La strada per Basilea. Settore bancario e regolamentazione
- 28 Agosto 2017

La strada per Basilea. Settore bancario e regolamentazione

Scritto da Gianluca Piovani

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Gli accordi di Basilea sono una componente fondamentale della regolamentazione bancaria a livello internazionale. Tali accordi non riguardano solamente aspetti meramente tecnici del mondo della finanza e delle banche ma introducono concetti e principi relativamente nuovi suscitando, sia in passato che tuttora, un ampio e profondo dibattito. Il presente articolo si propone di spiegarne il significato e la storia, senza infine tralasciare in conclusione un’analisi dei possibili scenari futuri.

Gli accordi di Basilea costituiscono solamente uno dei tanti campi riguardanti la regolamentazione bancaria. Tale regolamentazione interessa ad esempio i rapporti tra la banca ed il cliente, stabilendo principi di trasparenza e correttezza (regolamentazione MIFID), la forma societaria e le attività di vigilanza sulle banche (Testo Unico Bancario), oppure ancora la gestione del contante o perfino le misure da prendere per garantire la continuità operativa nel caso di disastri naturali. In altre parole il mondo bancario è letteralmente “inondato” da una produzione legislativa estremamente abbondante e varia di cui gli accordi di Basilea sono solamente una parte.

D’altra parte gli accordi di Basilea ne sono una parte rilevante e per certi versi meno tecnica e più interessante di altre poiché riguardano le misure da adottare in termini di “prudenza” e prevenzione delle crisi bancarie, con ricadute macroeconomiche e politiche notevoli. In sostanza l’intera regolamentazione di Basilea si basa sulla semplice idea che per evitare collassi del sistema finanziario le banche devono tenere da parte soldi “propri” per far fronte alle perdite in caso di crisi.

 

Il funzionamento della regolamentazione di Basilea

Un esempio può essere utile per chiarire meglio la questione: una banca lavora in modo tale da prestare denaro altrui. Considero che la Banca 1 abbia un capitale di 1 euro e ne prenda a prestito 9. Ipotizziamo inoltre che prendere a prestito costi alla banca l’1% e prestare renda invece il 3%. Il profitto della banca deriva dalla forbice tra i due tassi e sarà pari ai ricavi (10 euro totali prestati moltiplicati per il 3% cioè 30 centesimi) meno i costi (9 euro presi in prestito moltiplicati per l’1% cioè 9 centesimi); il profitto totale ammonta a 21 centesimi che rapportato al capitale iniziale di 1 euro è pari al 21%. Niente male ma consideriamo ora il caso della Banca 2, la quale prende a prestito e successivamente ripresta 99 euro e non solo 9: il ricavo sarà pari a ben 3 euro (100 moltiplicato per il 3%) mentre i costi saranno pari a 99 centesimi (99 moltiplicato per l’1%). Il profitto totale sarà di 2 euro e un centesimo, che rapportato al capitale iniziale è il 201%. In sostanza la Banca 2 fa molta più “leva” prendendo a prestito e questo funziona come un moltiplicatore dei suoi risultati.

Consideriamo ora il caso in cui avvenga una crisi economica che causi il fallimento del 10% dei clienti nel portafoglio prestiti di tutte le banche. Ciò vuol dire che questi clienti non ripagheranno il prestito e questa cifra si trasformerà in perdite della banca. La Banca 1 perderebbe 1 euro (10% di tasso di fallimento clienti moltiplicato per il totale dei prestiti, 10 euro): il capitale della banca sarebbe completamente eroso ma la banca sarebbe ancora in grado di onorare i propri debiti senza causare sconvolgimenti all’intero sistema economico. La Banca 2 invece perde ben 10 euro (10% di tasso di fallimento clienti moltiplicato per il totale di prestiti, 100 euro): il capitale della banca sarebbe completamente eroso e in più si avrebbe in eredità un bel buco di 9 euro, cioè pari a nove volte capitale iniziale. Questi 9 euro sono perdite che si riverseranno sul bilancio di qualcun altro magari causandone a sua volta il fallimento con un effetto a catena di cosiddetto contagio. Questo esempio mostra come le banche siano fortemente incentivate in periodi di boom economico ad aumentare la leva mentre al contrario ciò ha effetti disastrosi in periodi di crisi e recessione. L’esempio dimostra inoltre come il capitale di una banca funga da cuscinetto ammortizzatore delle perdite per evitare fenomeni di disastrosi buchi e contagio finanziari.

La regolamentazione di Basilea impone alle banche una quantità di capitale minimo da detenere in funzione della loro “grandezza”. Un requisito di capitale dell’8% applicato all’esempio di cui sopra implicherebbe che la Banca 1 dovrebbe avere almeno 80 centesimi di capitale (8% di un volume di prestiti di 10 euro) mentre la Banca 2 dovrebbe avere almeno 8 euro (8% di un volume di prestiti di 100 euro); considerato che nell’esempio entrambe le banche hanno un capitale di 1 euro, la prima banca supera i requisiti e la seconda no. Quindi per evitare fallimenti di banche è sufficiente alzare sempre di più questi requisiti? In teoria sì. Da un altro punto di vista invece è necessario considerare che l’attività di prestito di una banca è un necessario supporto per l’attività economica di una nazione. Aumentare i requisiti di capitale rende sì le banche più prudenti ma le obbliga a ridimensionare le loro esposizioni eccessive cioè il credito erogato. Aumentare eccessivamente i requisiti di capitale potrebbe avere serie conseguenze in termini di crescita economica. Per intendere questo concetto può essere utile un paragone con il funzionamento di una macchina: chiaramente per evitare incidenti non si possono imporre limiti di velocità di 10 km/h ovunque, ma d’altra parte non si può nemmeno lasciare autoveicoli circolare a 100 km/h in città. Ricercare un giusto limite di velocità è il compito della regolamentazione di Basilea.

 

La storia della regolamentazione di Basilea

La storia della regolamentazione di Basilea inizia nel 1988. In quell’anno i principali banchieri centrali del mondo si ritrovarono a Basilea, presso la sede della Bank for International Settlement, e si accordarono su un documento denominato regolamentazione di Basilea il quale appunto definisce dei requisiti minimi di capitale in funzione della grandezza di una banca. Questo documento non è una legge ed in se stesso non ha forza vincolante, ma negli anni seguenti è stato adottato e trasformato in regolamenti dai paesi prima del G10 (entro il 1992) e poi di gran parte del resto del mondo e ad oggi più di 100 paesi dichiarano di adottare le regole di Basilea. Ciò non vuole dire che il documento di Basilea sia interpretato ed applicato “esattamente” nello stesso modo da tutti, ma mutatis mutandis la regolamentazione di Basilea è diventata un vero e proprio standard comune a livello globale.

La regolamentazione del 1988 è denominata Accordo sul Capitale Minimo delle Banche o Basilea 1. Considerato il successo dell’idea, nel 2004 si è pensato di produrre un nuovo documento ed è stata varata Basilea 2 la quale è entrata in vigore nel 2008. Il periodo tra 2004 e 2008 è detto di “phase in” ed è un periodo intermedio di transizione in cui i nuovi requisiti entrano gradualmente in vigore. La novità di Basilea 2 fu di permettere cosiddetti modelli interni di valutazione del rischio. L’esempio riportato sopra indicante un requisito dell’8% non è in realtà esattamente corretto: le attività di una banca possono essere più o meno rischiose: prestare alla Germania non è pericoloso come prestare a un debitore a rischio. Attività più o meno rischiose implicano diversi requisiti in termini di capitale ed in sostanza Basilea 1 riportava varie tabelle in cui era evidenziato che prestare alla Germania richiedeva un requisito – poniamo – dell’1% o addirittura nullo, mentre prestare a un debitore poco affidabile il 20%. Basilea 2 permette alla banca stessa, dietro autorizzazione del regolatore nazionale, di stimare il coefficiente di requisiti da applicare utilizzando così detti modelli interni di valutazione del rischio. I modelli interni sono modelli matematici estremamente complessi che solo una banca di dimensioni grandi è in grado di sviluppare.

Una banca che usi un modello interno di valutazione del rischio è palesemente in conflitto di interessi e molto probabilmente adotterà i modelli che più le permettono di ridurre i requisiti: è come chiedere a un oste di valutare il tasso alcoolico dei propri clienti, proibendogli di vendere loro da bere se lo ritiene eccessivo. D’altra parte il controllo e la validazione del regolatore sui modelli interni delle banche avrebbe dovuto assicurare standard di qualità elevata e fu inoltre ritenuto desiderabile avere banche che, essendo loro stesse in grado di valutare i propri rischi con modelli interni, fossero di conseguenza maggiormente responsabilizzate. Alcuni commentatori sostengono che dei modelli interni si è abusato da parte dalle banche di dimensioni grandi ed essi sono diventati un elemento di discriminazione a loro favore rispetto alle piccole. Mentre una banca piccola generalmente svolge attività bancarie tradizionali ed è molto semplice da valutare in termini di requisiti, una banca grande utilizza molta più finanza e contratti di ingegneria finanziaria innovativi su cui la regolamentazione di Basilea è molto meno stringente. In altre parole la regolamentazione di Basilea potrebbe risultare forte con i deboli e debole con i forti, le così dette banche too big to fail di cui la crisi ha mostrato la debolezza.

Basilea III, varata nel 2010, vuole in parte di rimediare a questa ed altre problematiche. Basilea III comprende alcune novità tecniche tra cui l’introduzione di requisiti di liquidità ed il miglioramento della qualità del capitale utilizzabile; la vera novità che però ci interessa in questa sede è il requisito di “leverage ratio”. A seguito del florilegio di modelli matematici complicatissimi che in sostanza servivano ad eludere i requisiti di capitale, il regolatore ha pensato di introdurre un requisito rozzo ma efficace: il capitale di una banca non può mai essere inferiore al 3% dei suoi attivi. Questo requisito non comprende in nessun modo la pesatura degli attivi per il rischio ed è aggiuntivo rispetto al requisito con pesatura dei rischi. Le banche dovranno cioè rispettare sia il requisito con pesatura del rischio (vecchio requisito) sia quello senza (nuovo requisito di “leverage ratio”). In linea di principio è un passo indietro molto forte poiché è una critica implicita al concetto alla base della regolamentazione stessa di Basilea, in base a cui il rischio è effettivamente misurabile.

Il “leverage ratio” nella sua forma attuale, ovvero al 3%, è un requisito molto blando ma ha già causato grattacapi ad alcune grandi banche come ad esempio Deutsche Bank, notoriamente banca finanziarizzata in misura rilevante e di dimensioni considerevoli. Tale banca non avrebbe passato l’esame della BCE senza che questa non le concedesse un’eccezione speciale consistente nel considerare come già avvenuta un’operazione che sarebbe invece dovuta avvenire in futuro[1].

 

Le prospettive della regolamentazione di Basilea

Attualmente la regolamentazione di Basilea III è ancora in “phase in” e dovrebbe entrare pienamente in vigore solamente nel 2019. Ciò nonostante è già in fase avanzata il dibattito per il varo di Basilea 4, che dovrebbe comprendere un innalzamento del “leverage ratio” e un limite allo sconto in termini di requisiti di capitale derivanti dall’applicazione di modelli interni. Secondo indiscrezioni i modelli di valutazione interna avranno come requisito di capitale minimo il 75% del requisito calcolato utilizzando le regole base (cioè senza modelli interni ed in modo simile alla vecchia Basilea I). Il “phase in” di questa nuova regola dovrebbe avvenire in 10 anni e partendo non dal 75% ma dal 50%: ovvero il primo anno si richiederà di non scendere sotto al 50% del requisito del modello base, il secondo non sotto il 55% e così via. Ciò suggerisce come per varie istituzioni questo limite costituisca un serio sforzo da ripartire in ben 10 anni, in altre parole i modelli di valutazione interna comportavano sconti fino al 50% dei requisiti il che è veramente notevole. Il dibattito riguardo Basilea 4, riguardante il probabile rafforzamento del “leverage ratio” e le nuove regole sui modelli interni, mostra come la normativa sia in evoluzione per riuscire finalmente ad essere efficace anche con riferimento alle istituzioni così dette “too big to fail”. La sua adozione è tuttavia ostacolata dall’attuale governo Trump il quale si oppone all’introduzione di nuove regolamentazioni nell’economia in genere e nel mondo bancario in particolare che, come già rilevato in apertura dell’articolo, è già soggetto ad una legislazione enorme e per certi versi eccessiva.

Il dibattito attuale riguardo la regolamentazione di Basilea in genere è molto vivace ed ha fatto emergere due posizioni contrapposte. La prima è contraria a Basilea in quanto un’ulteriore regolamentazione costituirebbe un vincolo all’esercizio del credito e quindi all’attività economica in generale. In alcuni casi queste posizioni vengono espresse direttamente dalle banche o da soggetti a queste collegate; in altri casi invece le fonti sono più imparziali come ad esempio uno studio dell’OCSE del 2011 in cui si affermava che la regolamentazione di Basilea III sarebbe costata tra lo 0.05% e lo 0.15% annuo di PIL. L’altra posizione che solitamente emerge nei dibattiti è che Basilea è inutile o anzi dannosa ed il suo unico effetto è stato quello di incoraggiare le grandi banche a sviluppare modelli matematici complessi e costruire nuovi prodotti finanziari opachi per eludere i requisiti.

Probabilmente la verità sta nel mezzo. Basilea costa certamente punti di PIL ma può essere un buon investimento per prevenire o rendere meno dure future crisi. Sicuramente le grandi banche compiono grandi sforzi e ottengono alcuni risultati nell’eludere la normativa ma si possono fare sforzi per ridurre questo fenomeno. Basilea è un esperimento relativamente recente e la normativa è divenuta rilevante solamente a partire da Basilea II nel 2008. Dovrebbe essere chiaro che l’introduzione di regole quantitative per misurare il rischio non è una formula magica che risolverà tutti i problemi del mondo ma d’altra parte può comunque rivelarsi un utile strumento nel fissare criteri base e requisiti standard da richiedere al sistema bancario.


[1] Tale operazione era la vendita di una società cinese. La vendita di una controllata è una tipica operazione per restringere il perimetro delle proprie attività (magari guadagnando anche capitale) e rientrare nei limiti della regolamentazione. D’altra parte la vendita non era ancora avvenuta ed in base alle regole normalmente adottate l’operazione non sarebbe dovuta entrare nei conteggi.
Si veda anche: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-10-10/deutsche-bank-trattamento-favore-vigilanza-bce-stress-test

Scritto da
Gianluca Piovani

Nato nel 1991 a Bologna, ha conseguito la laurea magistrale in Finanza Intermediari e Mercati presso l’Università di Bologna. Durante il periodo universitario ha fatto parte del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha collaborato con la rivista elettronica «Il Chiasmo». La sua esperienza lavorativa inizia con ricerca economica in Prometeia e prosegue in Banca di Bologna con la gestione patrimoniale. Attualmente lavora per la multinazionale Crif e si occupa di servizi informatici per banche.

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