“I presocratici. Ritorno alle origini” di Sergio Givone
- 08 Aprile 2023

“I presocratici. Ritorno alle origini” di Sergio Givone

Recensione a: Sergio Givone, I presocratici. Ritorno alle origini, il Mulino, Bologna 2022, pp. 144, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Vittorio Rebora

7 minuti di lettura

Reading Time: 7 minutes

Edito da il Mulino nel settembre 2022, questo libro agile ma nel contempo profondo offre una chiave di lettura di quella fase aurorale della filosofia che non si riduce a essere meramente storiografica, ma attribuisce ai primi pensatori greci – ai presocratici, ma anche ai sofisti – una propria centralità nella cultura occidentale, tant’è vero che secondo Givone essi possono essere definiti «la stella polare del pensiero» (p. 21). Per capire questa affermazione occorre chiedersi: cosa significa, qui, ritornare all’origine? A venirci in aiuto, è un’altra metafora ben presente in tutta la nostra tradizione filosofica, vale a dire quella del viaggio per mare: un percorso che ha a che vedere con quel navigare che altro non è se non il movimento stesso del pensiero, dove «l’exodos e il nostos, l’andata e il ritorno […] sono talmente intrecciati da non potersi separare» (p. 31). L’intento di questo scritto – frutto di un cammino iniziato nel 1988 con Disincanto del mondo e pensiero tragico, e che ha avuto la sua prosecuzione con Eros/ethos del 2000 – è di abbracciare con lo sguardo l’origine assoluta del pensiero, che nella sua essenza è ‘‘eterno’’. Ne deriva che, secondo l’autore: «la domanda sul dove (da dove, verso dove) non riguarda tanto la storia del pensiero, quanto il pensiero stesso» (p. 35).

Si è spesso sostenuto che la peculiarità dei primi pensatori ionici, milesi ed eleati consista nel passaggio dal mythos al logos, da quell’insieme di immagini e di credenze legate ai culti religiosi, alla razionalità dispiegata. Indubbiamente, i presocratici rappresentano quel processo di «secolarizzazione» (p. 20) che terminerà con Aristotele, la cui riflessione può essere definita più una «autochiarificazione del logos che non di ermeneutica del mito» (p. 23). Ma non solo: questo percorso si attua, a sua volta, nella ricerca di un archè, quale fondamento di tutte le cose, e che, tuttavia, pur non essendo rivestito dei colori dell’immaginazione mitopoietica, salda inscindibilmente mythos e logos rispettandone la reciproca autonomia. Nella misura in cui la scoperta dell’archè porta a cogliere il principio che ordina il cosmo senza distogliere il soggetto «dalla dottrina della buona vita e della salvezza» (p. 21) – si pensi, ad esempio, a Pitagora –, e aiutandolo, anzi, a prendere coscienza del suo posto nel mondo, si conferma il nesso tra cosmologia ed escatologia. Come asserisce Givone: «il nesso che lega le teorie del cosmo e dottrine della salvezza è ben saldo. Spezzarlo significa vietarsi di comprendere ciò che è proprio di un pensiero che è certamente pensiero razionale, perché è pensiero del logos che interroga il principio di tutte le cose, ma nondimeno pensiero del mito, perché è il mito a custodire il segreto del principio» (p. 23).

Questo discorso ci porta a scandagliare un altro aspetto: ponendo, per l’appunto, che questa sorgente originaria risieda non al dì fuori ma all’interno della natura, mythos e logos conducono a riconsiderare le condizioni di abitabilità del mondo una volta che quest’ultimo è stato, per così dire, abbandonato dagli Dei. Ed ecco che la riflessione sul mito si situa tra due poli, quello dell’immanenza e della trascendenza: infatti, «la riduzione a natura di qualsiasi trascendenza ripropone e reinventa la trascendenza stessa […]» (p. 56). Lo sforzo da parte dell’uomo di conferire un senso alla terra è esattamente ciò che si prefigge quell’ermeneutica del mito che abbiamo giusto accennato in precedenza: «il lavoro sul mito, dunque, demitizza e rimitizza il mondo» (p. 39), poiché l’inquietudine che l’assenza degli Dei desta nell’animo «esige un metaracconto, un mito non ancora mai ascoltato, addirittura un mito al di là del mito» (p. 57).

I presocratici, inoltre, coniugano «pensiero del disincanto e […] pensiero tragico. […] che pensa l’essere ma facendo i conti con il nulla» (p. 11). Da quest’ultimo punto di vista, Anassimandro risulta un esempio eloquente. Egli è il primo vero pensatore per il quale ‘‘il fine’’, ma anche ‘‘la fine’’, cioè «provenienza e meta coincidono» (p. 48). «È un fatto» – prosegue Givone – «che l’uomo torni là da dove è venuto, ma per l’appunto un fatto e nient’altro che un fatto» (Ibidem). A partire da questo sguardo disincantato, dove risiede, allora, il tragico? Nel credere che la vita dell’uomo altro non sia che un debito da espiare «katà to chreon», secondo necessità, «una colpa che è un tutt’uno con la nostra origine» (p. 54). Interessante, in questo contesto, è la traduzione del verbo chraomai: esso può voler dire ‘‘nutrire un bisogno’’, ma, nel contempo, disporre di una cosa in modo appropriato. È come se i mortali provassero un desiderio di vivere (inteso come ‘‘venire all’essere’’), che però è legato alla separazione violenta dall’uno-illimitato originario da cui sono nati. Si vive, cioè, per pagare il debito con l’infinito: «solo morendo i mortali vengono restituiti alla pienezza della vita, al suo significato, alla sua verità: che è la giustizia reclamata da ogni ingiustizia, la giustizia che ogni ingiustizia non fa che evocare e proclamare» (p. 55).

D’altra parte, l’idea del ‘‘disporre in modo appropriato’’ rimanda a quel gesto ordinatore – parimenti, la voce del logos – che richiama a sé la molteplicità dispersa in quell’intima armonia che è il destino di tutti. Si tratta di una legge che ritroviamo in Democrito, il quale, ritenendo il mondo affidato alla tychein (al caso), avrebbe posto paradossalmente le basi per una mitologia di un mondo disincantato (la natura governata da cause meccaniche mostrerebbe il mondo ‘‘così com’è’’). Ma soprattutto, è presente in Parmenide, a cui è dedicato il capitolo successivo: è infatti la Moira che connota il reale di quel carattere di ferrea necessità, la quale «obbliga l’essere a essere» (p. 61). Ma un altro punto messo in risalto è il tentativo da parte dell’autore di scongiurare una contrapposizione tra Parmenide come pensatore dell’essere ed Eraclito del divenire: «non diversamente che l’essere di Parmenide, anche il fuoco di Eraclito è abitato da un desiderio di essere – essere luce, non essere buio – che inevitabilmente lo porta al di là di sé stesso, o quantomeno evoca, sia pur solo negativamente, ciò che esso ancora non è» (p. 74). Pur precisando che per l’eleate il mondo sia ingenerato, per lui la vita è una «eterna nascita» (p. 70) dove Eros, il primo tra tutti gli Dei, è la figura dell’intera realtà, anche delle ‘‘figlie del sole’’, che guidano l’iniziato del poema alla dimora della Dea, la quale dimostra al protagonista che il sentiero del giorno e della notte si incontrano.

Nell’ultimo capitolo, il confronto è con i sofisti, che pur situandosi da sempre sul piano storico in una prospettiva in cui «non vi è un sapere epistemico […] saldamente stabilito sul suo fondamento» (p. 79), mantengono ugualmente un legame profondo con la realtà: «l’essere non è se non la percezione che l’uomo ne ha» (p. 83). Si potrebbe aggiungere, in tal senso, che la figura di Socrate non funga necessariamente da spartiacque tra una disciplina spuria (la retorica e l’oratoria) e un sapere epistemologicamente fondato sul logos e la dialettica: semmai, la retorica «è un sapere che non pretende di svelare una verità ultima e non revocabile, ma nondimeno, persuade il cittadino circa la verosimiglianza, la credibilità, la possibilità di una buona vita» (p. 39), in modo non dissimile a quella che per i presocratici era la funzione del mito. In altri termini, riferendoci a questi ultimi, «i sofisti hanno in comune con i presocratici se non tutto, quasi tutto. Sia gli uni che gli altri considerano le opinioni dei mortali mere opinioni, così come sia gli uni che gli altri ritengono che la battaglia della verità si combatta sul terreno dell’opinabile e del confutabile, non altrove» (p. 78). Ed è proprio qui che la verità, diviene «a misura d’uomo» (p. 80), un passaggio già anticipato da Senofane – per il quale si può giungere alla conoscenza dell’unico Dio grazie alla negazione dei racconti mitici e delle opinioni umane –, e che porta, con Protagora, ad una ‘‘produzione di mondi’’, che sono tutt’altro che irreali (quello della natura, quello domestico, politico e così via). Il sofista di Abdera, sentenziando che «l’uomo è la misura di tutte le cose» fa evaporare l’assoluto rendendo evidente come le cose possano mostrarsi in un modo, ma anche in un altro. Così, l’apparenza giunge ad una propria rivalutazione contro il principio di identità: è una ‘‘verità al comparativo’’ (espresso nella congiunzione greca os, ‘‘così come’’) sulla quale il concetto di non contraddizione non ci permette di affermare alcunché, un sapere che consente di «riconciliarci con gli aspetti più ambigui» (p. 81) di una realtà il cui cuore non è più afferrabile.

Singolare, infine, è la lettura di Gorgia, il quale, pur ponendosi agli antipodi rispetto a Parmenide, «rimane nella scia del suo pensiero» (p. 84). Più precisamente, il sofista di Lentini conferisce dignità alle opinioni dei mortali, che pur non essendo mai dimostrabili – poiché fondate su una ‘‘parvenza’’ di vero –, sono in grado di persuadere. Esattamente qui risiede il punto in comune con Parmenide: non nell’opposizione di una me-ontologia ad una ontologia, ma nel sentimento di persuasione, con il nome di Peithò, che è «lo stesso […] che Parmenide aveva dato all’aletheia» (p. 86). Ciò lo si vede nelle parole della Dea, come in quelle di Palamede. Quest’ultimo, accusato di tradimento ai danni degli achei da Odisseo, viene condannato a morte. La sua innocenza è indimostrabile, ma è, per Givone, «proprio questa indimostrabilità a far fede per lui» (p. 86), una fede fondata, appunto, sull’essere persuasi della sua non colpevolezza. Salta all’occhio, anche in questo tragico frangente, che della verità si può fare esperienza solo in negativo, come se fosse un fantasma, perché non è mai qualcosa di oggettivo. Quello che Gorgia allestisce ne L’Encomio di Elena e nella Difesa di Palamede è un «teatro della verità» (p. 85), e così facendo «va addirittura oltre Protagora nella rivalutazione di un sapere che sopporta la contraddittorietà del reale, se ne fa carico, ne sprigiona valori di verità e di senso» (p. 83). Si annetterà, però, che ancora una volta ritroviamo il senso di ‘‘tragico’’ già messo in luce nei presocratici, lo ritroviamo qui, ma con uno spostamento d’asse che, sulla falsariga di Protagora, ha intrinsecamente a che fare con la condizione umana: «come se soccombendo al destino della verità, che è di essere sempre altra in quanto nulla le impone di essere in un modo piuttosto che in un altro, l’uomo fosse sfiorato dalla sua carezza» (p. 86).

Per concludere, il merito di questo breve, ma indubbiamente denso e pregnante scritto, è ad avviso di chi scrive, quello di aver fornito un’interpretazione di quei pensatori dell’inizio (ma anche ‘‘della fine’’) scevra da quei rigidi dualismi legati a paradigmi storiografici che poggiano su pilastri ideologici ben consolidati: la differenza tra ‘‘mondo classico’’ e ‘‘mondo cristiano’’; quella tra ‘‘cosmologia antica’’ e ‘‘moderna rivoluzione scientifica’’; ‘‘religione’’ e ‘‘razionalità laica’’. Essi scaturiscono da un presupposto teorico, secondo il quale per noi «tutto è storia. Tutto è tempo. A cominciare dall’essere. Che non è […] se non accadimento, evento. Evento che non è, se non divenire» (p. 10). Al contrario, i primi pensatori vengono in nostro soccorso attraverso «una riflessione sulla realtà quale è realmente […] su to on […], sull’essere qual è sempre identico a sé stesso […] pensiero della verità incontraddittoria, ma anche della verità che sopporta la contraddizione» (pp. 9, 12), rivelando – per rimarcare –, la dimensione tragica di una ricerca che esperisce la verità proprio a partire da quelli stessi contenuti mitici che cerca di lasciarsi alle spalle. Il territorio dei presocratici si può paragonare, chiudendo con una brillante metafora dell’autore, a un’ultima Thule, per cui «tanto più muoviamo verso di essa, e presso di essa soggiorniamo, tanto più ci allontaniamo […]» (p. 32). Non c’è dubbio, dunque, che da questa circolarità interpretativa solida e ben conchiusa che traspare da questo libro, possiamo provare il piacere di intraprendere altri nuovi viaggi.

Scritto da
Vittorio Rebora

Laureato in Scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla ricezione del concetto nietzscheano di “Grande stile” in Heidegger e Jünger. Membro del gruppo Prospettive Italiane. Si è occupato principalmente di estetica prediligendo come periodi storici di riferimento la filosofia classica tedesca e l’età contemporanea (con particolare attenzione all’area tedesca e italiana).

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici