Cosa (non) cambia con le elezioni in Nigeria
- 28 Marzo 2019

Cosa (non) cambia con le elezioni in Nigeria

Scritto da Federico Rossi

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Un Paese, tante divisioni

Oltre alla questione generazionale, un’altra lente utile per leggere le elezioni nigeriane è riscontrabile nelle numerose divisioni sociali e territoriali, che condizionano il panorama politico nigeriano al punto da impedire una reale unità del paese. La Nigeria si presenta in realtà come un piccolo continente a parte, suddiviso nei 36 Stati che compongono, insieme alla capitale, la struttura federale della Repubblica nigeriana. L’importanza di queste divisioni è stata cristallizzata inoltre anche nella legge elettorale vigente, che richiedeva per vincere al primo turno la soglia del 25% in almeno 24 Stati federati.

Il primo fronte di separazione che è opportuno tracciare è quello religioso, apparentemente una linea orizzontale che separa il nord a grande maggioranza musulmana dal sud a maggioranza cristiana. La composizione religiosa del paese si traduce anche in una prima separazione legislativa, laddove si assiste all’applicazione della legge shariatica, pienamente in nove Stati settentrionali e parzialmente in altri tre.

Questa bipartizione rischia però di non cogliere fino in fondo la complessità del panorama religioso nigeriano. Innanzitutto queste divisioni non sono nette: importanti comunità cristiane, talvolta anche vittime di marginalizzazione, vivono nel nord del paese, così come l’Islam è molto diffuso nel sud e sta crescendo presso le comunità Igbo, nonostante i gruppi tradizionali vi si oppongano.

Inoltre, anche al loro interno le due fedi principali sono tutt’altro che omogenee, come dimostra la presenza di gruppi di musulmani ahmadiyya e sciiti, questi ultimi riuniti nel Movimento Islamico della Nigeria, spesso oggetto di pesanti repressioni. Il Cristianesimo d’altra parte, oltre alle divisioni fra numerose correnti, si è spesso innestato sulle religioni tradizionali, dando vita a forme sincretiche anche molto diverse.

Nigeria

A questa prima divisione segue poi la mappa della frammentazione etnica del paese, che vede in particolare i Fulani e gli Hausa nelle regioni settentrionali, gli Yoruba in quella sud-occidentale e infine gli Igbo in quella sud-orientale, regione tristemente nota per il tentativo di secessione che aveva portato all’effimera Repubblica del Biafra e alla conseguente sanguinosa guerra civile, conclusasi nel 1970. Anche se più della metà della popolazione appartiene a questi gruppi, essi non esauriscono comunque il panorama etnico e culturale della Nigeria, che conta centinaia di etnie e quasi cinquecento lingue parlate.

Alcune di queste costituiscono la maggioranza in determinati Stati federati del paese, come nel caso degli Ijaw, localizzati soprattutto nelle regioni del Delta del Niger, dove si trovano i principali giacimenti petroliferi. Nonostante questo abbia determinato una notevole ascesa economica e politica della regione, da cui proveniva anche l’ex presidente Goodluck Jonathan (2010-2015), i danni ambientali causati dallo sfruttamento delle grandi multinazionali hanno al contempo distrutto l’economia tradizionale e favorito l’insorgere di istanze autonomiste e secessioniste.

Un altro gruppo etnico particolarmente importante nigeriana è quello dei Kanuri, localizzati in alcune delle più povere regioni del nord-ovest del paese e presenti anche in Niger, Ciad e Cameroun. Essi sono il gruppo più presente all’interno della fazione islamista estremista Boko Haram, che ha la sua base operativa proprio negli Stati nord-orientali del Borno, dell’Adamawa e dello Yobe.

Questo mosaico ha assunto una rilevanza politica sempre maggiore nella Quarta Repubblica soprattutto a partire dalle elezioni del 2011, che hanno visto la sconfitta di Buhari stesso contro il candidato del PDP Goodluck Jonathan in una situazione di estrema polarizzazione dell’elettorato lungo l’asse nord-sud. Alla successiva tornata nel 2015 Buhari, originario dello Stato di Katsina nel nord, aveva quindi sfruttato l’arretramento del PDP dalle regioni musulmane e, grazie all’alleanza con altri partiti di opposizione localizzati nel sud del paese, era riuscito a superare l’uscente Jonathan, cui era rimasta soltanto la roccaforte del PDP fra gli Ijaw del Delta.

L’arretramento del PDP dalle regioni settentrionali è da imputare soprattutto al fallimento nella gestione di Boko Haram, che nel biennio 2014-2015 aveva raggiunto la sua massima espansione e controllava intere porzioni di territorio nel nord-est. La questione securitaria è diventata quindi un tassello centrale della competizione elettorale e Buhari stesso aveva cavalcato una simile retorica servendosi soprattutto della risonanza mediatica del rapimento di 276 studentesse avvenuto a Chibok nello Stato del Borno nel 2014, una crisi divenuta il simbolo dell’incapacità del PDP di gestire il conflitto.

Dopo appena un anno di presidenza Buhari aveva inoltre dichiarato che Boko Haram era stato finalmente sconfitto grazie agli sforzi del suo governo, anche se in realtà la situazione sembra essere molto più complessa. In primo luogo l’indebolimento di Boko Haram era già iniziato subito prima dell’elezione di Buhari, sia grazie all’alleanza militare fra Nigeria, Niger, Ciad e Cameroun, che ha ridotto notevolmente il territorio controllato da Boko Haram, sia per l’effetto dei dissidi fra i miliziani stessi.

All’interno di Boko Haram si è verificata infatti una profonda spaccatura quando lo Stato Islamico, a cui l’organizzazione si era affiliata nel 2015, ha tentato di sostituire con Abu-Musab al-Barnaw il leader storico Abubakar Shekau, guida di Boko Haram dal 2009, quando poco dopo il lancio della lotta armata era rimasto ucciso Ustaz Mohammed Yusuf, il carismatico fondatore del movimento. Pur dichiarandosi ancora fedele allo Stato Islamico, Shekau non ha accettato la leadership di al-Barnawi, provocando una scissione interna a Boko Haram che ha certamente minato le capacità di reazione all’offensiva della Nigeria e dei suoi alleati.

L’annuncio della sconfitta di Boko Haram sembra in ogni caso decisamente prematuro. Anche se il territorio controllato dai miliziani si è ridotto in modo considerevole, essi continuano a mantenere basi operative negli Stati del Borno e di Yobe e sono ancora capaci di organizzare azioni di guerriglia, come testimoniano i recenti attacchi ai seggi elettorali. Dal 2016 è inoltre tornato progressivamente a salire anche il numero dei rapimenti, pur senza tornare ai picchi del 2014-2015.

La questione securitaria nigeriana non si esaurisce tuttavia con Boko Haram: un fronte secondario è presente nella regione del Delta del Niger, dove opera una costellazione di gruppi armati secessionisti e autonomisti che colpiscono prevalentemente le installazioni delle multinazionali petrolifere. Nonostante il principale di questi gruppi, il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND), si fosse schierato con Buhari nel 2015, accettando anche una tregua dopo la sua elezione, l’accordo fra le due forze politiche ha mostrato fin da subito la sua fragilità.

Il cessate il fuoco è infine saltato definitivamente appena due anni dopo, quando il MEND si è unito agli altri gruppi che avevano proseguito negli attacchi, a causa delle enormi distanze programmatiche fra Buhari, centralista e acceso sostenitore della riforma petrolifera, e i gruppi miliziani del Delta del Niger, che puntano invece ad una maggiore autonomia regionale e all’investimento locale dei proventi del petrolio. Il naufragio delle trattative con il MEND è diventato così lo specchio del fallimento del Congresso di Tutti i Progressisti (APC), il partito di Buhari, di insidiare il dominio del PDP nel sud-est del paese, che anche in questa tornata elettorale ha votato compatto per Atiku Abubakar, promotore di un ritorno alla politica di amnistia verso i militanti di questi gruppi attuata dai governi del PDP.

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Scritto da
Federico Rossi

Nato nel 1995, attualmente studente di Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Superiore Sant’Anna e di Governance delle Migrazioni presso l’Università di Pisa, dopo aver conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche Internazionali nello stesso ateneo. Attivo in alcune associazioni di volontariato e sportello legale per le migrazioni, tiene una rubrica a tema immigrazione per la rivista online “Il Fuochista”.

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