Recensione a: Roberto Esposito, I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo, Einaudi, Torino 2024, pp. XVI – 208, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Paolo Missiroli
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Il dibattito relativo all’importanza del conflitto per la vita e per l’Essere stesso risale fino all’origine della filosofia occidentale. Lo scontro tra Anassimandro ed Eraclito da un lato e Parmenide e i pluralisti dall’altro non è semplicemente relativo allo statuto del divenire, bensì alla sua forma esplicitamente conflittuale, contraddittoria: è possibile un divenire senza possibilità di sintesi, in cui le cose si trasformano e mutano perché gli elementi che compongono l’essere non possono essere in alcun caso armonizzati? O l’Essere è piuttosto, per l’appunto, ciò che è e non può non essere? Bisogna ammettere che la storia del pensiero in Occidente fino all’avvento della modernità ha generalmente seguito la seconda strada, quella di Parmenide, almeno relativamente a questo punto. È nota l’avversione di Platone e Aristotele a Eraclito e al più prossimo Democrito, colpevole di non aver posto un ordine a priori al cosmo, un’organicità complessiva che rendesse i conflitti, pur presenti e riconosciuti dai maestri del pensiero occidentale, accidentali e, tutto sommato, a loro volta organici al tranquillo essere cosmico. Nella sua grande maggioranza, la filosofia antica greca ed ellenistica, da Platone agli Stoici, da Aristotele a Epicuro, condivide una cosmologia serena, tranquilla, che contempla il conflitto solo come attimo in un ordine generale perfettamente armonico: da questo punto di vista, essa ci importa precisamente per la distanza che la separa dal modo di pensare moderno. Con alcune eccezioni, la quasi totalità del pensiero occidentale fino alla modernità compiuta ha infatti condiviso questa critica all’originarietà del conflitto. Segno senz’altro, questo, di un rapporto fondativo tra l’Occidente e Platone e Aristotele, con un pensiero che si basava sui principi comuni delle scienze che il Filosofo aveva enunciato nell’Organon: il principio di non-contraddizione e quello di identità, che precedono ogni possibile distinzione e ogni possibile conflitto. La filosofia antica inizia il suo cammino enunciando: “A è uguale ad A”. Ancora, per Epicuro e per gli Stoici, la tranquillità dell’animo, il non-turbamento del Sé, è non solo condizione raggiungibile, ma facilmente ottenibile con la rinuncia al conflitto interno ed esterno: il saggio è per l’appunto chi rimane diritto, indiviso, unito con sé stesso e con il cosmo.
Tuttavia, non di sola classicità ha vissuto l’Occidente. Nonostante il cristianesimo storico – quello che ha dato forma all’Europa per una buona parte della sua storia – risulti dall’unione del messaggio di Cristo, della successiva elaborazione di San Paolo e della filosofia classica, le sue radici affondano comunque nella Bibbia, nel testo sacro di un popolo, quello ebraico, che si era dotato di una – certamente meno verbalizzata, meno elaborata concettualmente – visione del mondo diversa da quella che si sarebbe sviluppata nella Grecia classica. A essa si rivolge Roberto Esposito, nel suo ultimo libro, dal titolo I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo, per parlare della «lotta come forma ineluttabile della vita». L’occasione gli è data da una decina di famosi versetti della Genesi (32, 23-33), dove viene raccontato un episodio destinato a lasciare un segno indelebile nella cultura filosofica, letteraria e artistica occidentale. Si tratta della lotta notturna del patriarca Giacobbe con un essere impossibile da identificare con esattezza sulla riva di un fiume, durante il ritorno del patriarca a Canaan. Tale lotta, che lascerà Giacobbe zoppicante con un’anca slogata, si conclude al sorgere del sole con l’Avversario, che, non prima di aver benedetto Giacobbe affidandogli un nuovo nome, Israele, sparisce nel nulla. Come mostra Esposito, tali versetti compongono un Enigma interpretativo impossibile da sciogliere. A lungo gli interpreti si sono interrogati sul significato di tali righe: chi è l’Avversario di Giacobbe? Un demone a difesa del fiume, come sostiene chi ricollega tale episodio agli antichi racconti folklorici ebraici, un angelo, Dio stesso, un nemico nazionale o religioso o addirittura l’ombra di Giacobbe medesimo? Questo enigma, sottolinea Esposito riprendendo Auerbach, è dato dalla modalità stessa che ha il narratore biblico di esporre gli eventi, per lampi, pennellate generali che lasciano quasi tutta l’interpretazione al lettore. In questi versetti tale modalità narrativa, che informa di sé l’intero stile del racconto biblico, pare raggiungere il suo apice, il massimo grado di fascino e al contempo di oscurità: da questa seconda, in effetti, deriva l’enorme mole di letture, rappresentazioni artistiche e riflessioni riguardanti il passo della lotta con l’Avversario di Giacobbe.
Esposito non vuole sciogliere l’Enigma, bensì impiegarne la complessità per riflettere sul tema della Lotta e dunque del conflitto. La sua ricerca sui commenti e le letture svolte a proposito dei passi biblici è rivolta a individuare il «ruolo centrale, del tutto intrascendibile, della Lotta, nella cui rappresentazione traspare una violenza inevitabile perché originata all’interno dello stesso soggetto che la subisce». Gli infiniti volti dell’Avversario e della Lotta, squadernati nella nostra cultura sin dalla sua origine ebraica, stanno a testimoniare l’originarietà della violenza, della Lotta come forma stessa della vita. Meritoriamente, Esposito non distingue tra una violenza interna al soggetto e una a lui esterna, il che avrebbe significato per un verso ripetere l’antico gesto moderno che divide un fuori da un dentro, una natura da una cultura, un Io da un mondo; e per l’altro, evidentemente, trovare un’unità fondamentale del soggetto, un’identità che precede il Conflitto. L’ontologia di Esposito – lo si accennava precedentemente – deve essere antiaristotelica come lo è ogni ontologia che pone il conflitto prima dell’Essere, o, come specificheremo meglio successivamente, come deve essere ogni ontologia del Due e non dell’Uno. Al fine di realizzare questo impiego dei versetti biblici, Esposito divide il libro in dieci capitoli, ognuno dei quali presenta un diverso punto di vista sullo scontro con l’Avversario, un suo volto, appunto. A essi seguono una serie di Glosse, dove Esposito torna su ognuno di questi dieci volti come a cercare di illuminarli nuovamente, senza poterli mai esaurire.
Il testo è cosparso di riferimenti che appaiono come lampi, con uno stile che ricorda appunto lo stesso racconto biblico. Pittura (al centro del volume sono disponibili alcune delle immagini che Esposito analizza e commenta), filosofia, psicanalisi, letteratura, religione, sono tutte mobilitate per descrivere questa condizione universale dei viventi che è la Lotta. Essere vivi significa lottare. Giacobbe lotta con l’Avversario, ma è esso a dargli il nome, a chiamarlo Israele, che significa appunto “colui che lotta con Dio”. In diverse delle rappresentazioni artistiche che Esposito commenta, è incomprensibile se i due lottatori si scontrino o si abbraccino e d’altra parte nello stesso racconto biblico la cosa non appare mai con chiarezza. Questo perché, secondo Esposito, la possibilità dell’identificazione armoniosa non è data agli esseri umani e ogni pretesa fissità non porta ad altro che a una repressione di quella dualità conflittuale che da sempre caratterizza la vita di chiunque. D’altra parte, come Esposito racconta nel capitolo Gemelli, Giacobbe e suo fratello Esaù lottano sin dal grembo materno: ancora prima dell’essere nel mondo vi è il conflitto. La Lotta, per Esposito, non è dunque distruttiva: essa è costitutiva di tutto ciò che è. Lottare non è distruggere, ma istituire: Giacobbe riceve la propria identità prima dalla lotta con il fratello, poi dalla lotta con l’Avversario: «L’Avversario è colui che allo stesso tempo crea e mina la nostra identità». Secondo un movimento paradossale, ma che i suoi lettori conoscono bene, Esposito non rinviene il rischio nichilistico che ha caratterizzato larga parte del Novecento e forse anche dei nostri ultimi anni nella Lotta, bensì nel suo opposto: «La violenza assoluta nasce sempre dall’indifferenziato». Solo l’illusione della fusione genera la lotta a morte, perché nell’indistinzione i vari elementi reagiscono violentemente al rischio dell’indifferenza, cercando di eliminare il proprio gemello. Non vi è uccisione nella distinzione, ma solo Lotta. Se vi è dell’Essere, qualcosa di minimamente stabile nel mondo, è perché è continuamente formato e dis-fatto dal conflitto, dall’interazione oppositiva tra elementi: l’unica forma dell’Essere è dunque l’istituzione, qualcosa di formato eppure instabile. Solo nella morte vi è armonia e stabilità. Da questo punto di vista, Esposito riprende altre sue riflessioni: Due è il numero non solo della politica, ma della vita stessa. La narrazione di tutta la vita di Giacobbe «comincia dal Due, ha per oggetto il Due e termina nel Due»: non Uno, non l’armonia originaria tipica del pensiero classico, ma nemmeno il Tre, il numero di Hegel, per cui all’opposizione seguirebbe una sintesi pacificante – che non farebbe altro che ripristinare l’Uno. Il Due tiene allo stesso tempo uniti e disgiunti i combattenti: uniti, perché essi non sono altro che la loro Lotta; disgiunti, perché non fanno che lottare.
Nonostante Esposito, come accennavamo sopra, non condivida il gesto cartesiano di distinzione tra un Ego sicuro, saldo della sua certezza, e un mondo oggettivo, è tuttavia importante sottolineare come sia trasversale al suo lavoro una declinazione che egli stesso definisce “psicologica”. È peraltro l’autore stesso a notare en passant che l’occasione di un libro così diverso dai suoi altri lavori nella forma e nell’argomento, per quanto non nel contenuto filosofico, gli è stata data da uno stato psicologico particolare che gli ha consentito di pensare in modo diverso dal solito – tracciando una certa discontinuità – a temi che da lungo tempo lo rincorrono. La Lotta, che attraversa tutto, ci viene rivelata, così, come costitutiva anche del volume che abbiamo in mano e del sé che lo ha scritto. L’Avversario, l’Ingannatore, la controparte interna a noi, che ci abita, quasi un Gemello come Esaù lo è di Giacobbe, ha combattuto ognuno di noi, dice Esposito rivolgendosi al lettore: «Chi può dire di non portare dentro il vuoto dell’Avversario? Di non avergli mai ceduto?». Emerge così un altro dei temi fondamentali che attraversano il libro e l’intera opera di Esposito, quello del negativo. Come il negativo di qualsiasi fotografia, così il negativo pensato da Esposito è l’altro irriducibile eppure costitutivo del positivo: il conflitto è sempre tra un positivo e un negativo del positivo, i cui due poli sono infinitamente interscambiabili. Dopo la lotta con l’Avversario, Giacobbe torna a Caanan non come Io, pienezza positiva e certa della propria invincibile e originaria unità, bensì come “sé”, ricomposto dopo l’incontro con il proprio negativo, con la propria Ombra. In fondo, è opinione di Esposito che ciò che è vivo oggi della psicanalisi ruoti intorno a questa consapevolezza: non c’è espulsione del proprio negativo, pacificazione apparente, che non sia autodistruzione. Solo la mediazione tra sé e la propria Ombra, solo l’accettazione del proprio Avversario rende possibile un “processo di individuazione”.
È, in fondo, lo stesso personaggio di Giacobbe, al netto dell’episodio dello scontro con l’Avversario, a manifestare quanto appena riportato. Contrariamente ai grandi eroi dell’Iliade, Giacobbe ha una profondità che già Auerbach aveva riconosciuto ai personaggi biblici: egli è uno dei patriarchi, un eletto di Dio; eppure inganna suo padre Isacco anziano e cieco, allontana suo fratello, colpisce dove non potrebbe, fugge quando ha paura. La sua profondità è data dalla sua umanità; la sua oscurità, che mancava agli eroi dell’Iliade proprio perché chi li narrava li vedeva interamente, penetrandone la superficie e ivi rimanendo in una luminosità infinita, è costitutiva della Bibbia, che, come accennavamo prima, è narrata più per lampi, per immagini che si susseguono e non danno la chiave definitiva dei personaggi così come della storia del popolo di Dio, che non conosce la propria strada. Soltanto dove non vi è solo luce si può infatti camminare: la storia è per definizione il regno della contingenza, del possibile e dunque dell’oscurità. Questo perché essa è attraversata da un negativo, da uno scontro irresolubile con un’avversità che la pervade e che da un lato la rende incompiuta, dall’altro sempre aperta al nuovo.
La Lotta, come insegna Roberto Esposito, non termina mai veramente, e il tentativo di eliminare l’Avversario è destinato al fallimento. Il processo storico che è dato agli uomini da attraversare rimarrà per sempre nell’incompiutezza, giacché la fine della Lotta significherebbe (e, per tutte e tutti, a un certo punto effettivamente significa) la fine della vita che è espressione di questo scontro. Ecco, dunque, perché «il compito che Dio – o il destino – assegna a Giacobbe è anzi quello di liberarsi dall’ansia di un’impossibile vittoria, senza però darsi per vinto. Deve cogliere, e accettare, il fatto che l’esistenza umana è sempre in lotta, che la vita non potrà mai vincere la vita. Ma anche che la morte non potrà mai annientare la vita».