parte di al-Sisi infatti molti candidati si ritirano dalle elezioni, alcuni sostenendo pubblicamente il generale e altri condannando le elezioni stesse come una farsa, come nel caso di Khaled Ali, avvocato per i diritti umani già presentatosi nel 2012. Alla fine a sfidare il generale resterà solo Hamdeen Sabahi, che era stato fra l’altro uno dei sostenitori del golpe militare del 2013, spianando la strada alla vittoria ad al-Sisi.

Le proteste seguite al golpe e all’arresto di Morsi furono rapidamente represse dalle forze di sicurezza egiziane. Il 14 agosto 2013 in piazza Rabi’a al Cairo furono uccisi dai militari egiziani centinaia di manifestati (le stime oscillano fra i 638 e i 2600) in quello che è stato considerato il più grande massacro della storia egiziana recente. A seguito di questo episodio i Fratelli Musulmani furono messi al bando fra le organizzazioni terroristiche e centinaia di militanti del Partito Libertà e Giustizia condannati a morte, anche se il giudizio finale sulla gran parte di queste sentenze, fra cui quella di Mohamed Morsi stesso, è stato per il momento posposto. Il nuovo regime si è poi preoccupato di far passare quanto prima una legge che vietasse tutte le manifestazioni non autorizzate dalla polizia.

 

Il potere di al-Sisi

Il messaggio che al-Sisi ha lanciato appena eletto resta lo stesso ancora oggi: sicurezza e ripresa economica in cambio di acquiescenza politica. Così dopo i militanti dei Fratelli Musulmani sono finiti nelle maglie della repressione i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani, poi i blogger, che erano stati l’anima della rivoluzione del 2011. Un caso emblematico è senza dubbio quello del fotografo Shawkan, alias Mahmoud Abu Zeid, incarcerato dal regime per aver documentato gli abusi delle forze dell’ordine nella repressione di piazza Rabia’a e ancora in attesa del verdetto finale sulla sua condanna a morte.

Dall’altro lato al-Sisi si è impegnato nel tentativo di mettere in sicurezza il paese tanto dal punto di vista sociale quanto economico. Su quest’ultimo piano i primi anni del regime hanno visto una leggera ripresa, tanto che il governo aveva annunciato anche progetti importanti in termini di infrastrutture e grandi opere, fra cui la costruzione di una nuova capitale amministrativa che permetterebbe di decongestionare la metropoli del Cairo. Per quanto riguarda la sicurezza sociale l’impegno iniziale del regime, definitosi per opposizione ai Fratelli Musulmani, è stato quello di cercare la pace confessionale, eliminando le ultime discriminazioni rimaste per i non cristiani e tentando di fare del contrasto al terrorismo il cavallo di battaglia del suo governo.

Tuttavia negli ultimi tempi questo tacito accordo su cui si è basato finora il potere di al-Sisi sta cominciando a scricchiolare di fronte ai fallimenti sempre più numerosi del regime e le promesse non mantenute dal punto di vista securitario, sociale ed economico inficiano la tenuta attuale del governo di al-Sisi, che non sembra essere riuscito a portare a pieno compimento gli obiettivi prospettati dal generale.

Una parte dei sostenitori del generale si era infatti schierato con lui per paura che l’Egitto cadesse in una situazione simile a quella della Siria o della Libia, un timore alimentato dalla retorica stessa del governo e rinforzato dalla crescita del gruppo islamista estremista Ansar Bait al-Maqdis nella penisola del Sinai, poi unitosi all’IS col nome di Stato Islamico della Provincia del Sinai. Il generale aveva promesso la pacificazione della provincia e a più riprese ha lanciato varie operazioni militari nella zona. L’ultima ancora in corso è l’Operazione Sinai 2018, iniziata dopo che a novembre 2017 più di 300 civili sono morti in un attacco ad una moschea ad al-Arish, capitale del governatorato.

Queste iniziative hanno però sortito l’effetto di aumentare la pressione sulla popolazione civile del Sinai: il governo ha chiuso tutti i confini della regione, bloccato le strade e i collegamenti principali e limitato i movimenti da e verso il Sinai, ma è stato soprattutto il blocco dei mezzi pesanti ad avere le conseguenze più disastrose, causando una grave crisi alimentare per l’impossibilità di trasportare beni alimentari nella provincia. A fronte di un prezzo così alto il risultato non è stato dei migliori e lo Stato Islamico della Provincia del Sinai continua ad essere una delle fazioni più attive dell’IS, colpendo periodicamente i punti nevralgici della regione, mentre si registrano contemporaneamente anche frequenti episodi di abusi da parte dei militari stanziati nella regione.

Anche sul piano economico i progressi fatti nei primi anni sembrano non reggere nel lungo periodo: nel 2017 l’inflazione è salita oltre 30% e le riforme economiche prospettate dal regime non hanno dato i risultati sperati, complice anche il crollo del settore turistico. L’Egitto è stato così costretto nel 2016 a richiedere un prestito dal Fondo Monetario Interazionale di 12 miliardi di dollari da spartire su tre anni e il costo sociale di questo finanziamento è stato più alto del previsto. Il regime si è visto costretto a introdurre una serie di pesanti riforme, fra cui l’introduzione di un’imposta sul valore aggiunto e il taglio dei sussidi sul carburante, accompagnato da un innalzamento sempre maggiore del prezzo di quest’ultimo, che ha ridotto di molto il potere d’acquisto delle fasce più povere.

Il FMI chiede inoltre un ulteriore aumento del prezzo dell’energia accompagnato da una riduzione delle tasse, che possa favorire la crescita del settore privato, ancora molto debole in Egitto. Il Cairo tuttavia non sembra troppo intenzionato a percorrere questa strada, in parte per l’altissima evasione fiscale che interessa il settore dei liberi professionisti ma soprattutto per le necessità dovute al mantenimento dell’apparato militare. Il ruolo dell’esercito infatti, già preponderante per tutta la storia egiziana, non ha fatto che crescere sotto il governo di al-Sisi, che ha spinto anche per aumentare le immunità di cui godono i militari di alto rango. Nonostante il peggiorare della situazione economica salari e pensioni per i membri dell’esercito sono notevolmente aumentati e, accanto a questo, agli ufficiali sono concessi prezzi sussidiati per beni immobiliari e di lusso.

Il potere di al-Sisi d’altronde si basa in buona parte sul favore delle forze armate, che nonostante il deteriorarsi della situazione socio-economica, proseguono nella repressione del dissenso. Fra il 2014 e il 2018 si contano circa 60.000 prigionieri politici e centinaia di casi di tortura. Amnesty International ha inoltre denunciato in un rapporto il ricorso sistematico alle sparizioni forzate, fra cui quella del ricercatore italiano Giulio Regeni, scomparso il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto 10 giorni dopo con evidenti segni di tortura. Ma quello di Regeni è purtroppo solo il caso di punta di una situazione in cui il ricorso a questi mezzi sembra diventare la norma, come riporta ancora Amnesty International ricordando i casi dei due quattordicenni Mazen Mohamed Abdallah e Aser Mohamed, vittime di violenze e a abusi dalle forze di polizia.

Alla repressione del dissenso si accompagna parallelamente anche una stretta maggiore sulla società civile, passata attraverso la chiusura dei numerosi blog che avevano animato la rivoluzione del 2011 e la criminalizzazione delle ONG, che con una legge promossa nel maggio 2017 sono passate sotto la stretta e diretta sorveglianza delle forze di sicurezza. Le elezioni del marzo 2018 hanno poi portato chiaramente alla luce una situazione in cui al-Sisi detiene saldamente il potere grazie al favore dell’esercito, che ha contribuito a mettere da parte tutti i suoi principali avversari politici.

Sami Anan, esponente dei Fratelli Musulmani, è stato arrestato non appena annunciata la sua candidatura, ma un destino simile lo ha subito anche Khaled Ali, che è stato condannato a tre mesi per la partecipazione ad una protesta. Alla vigilia del voto l’unico rimasto era Moustafa Moussa, soprannominato al kombares (la comparsa), che all’inizio della campagna elettorale si presentava sui social network con una foto del suo avversario. A seguito delle elezioni tuttavia il regime ha concesso la grazia concessa a 712 prigionieri politici arrestati durante la campagna elettorale per tentare di recuperare un risultato comunque non pienamente soddisfacente, soprattutto a causa dell’affluenza fermatasi al 42%.

 

La posizione internazionale dell’Egitto di al-Sisi

Nonostante questo i partner internazionali dell’Egitto continuano però a sostenere il generale: Donald Trump è stato fra i primi a congratularsi con al-Sisi per la vittoria delle elezioni, seguito da Macron, che ha solo accennato alla necessità di maggiore libertà politica in Egitto, e poi da tutti gli altri paesi europei. Al-Sisi continua infatti a godere del supporto dell’Europa e degli Stati Uniti, che appaiono disposti a chiudere un occhio sulla repressione in cambio di un supporto nella lotta al terrorismo e di un punto di appoggio per la situazione libica. Lo stesso Ministro dell’Interno italiano ha recentemente dichiarato che la verità sul caso Regeni è secondaria rispetto al mantenimento delle relazioni strategiche con il Cairo ed ha incontrato in prima persona al-Sisi stesso nell’ottica di implementare la collaborazione per il contrasto all’immigrazione irregolare.

Eppure l’Europa non è certo la priorità nella politica estera egiziana, che appare ad oggi orientata molto di più verso altri due partner: la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping. Per quanto riguarda la prima si è avuto una convergenza fra Mosca e il Cairo su molte questioni strategiche, come il contrasto al terrorismo e il ruolo all’interno del conflitto siriano e in quello israelo-palestinese, nonché il sostegno al generale Haftar nella guerra in Libia. I due Stati hanno poi stretto anche accordi di natura economica, riguardanti lo scambio di armamenti, la creazione di una zona industriale russa nella Zona Economica del Canale di Suez e la firma del Dabaa Nuclear Power Plant per lo scambio di tecnologie e servizi nel settore dell’energia nucleare.

Ma se con la Russia le relazioni si sono strette notevolmente negli ultimi cinque anni, l’Egitto di al-Sisi è legato oggi soprattutto a Pechino. Le relazioni sino-egiziane sono in crescita costante almeno dal 2014, tanto che Al-Sisi fra il 2015 e il 2017 si è incontrato per ben tre volte con il presidente cinese, che ha ricambiato visitando ufficialmente l’Egitto nel gennaio 2016. A differenza delle relazioni con la Russia, nel caso della Cina la dimensione prevalente è quella economica: Pechino è ormai da molti anni il primo partner commerciale dell’Egitto, ma negli ultimi tempi ha ulteriormente intensificato la mole di investimenti, soprattutto nel campo infrastrutturale, e si occupa oggi di importare in Egitto la gran parte dei macchinari usati nell’industria. Non mancano comunque elementi di cooperazione strategica, come ad esempio il sostegno cinese alla proposta egiziana di riforma del Consiglio di Sicurezza, che aprirebbe la strada al Cairo per diventare un membro permanente.

Un passo rilevante e molto discusso è stato poi il riavvicinamento di al-Sisi ad Israele e la formazione di una nuova alleanza basata per adesso sull’esistenza di “comuni nemici”, lo Stato Islamico della Provincia del Sinai in primis ma anche HAMAS, accusato di collaborare con i Fratelli Musulmani. I due paesi hanno collaborato inoltre nella chiusura dei confini, occupandosi congiuntamente ad esempio dell’allagamento dei tunnel usati dai migranti palestinesi della Striscia di Gaza per arrivare in Egitto, ma hanno anche recentemente firmato un accordo per l’esportazione del gas israeliano verso l’Egitto.

Le relazioni internazionali non sono però altrettanto floride con i vicini africani. A parte la Libia, dove al-Sisi sta cercando di favorire l’ascesa di quello che da alcuni è visto come il suo corrispettivo libico, il generale Haftar, vi sono notevoli problemi diplomatici in particolare con il Sudan e con l’Etiopia. Al centro del contenzioso è il GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam), un progetto che vorrebbe deviare molte delle acque che entrano nel Nilo in canali secondari per risolvere i problemi di siccità in Etiopia. L’accordo fra Egitto, Sudan e Etiopia, firmato nel 2015, sembra vacillare di fronte alle criticità che un simile progetto solleverebbe per l’Egitto, che ricava dal Nilo più dell’80% delle sue risorse idriche e che è già vessato dall’abuso di acqua in campo agricolo, da una forte crescita demografica e da un crescente livello di inquinamento idrico.

Tutte queste scelte in campo internazionale si riversano necessariamente sulla dimensione interna, come hanno dimostrato le proteste seguite alla riapertura dell’ambasciata egiziana a Tel Aviv o quelle contro la cessione delle isole di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Proprio queste ultime evidenziano il procedere dell’erosione del già compromesso rapporto fra al-Sisi e la popolazione egiziana, soprattutto quella giovanile sia studentesca che non.

Non è un caso che la principale spina nel fianco per al-Sisi siano stati in questi anni proprio gli studenti delle principali università cittadine di al-Azhar, Cairo, Ain Shams e Alessandria. Fin dal colpo di Stato si sono registrate centinaia di manifestazioni, inizialmente guidate da giovani esponenti dei Fratelli Musulmani, ma a cui si sono poi progressivamente uniti gruppi liberali e di sinistra, vicini allo Strong Egypt Party, al Partito della Costituzione e al Movimento dei Socialisti Rivoluzionari.

La repressione del regime si è tradotta in questo caso in una vera e propria militarizzazione dei campus universitari: abrogata la legge del 2010 che proibiva la presenza di agenti armati all’interno delle università, forze di sicurezza tanto pubbliche quanto private sono state introdotte nei campus ed è stato dato loro anche il potere di compiere veri e propri arresti. Questo non ha tuttavia fermato la protesta, ma ha piuttosto esasperato il conflitto, portando a decine di arresti e anche alcuni morti nelle varie manifestazioni che si sono succedute.

Alle elezioni studentesche nelle principali università il Ministro dell’Istruzione Superiore egiziano ha cercato di sostenere la Coalizione Voce dell’Egitto, escludendo dalle elezioni tutti i candidati vicini ai Fratelli Musulmani. Il risultato non è però stato quello sperato e nella maggior parte dei casi, complice proprio l’esclusione dei Fratelli Musulmani, a vincere sono stati i candidati liberali e socialisti, cosa che testimonia la volontà della maggioranza degli studenti di continuare a sfidare il regime di al-Sisi.

Con il crescere del distacco fra le generazioni e lo scivolamento del paese verso la crisi economica la tenuta del governo di al-Sisi sembra quindi messa sempre più a dura prova. Le mosse del generale sullo scacchiere internazionale sembrano coincidere poco con le richieste della popolazione egiziana, su cui pesano soprattutto le conseguenze della crisi economica e una disoccupazione giovanile fra le più alte al mondo.

A fare da contrasto all’impoverimento generale del paese sta la sempre maggiore ricchezza dei militari, unica categoria che continua ad arricchirsi nell’Egitto odierno. Questo fatto, unito al ruolo dell’esercito nella repressione e l’età media molto alta dei quadri dirigenti, contribuisce ad accentuare il contrasto con i giovani egiziani.

L’Egitto si è così avvicinato quasi al punto di ricreare quelle stesse condizioni che avevano generato la rivoluzione del 2011, in particolare per effetto dell’insicurezza sociale, dovuta alla difficoltà di respingere la penetrazione di gruppi terroristici e all’estesa repressione, e della crisi economica, che ha colpito soprattutto le fasce più povere della cittadinanza. A questo si aggiunge il conflitto generazionale, che vede da un lato una classe dirigente con un’età molto elevata e dall’altro una popolazione estremamente giovane.

Di fronte a questa situazione al-Sisi sta cercando di recuperare consensi, dimostrandosi più aperto e tentando di riproporsi ancora una volta come il garante della pace sociale, ma il futuro prossimo resta comunque difficilmente prevedibile e strettamente legato alle vicende economiche e alle questioni interne più impellenti, prima fra tutte la pacificazione del Sinai.

Scritto da
Federico Rossi

Nato nel 1995, attualmente studente di Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna e di Governance delle Migrazioni presso l’Università di Pisa, dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche Internazionali nello stesso ateneo. Attivo in alcune associazioni di volontariato e sportello legale per le migrazioni, tiene una rubrica a tema immigrazione per la rivista online “Il Fuochista”.

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