Geopolitica pop: un estratto dal libro di Giacomo Natali
- 24 Giugno 2024

Geopolitica pop: un estratto dal libro di Giacomo Natali

Scritto da Giacomo Natali

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In Geopolitica pop. Conflitti, simboli e identità dal K-pop a Masha e Orso, Giacomo Natali analizza fenomeni culturali provenienti da tutti i continenti alla ricerca delle connessioni esistenti tra cultura popolare ed equilibri internazionali. Un lavoro che si prefigge un duplice obiettivo: fornire nuovi strumenti per comprendere meglio ciò che avviene nel mondo e al tempo stesso contribuire a rendere più definiti i lineamenti di un ambito di studi che fuori dall’Italia gode da alcuni anni di una sempre maggiore considerazione, quello della popular geopolitics o geopolitica pop. Tratto da Geopolitica pop di Giacomo Natali – Istituto della Enciclopedia Italiana, 2023.


Perché affiancare temi apparentemente vacui e superficiali alla parola “geopolitica”? Perché cimentarsi con l’analisi geopolitica di Peppa Pig e con quella delle telenovelas turche, con l’idolo delle ragazzine Can Yaman? Davvero c’è bisogno di discutere dell’impatto geopolitico dell’Eurovision sul conflitto ucraino e di quello del servizio militare dei componenti dei gruppi K-pop sugli equilibri atomici tra le due Coree? Negli anni passati ad approfondire questi temi, ho osservato il riproporsi di una sequenza comune nel rispondere a questa domanda, che richiama curiosamente le note fasi di elaborazione del lutto.

Prima c’è la negazione. Ma cosa vuoi che c’entrino queste cose con guerre, conflitti internazionali e il controllo di risorse e territori? La seconda fase è la rabbia. Non ne posso più di queste provocazioni fatte solo per attirare l’attenzione. E questa geopolitica ormai la infilano anche nel Camogli! Chi si spinge a leggere, con stupore raggiunge la terza fase: il patteggiamento. In effetti tutto questo sembra avere senso. D’altra parte, Leni Riefenstahl faceva propaganda nazista con il cinema ormai un secolo fa. E poi non posso mettere in dubbio il fatto che ancora oggi ci siano persone accusate di alto tradimento per aver votato il Paese sbagliato all’Eurovision, gamer arrestati per spionaggio e interessi internazionali in ogni ambito nel quale circolino molti soldi. È il momento della quarta fase: la depressione, che nei casi più gravi diventa paranoia. Come ho fatto a non accorgermi che condividendo quel video stavo alimentando un conflitto etnico? Mia figlia mi perdonerà mai di aver lasciato che servizi stranieri usassero i cartoni animati per farle il lavaggio del cervello? Se tutto è intrecciato e tutto è geopolitica, come posso avere gli strumenti per non esserne vittima? Per non parlare delle masse: marionette nelle mani di burattinai globali… 

Questo libro, che riflette su un diverso caso di studio per ciascun capitolo, di volta in volta riguardante fenomeni culturali recenti, di diversa tipologia e in svariate aree geografiche mondiali, intende essere lo strumento per raggiungere la quinta fase: quella dell’accettazione, dell’elaborazione razionale delle specifiche interconnessioni che ci sono tra cultura popolare e politica internazionale, ovvero della comprensione del rapporto esistente tra fenomeni culturali di massa, costruzione dell’identità e conflitti. L’obiettivo è sia di diffondere tra un pubblico ampio una maggiore capacità di comprensione di ciò che avviene nel mondo, di decodifica delle sue rappresentazioni e di interpretazione dei modi con i quali ci interfacciamo a esse attraverso i media, sia di fornire uno stimolo che contribuisca a strutturare meglio un ambito di studi che finora in Italia è stato lasciato ai margini e affrontato in modo estemporaneo, ma che altrove gode di ben altra considerazione e viene definito popular geopolitics: espressione che, per evitare l’ambiguità che avrebbe avuto in italiano il termine “popolare”, può essere meglio intesa nella nostra lingua come geopolitica pop.

Lo studio di fenomeni pop dal punto di vista sociopolitico e talvolta anche legato a temi internazionali non è di per sé nuovo. Ma il più delle volte viene affrontato in modo estemporaneo. Come se ci fosse la percezione istintiva che queste cose siano collegate fra loro, ma al tempo stesso si provasse quasi imbarazzo per l’invasione di campo nei confronti di discipline considerate tradizionalmente di rango superiore. Così, può capitare che il grande pubblico intercetti questi argomenti nelle occasioni in cui in ambito giornalistico vengono rilanciati sporadici episodi di polemiche internazionali riguardanti determinati fenomeni culturali, come per esempio un film americano di marionette criticato dal regime della Corea del Nord. Ma giusto come una curiosità.

Tra chi si occupa di ricerca o divulgazione, invece, c’è chi affronta alcuni di questi argomenti con esperienza e in modo sistematico, ma in genere all’interno di un quadro molto specialistico. C’è chi studia gli aspetti sociali di un certo genere musicale, chi quelli politici della pallamano, chi esplora eventuali rapporti tra il videogioco Grand Theft Auto e il bullismo. Interventi che spesso sono l’occasione per cercare di inserire una visione laterale nello studio della materia specifica di cui ci si occupa. Ma che, anche in questo caso, sono il più delle volte accolti come stravaganti bizzarrie.

I più abili nell’ottenere un certo grado di legittimazione, in questo senso, sono stati forse gli studiosi degli aspetti politici legati al mondo dello sport: da tempo è infatti piuttosto consolidata la consapevolezza del ruolo dello sport nel posizionare un Paese nella sfera globale. Sia quando venga utilizzato coscientemente come strumento di propaganda, sia quando questo accada indirettamente. Forse ciò è facilitato dal fatto che nel caso dello sport l’elemento di competizione è esplicito: è più intuitivo riconoscere nella vittoria di una partita o di un campionato la metafora della vittoria di un Paese, di una guerra simbolica portata avanti con altri mezzi. Anche dell’uso dello sport come propaganda abbiamo testimonianze fin dai tempi antichi, che proseguono ininterrotte fino all’abitudine contemporanea, da parte di innumerevoli regimi totalitari, di utilizzare l’organizzazione dei campionati del mondo di calcio per ripulirsi l’immagine. Proprio per questa ragione, nello strutturare questo libro non è stato considerato necessario inserire anche un caso relativo allo sport, concentrandosi piuttosto sugli ambiti della cultura pop più propriamente detta, come musica, film, serie tv, videogiochi. Perché quando Giovenale, nella propria popolare massima, affianca alla funzione del panem quella dei circenses, non allude solo alle prove sportive. Tutte le forme artistiche, teatrali e di cultura popolare che ne facevano parte, infatti, come i ludi scaenici, non erano solo intrattenimento, ma uno strumento attraverso il quale si costruiva una cultura e un’identità condivisa.

Stupisce quindi che non sia altrettanto consolidata la consapevolezza di questo ruolo, anche sul piano internazionale, per forme contemporanee di cultura popolare e mediatica che spesso portano in sé anche un elemento narrativo e che quindi, ancora più dello sport, possono raccontarci storie e “contagiare” la nostra mente con idee, valori, rappresentazioni di ciò che siamo noi e di ciò che è altro da noi o che ci è nemico.

I temi affrontati in questo libro non sono solo singoli momenti in cui si incrociano (e spesso si scontrano) le strade di fenomeni culturali, guerra e politica internazionale: questi “incidenti” sono come lampi che per un istante illuminano una situazione, svelando come fatti apparentemente molto distanti tra loro siano in realtà collegati.

Ma c’è di più dietro? C’è una relazione più profonda? Ci sono elementi in comune, nel meccanismo che determina gli equilibri internazionali, tra gli investimenti cinesi nei film di supereroi americani, gli appelli della Croce Rossa per l’istituzione di tribunali penali internazionali virtuali all’interno dei videogiochi di guerra, il modo in cui le trasmissioni di cucina diffondono gli stereotipi nazionali e dunque le nostre rappresentazioni mentali del diverso? Per cercarli, approfondiremo alcuni di questi cortocircuiti: dalle Americhe fino a Cina, India, Corea e Giappone; passando per i nuovi conflitti europei e l’emergere in Africa di fenomeni culturali che ribaltano molte delle assunzioni sul continente, la sua percezione e il suo futuro ruolo globale.

Vista la diversità dei contenuti, delle storie e dei media considerati, l’approccio applicato nell’osservarli è necessariamente multidisciplinare. Da un lato attingendo a semiotica, sociologia, cultural studies e altre discipline che studiano direttamente questi prodotti culturali e i loro rapporti con chi li consuma e la società in generale. Dall’altro richiamandosi alle diverse radici del discorso geopolitico, dalle relazioni internazionali alla geografia umana e agli studi strategici. Allo stesso tempo, questo libro racconta delle storie, scritte in modo tale da poter essere lette con gusto da chiunque. Anche perché, toccando argomenti così distanti, non si può dare per scontata una conoscenza approfondita di ciascuno di essi.

Ed è utile, a questo proposito, aggiungere un’ultima osservazione riguardo alla legittimità di questo mash-up di argomenti e discipline così diversi. Occupandomi sia di comunicazione che di geopolitica, infatti, unire questi due ambiti mi è sempre apparso naturale, fino alla tentazione di spiegare tutto all’interno di una semiotica del conflitto. Nella semiotica, per esempio, poiché si dedica allo studio del rapporto tra i segni e il loro significato, la consapevolezza dell’importanza di includere in queste analisi anche testi pop (per la semiotica ogni cosa è un testo, anche un fumetto o un video su TikTok) è una realtà consolidata da molti decenni. E ben conosciuta anche in Italia, grazie all’opera di Umberto Eco. Ma se la nostra comprensione di ciò che ci circonda è sempre mediata da segni e rappresentazioni culturali, ciò vale ancora di più per la nostra comprensione del mondo e dei rapporti internazionali, che raramente avviene per esperienza diretta, ma è mediata dal consumo culturale di rappresentazioni create da altri.

Allo stesso modo, se consideriamo ovvio il fatto che la cultura popolare è un fattore rilevante nella costruzione dei rapporti sociali, questi comprenderanno inevitabilmente anche quelli attraverso le frontiere. E i conflitti che ne possono scaturire. Per questo, le polemiche scoppiate in numerosi Paesi europei sulla censura alla cultura russa in seguito all’invasione dell’Ucraina nel 2022 dovrebbero semmai stupire per la rarità con cui tali situazioni si verificano. Quando consumiamo un prodotto fisico, infatti, è piuttosto diffusa la consapevolezza di stare sostenendo economicamente e simbolicamente il Paese nel quale questo viene prodotto, ideato o a cui è associato. E ciò avviene sia a livello di scelte individuali, che nell’ambito delle molte sanzioni economiche incrociate attualmente in vigore tra decine di Paesi. Nonostante tale legame dovrebbe essere teoricamente ancora più evidente per quanto riguarda i prodotti culturali, lo percepiamo in realtà meno quando consumiamo questi ultimi. In molti casi, legittimamente: per fortuna la lettura dominante dell’ascesa dei cartoni animati giapponesi negli anni Ottanta non li inquadrò come strumento di espansione culturale di una ex potenza dell’Asse tornata dominante sul piano tecnologico ed economico.

Qualche volta, però, il conflitto sale alla superficie, come negli stessi anni accadde tra Regno Unito e Argentina per via del conflitto delle Falkland/Malvine. Oppure talvolta costringe, al contrario, intere culture a immergersi in profondità, come nel caso della quasi scomparsa della cultura tedesca negli Stati Uniti, che fino all’ingresso di questi ultimi nei conflitti mondiali era stata a lungo tra quelle dominanti nel contesto americano.

Proprio osservando questi casi, si potrebbe sospettare che, in tale fenomeno, giochi un ruolo la diversa percezione di cultura alta e cultura popolare. La prima probabilmente avvertita come più fondamentalmente e istituzionalmente legata all’identità nazionale, così che Dostoevskij e Wagner – quest’ultimo ancora oggi di fatto bandito in Israele – assumono istintivamente un valore identitario differente rispetto a Masha e Orso e all’Ispettore Derrick, nonostante anche quest’ultimo sia stato, invece, bandito in Germania dopo la scoperta del passato nelle Waffen SS dell’attore protagonista. Appare chiaro, infatti, che anche il cinema e la musica svolgono da decenni un ruolo di primo piano come strumento di propaganda. Basta guardare a come gli Stati Uniti d’America abbiano puntato ampiamente e coscientemente su Hollywood per supportare lo sforzo bellico durante la Seconda guerra mondiale (da Casablanca ai cartoni Looney Tunes con Bugs Bunny in divisa militare). Per poi beneficiare, a partire dal dopoguerra e per tutta la Guerra fredda, di un processo di americanizzazione sostenuto proprio dal successo della propria cultura pop e dei valori da essa trasmessi.

Se la differenza non sta nei contenuti, allora, forse ciò che ci distrae dal riconoscere fenomeni analoghi nella cultura popolare contemporanea è forse proprio la distanza temporale: è più facile distinguere la propaganda del passato rispetto a quella che si rivolge direttamente a noi. Senza contare che lo stesso concetto di propaganda è estremamente limitato e mostra soltanto un volto del rapporto assai più complesso che andremo a esplorare, che ha a che fare con l’immaginario, l’identità individuale ma anche dei popoli (e quindi dei conflitti). Uno dei problemi principali, nel rispondere alla domanda se quello di cui parleremo sia davvero geopolitica oppure no, infatti, è l’ambiguità che molti di questi termini hanno acquisito nel tempo. A partire proprio da “geopolitica”, che in particolare sembra vivere due vite parallele: nella sua accezione giornalistica e in quella accademico-militare.

Limitandosi a una veloce carrellata sulla sua evoluzione, si può dire che la geopolitica classica nasca come studio del conflitto tra Stati per il controllo di spazi e territori. Si concentra, quindi, sul potere e sull’abilità di raggiungere i propri obiettivi affrontando l’opposizione di chi ha interessi differenti o contrapposti. In questo senso è originariamente una disciplina di impronta deterministica, che partendo dagli aspetti della geografia fisica mira ad analizzare (e in certi casi a prevedere o giustificare) il comportamento degli Stati nell’imporre il proprio volere, al fine di soddisfare le proprie esigenze di risorse e posizionamento strategico. Messa nel cassetto dopo la Seconda guerra mondiale, perché collegata agli usi che la scuola di Karl Haushofer ne aveva fatto per giustificare le necessità espansionistiche del Reich, torna timidamente a riaffacciarsi solo negli anni Settanta. Ma è verso la fine della Guerra fredda che la geopolitica finisce improvvisamente sotto i riflettori, fino a diventare in un certo senso “alla moda”. Nel frattempo, però, si era distinta e differenziata in molte diverse correnti e interpretazioni. Proprio questa molteplicità di approcci geopolitici fa sì che, da un lato, oggi su giornali, riviste, televisioni, web e social ci sia più geopolitica di quanta ce ne sia mai stata.  Dall’altro, il fatto che geopolitica sia ormai un termine-cappello utilizzato in modo indistinto per tutto ciò che abbia a che fare con vicende e tensioni internazionali e usato in modo apparentemente intercambiabile con termini come “relazioni internazionali”, “diplomazia”, “conflitto”, “soft power”.

A tal proposito, il concetto di “soft power” nasce anch’esso nel periodo immediatamente successivo alla fine della Guerra fredda e proprio negli Stati Uniti che ne sono usciti vincitori. Il suo obiettivo, non a caso, è quello di spiegare come sia possibile raggiungere i propri obiettivi strategici non attraverso la coercizione militare o economica, ma con la persuasione, creando consenso e seducendo attraverso i propri valori, la propria cultura e la propria identità. Negli anni successivi, anche questo termine ha acquisito connotazioni diverse, è stato applicato per spiegare i fenomeni più disparati e il suo valore viene oggi messo sempre più in discussione. Ma senz’altro l’idea di soft power ha contribuito ad andare oltre la concezione di forza come elemento soltanto fisico, geografico, produttivo e militare, sdoganando il fatto che anche fattori intangibili come quelli culturali potessero avere conseguenze geopolitiche reali.

Quando ogni anno diversi istituti mondiali pubblicano ciascuno il proprio Indice Globale del Soft Power, è come se il concetto di egemonia culturale di Gramsci si materializzasse in una comoda classifica (format ideale per il consumo mediatico) dei Paesi che contano di più sul pianeta. Oppure se questi diventassero brand commerciali. L’appetibilità di questi indici tra giornali, tv e social europei risulta ancora più elevata, forse, per il fatto che in questo ambito sembrano valere ancora alcuni vecchi e “rassicuranti” rapporti di forza di stampo quasi coloniale. Germania, Francia e Regno Unito si alternano regolarmente con gli Stati Uniti in cima a queste classifiche. Naturalmente tra le prime posizioni compaiono anche potenze asiatiche come Cina e Giappone. Ma nel mondo del soft power c’è ancora spazio per piccole potenze europee, come Svezia e Olanda, che riescono a contare ben oltre il proprio peso effettivo. Cosa che, in proporzione, vale anche per l’Italia.

In parte, ciò ha influenzato anche la scelta dei casi di studio da approfondire in questo libro. Perché è indubbio che buona parte dell’uso conscio della cultura popolare a questi fini si gioca effettivamente in Europa e in Estremo Oriente. Ancora di più in questo momento di particolare tensione geopolitica. Ma ci sono esempi molto interessanti anche nel resto del mondo e per questo lo sguardo è stato mantenuto il più ampio possibile.

Inoltre, se questo non avviene ovunque nel mondo con la stessa intensità è anche perché occorre in genere una forte motivazione affinché questi fenomeni si manifestino in modo significativo. Senza considerare che, spesso, per metterla in pratica occorrono investimenti economici rilevanti. Ecco che, per esempio, per alcuni Paesi minori ma dalle elevate risorse, come la Svizzera, spendere ad esempio per ospitare conferenze internazionali, legare la propria identità a quella del tennista Roger Federer e divenire lo sfondo da sogno delle produzioni cinematografiche indiane e cinesi, può essere un investimento fruttuoso per mantenere il proprio posizionamento nella gerarchia globale. Altre volte, una motivazione ancora più valida è fornita da esigenze di natura conflittuale: come, per esempio, accade in caso di conflitti di lunga durata, come quelli tra Russia e Ucraina, tra Azerbaigian e Armenia, tra India e Pakistan, dove nel corso dei decenni viene a stratificarsi una narrazione funzionale a sostenere le proprie ragioni sia a livello interno che sul piano internazionale. In alcune situazioni le due cose combaciano e si rafforzano reciprocamente: come nel caso della Corea del Sud, che da alcuni anni, infatti, è protagonista di una rapida e costante ascesa in queste graduatorie.

Una volta assodata la validità del legame tra cultura popolare e geopolitica, l’ultima sfida di questo libro sarà quella di spingersi oltre: fino a suggerire che la geopolitica pop potrebbe rivelarsi utile nel correggere alcuni difetti congeniti della geopolitica. La quale, anche dopo aver superato la propria rigida fase originale, sembra spesso ancora presupporre che gli umani si comportino come giocatori razionali, cadendo così in un’illusione simile a quella di tanti economisti, che poi si sorprendono quando individui, popoli e nazioni finiscono per andare contro i propri interessi.

Oppure quando eventi reali smentiscono previsioni basate su considerazioni logiche che sembravano inattaccabili. Così che, nello stesso momento in cui la geopolitica viene invocata sempre più spesso per spiegare le grandi trasformazioni globali, sembrano apparire sempre più chiari certi suoi limiti nel riuscirci. La stragrande maggioranza degli esperti di geopolitica, ad esempio, si diceva certa che Putin non avrebbe invaso l’Ucraina fino al giorno prima che ciò avvenisse. Salvo poi assicurarci, una volta scoppiata la guerra, che Kiev sarebbe caduta nel giro di pochi giorni. Ma anche altri recenti eventi geopolitici non armati, come per esempio la Brexit, hanno mostrato l’incapacità di molti analisti geopolitici (almeno prima che avvenisse, mentre successivamente le spiegazioni non sono ovviamente mancate) di accettare il fatto che le persone non agiscono sempre in modo meccanico per rispondere a costrizioni geografiche o girarle a proprio favore.

Se però prendiamo in considerazione tutto il minuto lavoro di narrazione, identità e costruzione culturale che si stratifica ogni giorno nella psiche degli individui e delle società, anche attraverso il consumo performativo di prodotti mediatici, allora forse anche alcuni di questi imprevisti fenomeni, capaci di sconvolgere le carte geografiche, potrebbero iniziare ad avere più senso. Con la speranza che, una volta raggiunto questo stato di accettazione, non saremo più colti dallo stesso stupore la volta successiva. E magari sapremo compiere, nel nostro piccolo, scelte migliori.

Scritto da
Giacomo Natali

Scrittore e analista di comunicazione e geopolitica, si occupa in particolare degli aspetti culturali e simbolici dei conflitti internazionali. Collabora con l’Istituto Treccani e con diversi atenei italiani e scrive per varie testate, tra le quali: «Il Tascabile», «Atlante Treccani», «Internazionale», «L’Essenziale», «Limes», «Rolling Stone». Ha pubblicato saggi, articoli e narrativa e ha partecipato alla realizzazione di documentari, fumetti, performance e programmi radiofonici, in Italia e all’estero. È autore di: “Geopolitica pop. Conflitti, simboli e identità dal K-pop a Masha e Orso” (Treccani Libri 2023) e “Capire l’Eurovision. Tra musica e geopolitica” (Vololibero 2022).

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