Recensione a: Alec Ross, I furiosi anni Venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2021, pp. 304, 19 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Nasi
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In una fase di grandi cambiamenti come quella inaugurata dalla pandemia di Covid-19, emerge l’esigenza di promuovere un tipo di pensiero multidisciplinare e allo stesso tempo olistico, capace di maneggiare singolarmente un’ampia gamma di elementi (economici, sociali, tecnologici, culturali) per poi riconnetterli in una teoria efficace, che fornisca le coordinate fondamentali per un ripensamento del nostro vivere comune. Per compiere quest’operazione, apparentemente semplice ma in realtà tutt’altro che elementare, servono personalità che hanno acquisito autorevolezza su singoli temi senza mai perdere la dimensione globale e interconnessa dei fenomeni sociali. È questo il motivo fondamentale per cui I furiosi anni Venti di Alec Ross è un lavoro così prezioso. Sono infatti pochi gli autori che possono vantare la sua pluralità di esperienze. Principalmente conosciuto per aver lavorato a fianco di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato americano come Senior Advisor for Innovation, Ross ha acquisito competenza in molti ambiti, dal terzo settore con la fondazione della ONG One Economy, al mondo del venture capital, servendo come board partner in Amplo, fino all’impegno accademico, che l’ha portato a insegnare in numerose istituzioni internazionali tra cui, da settembre 2020, la Bologna Business School. A questo, bisogna aggiungere un elemento non irrilevante, soprattutto nell’ottica del libro, ovvero l’origine familiare di Ross, discendente di operai immigrati dall’Abruzzo e cresciuto nel West Virginia, uno degli Stati più poveri dell’Unione. In questo modo, politica, economia, lavoro e innovazione si incontrano, fornendo una prospettiva unica e privilegiata sui problemi che emergono ed emergeranno dai furiosi anni Venti.
La furia attribuita a questo decennio consiste nella rottura di quello che Ross chiama il “contratto sociale”. Quest’ultimo non è tanto un riferimento a Rousseau o ad altri pensatori della tradizione contrattualista, quanto la semplice constatazione che ogni società si regge su un equilibrio implicito tra le sue parti. L’originale inglese del libro ci suggerisce la modalità di analisi dell’autore: The Raging 2020s: Companies, Countries, People – and the Fight for Our Future. Sono questi (aziende, Stati e persone) i tre attori che danno vita al contratto sociale, vero fondamento di ogni società moderna. Il contratto sociale è quindi l’accordo che stabilisce l’equilibrio tra cittadini, governo e aziende, sancendo i loro diritti e i doveri che hanno l’uno nei confronti dell’altro. Nel mondo occidentale un equilibrio era stato raggiunto dopo la Rivoluzione industriale, quando «le imprese potevano influenzare la nostra vita quotidiana in senso sia positivo sia negativo, mentre lo Stato aveva il potere di tenerle in riga, e la popolazione aveva il potere di scegliere i propri capi» (p. 25).
Negli ultimi decenni, però, in seguito all’affermarsi della rivoluzione informatica e del capitalismo nella sua forma neoliberale e azionaria, questo equilibrio è andato in frantumi. La bilancia tra Stati, aziende e persone si è spostata enormemente a favore delle imprese, soprattutto le multinazionali più ricche, fino ad esercitare un ruolo sempre più preminente in «un’ampia gamma di questioni, dalla privacy alla sostenibilità, dall’equità ai diritti dei lavoratori» (p. 25). Con un’espressione particolarmente calzante, Ross paragona la situazione attuale alla cosiddetta “Pausa di Engels”, ovvero quella prima fase dell’industrializzazione europea che portò ad enormi disparità economiche e povertà diffusa senza una reale ridistribuzione del benessere e della ricchezza prodotta. Secondo l’autore, attualmente il mondo si trova nella Pausa di Engels dell’epoca informatica. Alcuni dati citati contribuiscono ad avvallare quest’idea. Rispetto al 1990, negli Stati Uniti l’1% più ricco della popolazione ha aumentato la propria ricchezza di 21.000 miliardi, mentre il 50% più povero si è impoverito di 900 miliardi. Le ventisei persone più ricche del pianeta detengono oggi una ricchezza maggiore di quella della metà della popolazione globale. Le conseguenze di questa rottura sono sotto gli occhi di tutti da decenni: dal crescere della rabbia sociale al successo elettorale di formazioni politiche antisistema, fino a un vero e proprio indietreggiamento dei valori e degli ideali democratici nei paesi occidentali[1].
L’autore approfondisce la questione attraverso una disamina delle tre componenti fondamentali del contratto sociale: aziende, Stato e persone. Per quanto riguarda le prime, secondo Ross il problema fondamentale sta nell’aver adottato a livello globale un modello di shareholder capitalism, il quale è sostanzialmente teso a massimizzare il profitto a breve termine di coloro che detengono le azioni della compagnia, rispetto allo stakeholder capitalism, che tiene invece in considerazione la dimensione relazionale e sociale dell’azienda, inclusa la sua sostenibilità ambientale e il suo impatto sul territorio. Il primo ha prodotto disuguaglianze e ingiustizie sempre più evidenti e, concentrandosi esclusivamente sul breve termine, rischia di essere anche antieconomico in una prospettiva di medio e lungo periodo. Al contrario, esperienze di stakeholder capitalism, come il successo dell’azienda di abbagliamento Patagonia, o alcune recenti politiche adottate da grandi aziende come Walmart e Goldman Sachs, suggeriscono che un capitalismo diverso è possibile e anche più economicamente vantaggioso.
Il tema dello strapotere delle grandi aziende e dello shareholder capitalism si lega a doppio filo a un’altra falla nel contratto sociale, ovvero il fisco. L’autore denuncia l’elusione fiscale delle grandi aziende e la corsa al ribasso (race to the bottom) a livello globale per attrarre capitali come un problema che non affligge solo i paesi più sviluppati, ma soprattutto la parte più povera del mondo. Circa il 22% della ricchezza finanziaria dell’America Latina è finita in paradisi fiscali, e il continente africano ha perso di più a causa della fuga di capitali di quanto abbia ottenuto attraverso le donazioni dal 1975 al 2015. Un sistema iniquo di tassazione, assieme a scappatoie legali e fiscali come quella del transfer pricing, porta multinazionali come Google o Apple a pagare una percentuale irrisoria rispetto ai propri profitti, come dimostra il fatto che, nel 2014, l’azienda fondata da Steve Jobs aveva versato in tasse solamente lo 0,005% dei propri profitti a livello globale. Da questo punto di vista, le misure che sono da adottare includono una tassazione unitaria (che guardi alle compagnie nella loro interezza) con ripartizione proporzionale, una minimum global tax e lo scardinamento del sistema del segreto bancario.
La questione dello Stato è invece affrontata dal punto di vista della sua crisi. Ross denuncia quello che in letteratura è chiamato l’hollowing out of the State[2], ovvero lo svuotamento dello Stato, la progressiva riduzione delle sue competenze e il venir meno delle capacità di gestione delle crisi a favore degli attori privati. Ancora una volta, l’occhio è rivolto innanzitutto agli Stati Uniti, di cui viene criticato il sistema politico ormai ridotto a una vetocracy, riprendendo l’espressione di Francis Fukuyama[3]. Emerge inoltre il problema di un lobbismo troppo invasivo e, più in generale, il ruolo ambiguo esercitato da finanziamenti privati dei big donor. Le possibilità economiche di candidati e formazioni politiche diventano sempre più il vero discrimine tra la vittoria e la sconfitta elettorale, al punto che, come suggerisce il dato citato da Ross, il 90% delle elezioni negli Stati Uniti sono vinte da chi ha speso più soldi per la propria campagna.
La prospettiva che l’autore adotta per parlare dei cittadini è invece quella dei sindacati, tema nient’affatto scontato in un lavoro dal respiro ampio e globale come questo, ma molto coerente con le sue origini. Di fronte alla crisi delle grandi associazioni di lavoratori in quasi tutto il mondo occidentale, Ross vede favorevolmente nuove forme di sindacalizzazione dal basso e sostenute dagli strumenti digitali. Quest’ultime, consce della fluidità del mercato nell’epoca contemporanea e della facilità con cui l’innovazione può creare, trasformare o cancellare intere professioni, dovrebbero concentrarsi più sul proteggere i lavoratori che sul difendere il lavoro. Secondo l’autore, per riguadagnare legittimità e favorire una crescita sostenibile i sindacati dovrebbero andare oltre le semplici rivendicazioni salariali, sostenendo un “sistema di sicurezza condivisa” che includa partecipazione alle decisioni aziendali e azionariato diffuso.
Seppur letta soprattutto attraverso le dinamiche statunitensi, la rottura del contratto sociale è avvenuta in numerosi paesi della comunità internazionale. Il mondo si trova ora davanti a una scelta tra due modelli alternativi per risolvere le crisi che ha di fronte. Da una parte il “modello autoritario”, rappresentato dalla Cina. Il regime di Pechino garantisce stabilità e sicurezza in cambio di un controllo quasi totale non solo sull’economia, ma anche sulla possibilità di espressione e le libertà individuali. Dall’altra parte, il “modello aperto”, oggi meglio rappresentato dai paesi del Nord Europa, mette insieme l’apertura delle società democratiche con la stabilità di un solido sistema di welfare, seppur non manchino sfide e criticità. La prima strada appare come quella più semplice per molti Stati. Secondo Ross, bisogna però privilegiare la seconda, perché solo così si potrà ottenere «un efficace bilanciamento di potere» dove «cittadini, governo e imprese sono tutti in condizione di servire e controllare gli altri» (p. 234). Non si tratta infatti di monopolizzare il potere, come fa lo shareholder capitalism ponendolo nelle mani degli azionisti o come fa Pechino concentrandolo in quelle del Partito, ma diffondere il potere stesso tra le varie parti del corpo sociale, in modo che si vada a creare un equilibrio mutevole ma allo stesso tempo stabile, dove il conflitto non è distruttivo ma motore dello sviluppo culturale, materiale e sociale. Questa sfida passa da uno dei temi che più di tutti lega cittadini, imprese e Stati, ovvero la sfida geopolitica e geoeconomica per il primato nel settore dell’high-tech. È qui infatti che si decide il futuro dell’economia globale e della sicurezza internazionale, dai conflitti cyber all’uso di LAWS (Lethal Autonomous Weapon Systems) nei teatri di guerra, fino a sistemi di sorveglianza sempre più pervasivi e all’adozione delle prossime disruptive technology come il 5G o il quantum computing. A cascata, questi fattori si riversano sulla «galassia di problemi globali che ci troveremo ad affrontare nei prossimi decenni, dal cambiamento climatico ai diritti umani, alla disuguaglianza» (p. 218).
Pur non avendo l’ambizione di essere un testo accademico, il libro di Ross presenta un buon approfondimento dal punto di vista della ricerca e dei dati a sostegno delle tesi riportate. Proprio la natura non strettamente specialistica del lavoro permette di tenere insieme quei due elementi citati all’inizio della recensione, ovvero l’approfondimento sui singoli temi e la visione olistica che li lega. Come lo stesso Ross afferma: «Sono già usciti tanti libri dedicati a ciascuna delle singole tendenze descritte in questo libro, ma è ancora arduo capire come sono collegate l’una all’altra» (p. 29) Questa caratteristica è facilitata dalla fitta rete di conoscenze dell’autore, che è arrivato a intervistare più di 100 persone per il proprio lavoro. Sono personalità che spaziano dagli ambiti più vari, dal leader sindacale dell’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations AFL-CIO Richard Trumka al lobbista Bruce Mehlman, dall’ex Ministro degli Esteri ombra per il Partito laburista britannico David Miliband a Chris Lynch, CEO e cofondatore di Rebellion Defense, una compagnia posizionata all’intersezione tra high-tech e difesa nazionale. I singoli temi sono quindi sempre analizzati dall’interno, da veri e propri insider del settore, e poi ricomposti dallo stesso Ross attraverso le categorie del contratto sociale e dei modelli autoritario e aperto.
Interessante e degno di nota, almeno nella nostra prospettiva nazionale, è il ruolo che l’autore dedica all’Italia. Data la permanenza di Ross a Bologna, la Penisola emerge più volte all’interno del testo, sia come luogo da cui attingere buone pratiche (per quanto riguarda i primi tentativi di tassazione dei giganti dell’high-tech) sia come esempio negativo, come nel caso di una sindacalizzazione eccessivamente conflittuale, contrapposta al modello tedesco di cogestione, o degli eccessivi lacciuoli burocratici che limitano le possibilità di impresa. Si tratta di un fatto rilevante, dato che pubblicazioni dal respiro così ampio come quella di Ross sono spesso concentrate su grandi potenze come Stati Uniti e Cina, tendendo a escludere Stati di medie dimensioni. L’attenzione per il nostro Paese emerge con maggior forza nell’introduzione all’edizione italiana, in cui l’autore invita la Penisola a cercare un proprio modello di crescita e governance, che rifletta i suoi valori, le sue peculiarità e le sue potenzialità senza scivolare nell’autoritarismo cinese o nel predominio delle multinazionali in stile americano.
Il libro di Alec Ross non è solo un’attenta disanima delle principali tendenze, contraddizioni e dinamiche di potere che rendono “furiosi” gli anni Venti del Ventunesimo secolo, ma anche un utile “manuale” per tutte le classi dirigenti, siano esse economiche, tecnologiche o politiche, per orientare lo sviluppo delle proprie comunità verso un futuro più equo, sostenibile e prospero. Il lavoro si conclude infatti con un invito all’azione concreta: «Possiamo invertire la rotta nel prossimo decennio attuando una serie di riforme intrecciate, riforme che comprenderanno passi cruciali, tra cui la sostituzione del capitalismo azionario con quello degli stakeholder, la riforma del sistema fiscale internazionale, l’allargamento delle reti di protezione per soddisfare la realtà del lavoro nel Ventunesimo secolo, e premere subito per la transizione a un’energia pulita» (p. 249). L’azione congiunta di queste politiche potrà rimettere insieme i cocci di un contratto sociale ormai in frantumi. L’alternativa sarà lo scivolamento verso nuovi equilibri tendenti all’autoritarismo o un’instabilità costante e dagli esiti imprevedibili.
[1] Si veda in merito: Sarah Repucci eAmy Slipowitz, Democracy under Siege, Freedom House 2021; Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk, The Danger of Deconsolidation: The Democratic Disconnect, «Journal of Democracy», Volume 27, Isssue 3, pp. 5-17, 2016.
[2] Si veda in merito: Roderick Arthur William Rhodes, The Hollowing Out of the State: the Changing Nature of the Public Service in Britain, «The Political Quarterly», 65(2): 138-151, 2005.
[3] Secondo Fukuyama, un sistema politico si trova in una situazione di “vetocrazia” quando «è più facile fermare il governo dal compiere azioni rispetto a quanto il governo stesso possa promuovere il bene comune». Si veda, in merito: Francis Fukuyama, American Political Decay or Renewal? The Meaning of the 2016 Election,«Foreign Affairs» 2016.