Finanza e ambiente: tra titoli ESG e difficoltà di pianificazione. Intervista a Rudi Bogni
- 11 Dicembre 2021

Finanza e ambiente: tra titoli ESG e difficoltà di pianificazione. Intervista a Rudi Bogni

Scritto da Lorenzo Benassi Roversi

9 minuti di lettura

Gli impegni di decarbonizzazione assunti dai Paesi della COP26 spingono a chiedersi quali strumenti permettano di accelerare il passo sulla via della sostenibilità ambientale. Vari ormai gli stimoli a cambiare rotta provenienti dalla comunità scientifica e dalla società civile, Greta Thunberg in testa, pur senza ridurre ai Fridays For Future la galassia ambientalista che preme su politica e opinione pubblica, reclamando una svolta verde. Sappiamo che nei prossimi anni necessario cambiare i sistemi produttivi, accelerare gli investimenti, riorientare le abitudini di consumo. La trasformazione è epocale e la congiuntura non è delle più semplici. Ci troviamo a fare i conti con gli esiti inflattivi della ripresa economica e con quella che potrebbe apparire come una cronicizzazione della pandemia. A complicare il quadro, una situazione geopolitica frammentata, da un lato sempre più policentrica e dall’altro inclinata verso quella che si teme essere una nuova “guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina. Qual è in questo contesto il ruolo della finanza? Se nella crisi del 2008, i suoi attori venivano additati quali colpevoli del disastro, oggi si pensa che una finanza responsabile possa contribuire in modo tutt’altro che secondario alla realizzazione della transizione ecologica. «I mercati finanziari possono agevolare il processo di decarbonizzazione, ma bisogna stare attenti all’autenticità degli strumenti che offrono» mette in guardia Rudi Bogni. 

Bogni vanta una lunga esperienza professionale nell’alta finanza e nella gestione patrimoniale, prima come CEO di UBS Private Banking, poi in Moody’s e nei consigli di amministrazione di svariate società di investimento, da Waypoint Capital a LGT Capital Partners fino a Lightrock, avanguardia nell’impact investing e impegnata sul fronte della finanza sostenibile, nonché trustee della Prince of Liechtenstein Foundation e oggi è attivo come consulente, tra Londra e Basilea.


Parliamo di finanza e ambiente. Come può contribuire la finanza agli obiettivi di decarbonizzazione?

Rudi Bogni: Innanzitutto, incanalando il capitale verso nuove tecnologie. I titoli ESG, che nascono per segnalare la sostenibilità degli investimenti dal punto di vista dell’ambiente (environment), della società (social) e della governance, manifestano una spinta da parte della finanza mondiale (banche e gestori di fondi, in primis) a mettersi in compliance con il nuovo paradigma sociale, politico e culturale della sostenibilità. Il processo però non è facile.

 

Vediamo crescere in modo impetuoso la massa dei titoli ESG, che secondo la BRI (Banca dei regolamenti internazionali) arrivano a superare un terzo degli asset gestiti a livello professionale. Quali sono i rischi?

Rudi Bogni: Il rischio più immediato è il greenwashing: quell’insieme di tentativi di darsi una pagella di sostenibilità che nasconda le contraddizioni del proprio agire. Il problema a più lungo termine è la mancanza di un piano di transizione. Si individuano scadenze per il raggiungimento di obiettivi, ma manca una road map di azioni concrete per giungere alla decarbonizzazione. Così per chi investe è difficile organizzarsi. La finanza è pronta a fare il suo ruolo – come dice Mark Carney, economista e già governatore della Banca d’Inghilterra –, ma la politica dev’essere chiara nella pianificazione della transizione. Oggi non c’è un piano chiaro a livello energetico. Eppure il compito della politica è tracciare la rotta. Se manca questo ruolo, non si investe o si rimane legati a forme più convenzionali di investimento che ci fanno rallentare sul fronte della trasformazione ecologica e tecnologica. Ad esempio, si è investito nei porti per far arrivare il gas liquido, ma lo si è fatto nella certezza che non c’erano altre alternative e che si sarebbe rimasti legati al metano. Se volessimo sperimentare soluzioni più innovative, più imprenditoriali abbiamo bisogno di una pianificazione credibile su cui fondarci.

 

A cosa si deve la mancanza di programmi puntuali?

Rudi Bogni: Alla discordanza delle visioni in campo e alla difficoltà nel fare i conti con domande complesse, a cui non si è ancora deciso che risposte dare.

 

A quali domande si riferisce?

Rudi Bogni: La partita si gioca sugli investimenti. Una domanda è: bisogna togliere risorse a chi produce energia da idrocarburi? Da un certo punto di vista, questo agevolerebbe il transito verso le energie alternative, rischiamo però di “staccare l’ossigeno” ad aziende che stanno faticosamente cercando di compiere una transizione verso la sostenibilità, con sforzi finalizzati a diminuire l’impatto ambientale. Inoltre, non è da escludere che togliere tutte le risorse a questi settori finisca per aprire la strada all’intervento di soggetti senza alcun compasso morale: società dedite al riciclaggio, mondi collaterali alla criminalità organizzata. Eliminare dal proprio portafoglio titoli i produttori di idrocarburi non significa automaticamente lavorare per la sostenibilità. Può non essere la scelta giusta, anche se dal punto di vista del marketing ambientalista, può far comodo ai gestori di patrimoni dire di non aver nulla a che fare con la filiera degli idrocarburi.

 

A che livello bisogna occuparsi di rispondere a queste domande? Nazionale, sovrannazionale?

Rudi Bogni: Per quanto ci riguarda, almeno a livello europeo. L’Unione Europea dovrebbe maturare una politica energetica comune, la cui mancanza è un grave limite alla sua autonomia strategica. Si nota una difficoltà nel creare una convergenza di interessi e visioni: la Francia continua con il nucleare, la Germania ha chiuso, ad esempio. All’Unione Europea manca una strategia, si sommano le contraddizioni. Oltreoceano non sempre c’è più chiarezza: in California chiuderà una grande centrale nucleare, ma per ora non si sono programmate alternative energetiche.

 

Così sembra che la finanza voglia “scaricare il barile” alla politica.

Rudi Bogni: Gli investimenti hanno bisogno di programmazione. Anche nei Paesi sviluppati, il civil service non sembra in grado di mettere a punto piani intelligenti e credibili sul lungo termine quanto a transizione energetica. Nel processo di decarbonizzazione si è fatto spesso l’errore di andare avanti senza avere pianificato le conseguenze. Pensiamo alla Germania, dove si è dato uno stop completo al nucleare non riflettendo a sufficienza sulle difficoltà generate dalla distribuzione geografica di energie alternative, presenti nel Nord del Paese, e fabbriche energivore, più diffuse nel Sud. Si è verificato un problema di trasmissione dell’energia. Oggi si sta costruendo una sensibilità diffusa che porta nella direzione giusta, ma le risposte sul fronte programmatico sono scarse.

 

Parlando di sensibilità ambientale, sul fronte finanziario a che punto siamo?

Rudi Bogni: Tutti gli investitori dei Paesi sviluppati hanno una preferenza molto esplicita, a volta ostentata, per investimenti sostenibili. Poi ci sono autorità sovrannazionali che permettono di identificare investimenti che propriamente possono essere definiti ESG. Le grandi linee di indirizzo sono definite dalle Nazioni Unite, che hanno un’agenzia dedicata e che si occupano di stabilire criteri. Ovviamente il rischio che la sigla ESG sia ottenuta immeritatamente sussiste comunque. L’IFRS – International Financial Reporting Standards che stabilisce gli standard internazionali per la contabilità ha deciso di far rientrare gli ESG nei bilanci. La rappresentazione contabile dell’impegno per la sostenibilità sarà un passo avanti notevole, che renderà questa sigla più affidabile.

 

Ad oggi quanto c’è di consistente nei titoli ESG e quanto appartiene alla categoria del greenwashing?

Rudi Bogni: Al momento c’è molto greenwashing, quanto esattamente non saprei dirlo. Nessuno può saperlo con precisione. Pochi sono i gestori che avevano già compreso la rivoluzione in atto e si erano equipaggiati con procedure robuste per verificare le credenziali di chi proponeva titoli ESG. Si tratta di iniziative non così frequenti e comunque discrezionali, intraprese da singole istituzioni finanziarie. Tutto però sta procedendo velocemente, i principali gestori si stanno allineando. BlackRock, il più grande fondo di investimento al mondo, si sta spendendo in questo senso, ad esempio. L’obiettivo è dare forma agli strumenti necessari a garantire che i nuovi investimenti contribuiscano alle politiche Net Zero. C’è una valanga in atto, tutto si sta muovendo molto velocemente, anche se in modo un po’ confuso.

 

Lei ha un’esperienza di vari decenni nel mondo della gestione patrimoniale, da quando si manifesta un bisogno etico negli investimenti?

Rudi Bogni: I pionieri in questo settore datano già dalla fine degli anni Novanta. Ricordo fondi in Svizzera, prima dell’avvento del nuovo millennio. Su grande scala il discorso etico, in particolare sul fronte della sostenibilità ambientale, ha iniziato a imporsi da poco più di dieci anni.

 

Quando parliamo di finanza che si mette al servizio di scopi ambientali (eco-finanza) e di investimenti eticamente orientati (finanza etica), sappiamo che all’intenzione di produrre un impatto positivo sul pianeta e sulla società, si abbinano scopi di convenienza. Come si configura tale dimensione? Perché oggi è conveniente effettuare investimenti di questo tipo?

Rudi Bogni: Ci sono due motivi essenziali. Il primo è la coerenza con i valori della propria epoca. Se i valori della società vanno in una certa direzione, andare controvento è rischioso anche a livello economico, mentre conformarsi, anche anticipando la tendenza, fa aumentare le probabilità di generare profitti. Poi c’è una prospettiva imprenditoriale, che riguarda le opportunità che gli investimenti in nuove tecnologie possono aprire.

 

In buona parte, la transizione ecologica si lega alla tecnologia, ai suoi avanzamenti. Ad oggi, ci sono grandi imprese e settori industriali floridi che si scontrano con l’impossibilità tecnica di affrancarsi dall’utilizzo di fonti fossili. Gli attuali aumenti di prezzo spingerebbero a investire su soluzioni più sostenibili. C’è bisogno di stimolare innovazioni disruptive. Che ruolo può avere la finanza?

Rudi Bogni: Questo discorso vale soprattutto per il venture capital, che per sua natura si interessa ai margini di guadagno cui l’innovazione può dare accesso. L’interesse poi aumenta se sono in gioco sussidi e stimoli pubblici e un contesto favorevole, che al momento in Italia e in Europa tende a mancare. In altri contesti sembra che si faccia anche troppo: se guardiamo ai titoli quotati in Borsa, troviamo società che ancora non hanno introiti, ma hanno suscitato molte aspettative e attirato immense quantità di capitale. Pensiamo a Rivian, la startup che promette camion elettrici, e pur non avendo ancora presentato il primo bilancio, ha raggiunto una capitalizzazione di Borsa che supera i 100 miliardi di dollari.

 

Questo però non è rassicurante. Non si rimprovera proprio questo alla finanza: creare bolle sulla base di promesse?

Rudi Bogni: In parte investire vuol dire fare un salto nel buio. Il rischio si giustifica in ragione del fatto che tende ad affermarsi chi prende la rincorsa prima degli altri. Ovviamente, l’obiettivo è aggiudicarsi introiti quando la tecnologia dovesse effettivamente sfondare. Il fatto che si raccolga tanto denaro su progetti di mobilità elettrica è condizione perché le cose si muovano velocemente, significa che il mercato ha preso sul serio l’obiettivo. D’altronde, il lavoro del capitale di rischio è questo: rischiare. Ovvio però che concentrare tanta energia su certe tecnologie fa poi sì che altre, altrettanto promettenti, vengano sottovalutate.

 

Quali, ad esempio?

Rudi Bogni: Penso alle tecnologie per limitare le emissioni del metano. Quando si parla di decarbonizzazione, ci si deve preparare a un lento processo, nel quale gli effetti delle nostre azioni si producono nel corso di decadi. Le tecnologie a cui mi riferisco possono invece avere un impatto più veloce, un riflesso nei prossimi dieci anni, anche in termini di contenimento delle temperature. Le emissioni di metano nell’atmosfera provengono da tre fonti: i rifiuti, l’agricoltura, la produzione di energia. Esistono tecnologie già correnti per limitare le perdite, catturare le emissioni, evitando la dispersione. Varrebbe la pena di investire su questo fronte, al momento poco considerato.

 

A proposito di metano, si è individuato questo gas come energia di transizione, per superare la dipendenza dalle fonti fossili più inquinanti e accompagnarci verso le rinnovabili e, più avanti, verso l’idrogeno. Si fa notare però come una presenza più forte del metano nel mix energetico aumenterebbe la dipendenza geopolitica dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Che dire a riguardo?

Rudi Bogni: Certamente questa dipendenza esiste e i suoi riflessi geopolitici sono forti. Si deve sempre al fatto che l’Unione Europea non ha una politica energetica. La decisione fondamentale riguarda il nucleare: farlo o meno? I tempi però sono lunghi, non sono scelte che si mettono in pratica in pochi mesi. Se si decidesse oggi, non si partirebbe prima del 2030. Al momento quindi sembrano non esserci alternative. Anche se si assiste alla prima diffusione dei reattori RSM, di piccole dimensioni, sviluppati essenzialmente da due Paesi, Stati Uniti e Francia, e ora anche dalla inglese Rolls-Royce. Il costo della tecnologia è molto inferiore a quello delle grandi centrali nucleari, sono modulari, possono essere messi in linea più in fretta, potenzialmente sono anche galleggianti. Rimane il problema attitudinale dei popoli europei, che devono decidere se vogliono inserire nel mix energetico anche il nucleare, come male minore, utile a rendersi indipendenti, e sopportarne i rischi. È una grande incognita.

 

Se dipendesse da Lei come risponderebbe?

Rudi Bogni: Personalmente, temo che senza nucleare sarà dura eliminare completamente il carbone in tempi utili. Ciò vale in particolare per i Paesi emergenti, dove non ci sono gasdotti per trasportare il metano. La soluzione più efficace potrebbero essere piccoli impianti nucleari, posto che al momento solare ed eolico non sono sufficienti ad eliminare la dipendenza dal carbone.

 

Qual è l’approccio dei Paesi emergenti agli investimenti verdi, ai titoli ESG, agli obiettivi di transizione energetica? Sono esigenze sentite anche al di fuori dei contesti più sviluppati e più inclini ai valori post-materialistici?

Rudi Bogni: C’è una permeazione di queste sensibilità, ma il problema è esistenziale. Moltissimi Paesi non potrebbero sopravvivere senza il carbone. Si pone quindi un tema di solidarietà internazionale. Per rendere possibile la transizione, i Paesi più ricchi dovranno provvedere il capitale, che dovrà essere anche pubblico, perché si tratterà di grandi investimenti infrastrutturali. La finanza verrà in aiuto. Bisognerà poi condividere la tecnologia. Il che pone dei problemi, se ad esempio si tratta di condividere tecnologia nucleare con Paesi che sono politicamente instabili. Siamo sicuri di essere disposti a farlo? È un altro grande interrogativo, anche qui valori importanti si scontrano. La difficoltà nel programmare una chiara traiettoria di transizione proviene dall’incapacità di sciogliere il groviglio di queste domande.

 

Concentriamoci sull’Italia. Le PMI costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese e lamentano l’assenza di risorse economiche (con l’eccezione di alcuni sussidi pubblici) per sviluppare soluzioni innovative e ad impatto ambientale positivo. Si pone un tema di finanza: l’incapacità di irrorare di capitali l’economia reale perché le innovazioni si diffondano. Che dire a riguardo?

Rudi Bogni: Il problema è legato al circolo finanziario. Per esempio, si è inventato un cemento che cattura la CO₂, la quale rende più solido il cemento, rafforzando la costruzione. Per una piccola azienda edile sarebbe però difficile trovare le risorse necessarie per incominciare a proporre sul mercato questo tipo di tecnologie. Sono tante le soluzioni tecnologiche il cui potenziale rimane ancora inespresso. Per le PMI è difficile spiegarne le opportunità a un impiegato di banca che fa la verifica dei fidi. Questo frena l’innovazione e frena soprattutto la sua diffusione: in ultima istanza è un freno a mano tirato anche per gli obiettivi di sostenibilità, il cui realizzarsi richiede l’aggiornamento dei sistemi di produzione. Mancano centri di eccellenza che sappiano verificare le opportunità connesse alle nuove tecnologie. E mancano in tutti i Paesi. Ci sono venture capitalist in grado di valutare le tecnologie e investire, ma non ci sono strutture di credito che possano chiudere il cerchio e finanziare le singole aziende che intendono avvalersene, integrando le nuove tecnologie nei propri cicli produttivi. Pensando all’Italia: ci vorrebbe un istituto come il CNR, ad esempio, molto affidabile sul fronte scientifico, che mettesse in piedi una struttura interna capace di soppesare le tecnologie verdi anche sotto l’aspetto finanziario. Qualcosa di simile ancora non esiste, eppure servono punti di riferimento credibili e sempre più la finanza ha bisogno di avvalersi di competenze scientifiche e tecnologiche per fare scelte.

 

C’è quindi una relazione tra la diffusa arretratezza tecnologica del sistema produttivo e l’arretratezza del sistema bancario?

Rudi Bogni: Sì, le banche non sono in grado di giocare questo ruolo. I motori che potrebbero essere vitali in questa transizione sono due: i credit fund, ai quali però le PMI non hanno accesso e gli infrastructure fund, che sono pochi e hanno gestioni molto limitate, anche perché gli investitori finali sono istituzioni che hanno necessità di investimenti sicuri e di lungo periodo, come i fondi pensione.

Scritto da
Lorenzo Benassi Roversi

Laureato in giurisprudenza all’Università di Bologna, con tesi sulla genesi del movimento delle casse rurali in Italia e nel bolognese. Fin dagli anni universitari si è occupato di comunicazione culturale. Partendo dal cinema-teatro Bristol di Bologna, di cui ha curato convegnistica e rassegne, è passato alla collaborazione con l’emittente TRC-Bologna, sui cui schermi conduce il programma di approfondimento culturale Bristol Talk, evoluzione delle precedenti attività. Attivo nel mondo sindacale, lavora per “Il Nuovo Diario Messaggero”, testata giornalistica di Imola, dove cura la rubrica “Aziende innovative” e segue l’economia locale. Varie le collaborazioni nell’ambito della comunicazione con aziende del territorio.

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