Scritto da Andrea Baldazzini
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Henri Lefebvre amava ripetere che “cambiare vita” o “cambiare la società” sono frasi completamente vuote se non si prendono in considerazione i modi attraverso cui i loro spazi vengono prodotti e abitati1. Tra i tanti, uno spazio che da sempre riveste un’importanza decisiva per la vita individuale e collettiva, è certamente quello della città, luogo per eccellenza del vivere moderno e contemporaneo. In queste poche pagine l’idea sarà dunque quella di mostrare lo stretto rapporto che lega le trasformazioni della forma-città, con alcune modificazioni avvenute nel corso degli ultimi trent’anni a livello di organizzazione, diffusione e legittimazione del potere politico (soprattutto nei paesi occidentali). Sempre più spesso infatti ci si chiede se sia ancora possibile parlare di città: gli spazi urbani esistenti proseguono la loro espansione che appare inarrestabile, i confini geografici tradizionali vengono sostituiti con nuove delimitazioni di altro carattere (economico, culturale, politico) altamente contingenti e fluide, le categorie di centroperiferia, aree abitativearee commercialiaree produttive, perdono la loro capacità descrittiva rispetto ad un ambiente dove prevalgono dinamiche di ibridazione, differenziazione e sovrapposizione; infine, le stesse persone che popolano tali spazi tendono a divenire veri e propri “nomadi urbani”, espressione che indica lo spostamento dalla categoria di cittadino a quella di generico abitante, e ciò principalmente in ragione dei modi attraverso cui si vivono oggi gli spazi urbani dominati dai flussi, dalla velocità e dalla difficoltà nell’appropriarsi o nel crearsi un proprio luogo di vita stabile.
Dunque, che fine ha fatto la forma-città? Come si può pensare di progettare e amministrare uno spazio così indefinito e dinamico? Quali implicazioni emergono rispetto alle modalità contemporanee dell’abitare l’urbano? Ovviamente non è qui possibile fornire una risposta esaustiva a ciascuna di queste domande, piuttosto l’obbiettivo è prima di tutto quello di sottolineare alcune dinamiche di lungo corso che hanno portato alla costruzione di spazi urbani tanto complessi e densi di conflittualità, divenuti i cuori pulsanti di molti paesi europei, americani e asiatici. Il suggerimento allora quello di rivolgere lo sguardo agli anni ’70, in quanto è proprio in questo decennio che si assiste all’emergere di quel fenomeno che sempre Lefebvre ha denominato “esplosione degli spazi”: «Né il capitale né lo Stato possono più controllare lo spazio contraddittorio da loro prodotto. È un fenomeno di cui facciamo esperienza a ogni livello. […] A livello delle città, ci confrontiamo con l’esplosione non solo della forma di città, ma anche di ogni cornice amministrativa al cui interno si è voluto confinare il fenomeno urbano»2.
L’apertura dirompente di tutti quei confini che fino a quel momento avevano svolto il compito di delimitazione rigorosa e precisa dei vari spazi cittadini, e che avevano permesso una precisa forma di amministrazione del territorio, segna: da un lato l’inizio della cosiddetta globalizzazione e dell’affermazione del paradigma neoliberale, dall’altra una rapida ridefinizione del tessuto urbano che ha portato il capitale ad uscire dai muri della fabbrica, e lo Stato a ridisegnare le proprie strategie di amministrazione e sviluppo. Succede così che al posto della forma subentri l’immagine, all’identità la narrazione, ai soggetti e alle strutture i flussi, portando la città a divenire metropoli.
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: La forma-città
Pagina 2: Le città globali
Pagina 3: Città e governance