“Il capitale nell’Antropocene” di Kōhei Saitō
- 17 Aprile 2025

“Il capitale nell’Antropocene” di Kōhei Saitō

Recensione a: Kōhei Saitō, Il capitale nell’Antropocene, Traduzione di Alessandro Clementi Degli Albizzi, Einaudi, Torino 2024, pp. 312, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Paolo Missiroli

11 minuti di lettura

Reading Time: 11 minutes

Il tema dell’ecologia non è più all’ordine del giorno del dibattito pubblico, almeno in Occidente (con ogni probabilità, non lo è mai stato nel resto del mondo globalizzato), nel senso che non è oggetto di una discussione attiva e frequente che coinvolga almeno le classi dirigenti e una parte rilevante della cittadinanza. Si possono dare diverse letture di questo fenomeno apparentemente paradossale, a causa dell’avanzare degli effetti reali della crisi, e per alcuni problematico. Elenchiamone almeno tre (a cui va aggiunto, come premessa, l’avvento del tema della guerra che ha comprensibilmente monopolizzato il dibattito): in primo luogo, una attraverso la lente dell’ideologia. Si può cioè sostenere che il problema dell’ecologia venga espunto dal dibattito perché se venisse trattato in modo diffuso e continuo imporrebbe alle società che lo dibattono un grado di trasformazione insostenibile per pezzi importanti di esse. In secondo luogo, si può ipotizzare che il dibattito sia assente per una forma di stanchezza. Si tratterebbe, cioè, di un fenomeno verificatosi per esaurimento: il discorso sull’ecologia è durato tanto a lungo ed è stato affrontato in modo così pervasivo nel lustro 2018-2023, anche a causa dei primi eventi legati indiscutibilmente alla crisi in corso come la pandemia da Covid-19 e l’innalzamento evidente delle temperature su scala globale, che il fatto che non abbia avuto quasi nessun effetto reale sul modo in cui viviamo ci ha fatto pensare che questo dibattito, se anche fosse di nuovo presente, sarebbe inutile. Vi è poi una terza ipotesi che si può avanzare, e cioè che il dibattito si sia di molto ridotto perché il tema dell’ecologia si è endemizzato. L’ecologia sarebbe cioè diventata un tema talmente comune, talmente quotidiano, da essere oramai percepito come parte integrante di ogni discorso (di ogni dibattito, di ogni progetto accademico, di ogni pubblicità).

Con ogni probabilità, tutti e tre questi piani hanno un loro ruolo nel determinare questa situazione di generale disattenzione. L’ultimo lavoro del filosofo Kōhei Saitō, importante studioso di Marx, si inserisce in questo contesto consapevolmente. La prima cosa che va detta a proposito del lavoro di Saitō è proprio che cessa di considerare la crisi ecologica un evento istantaneo, che si tratterebbe di cogliere in un senso o nell’altro. La crisi ecologica non è dunque tanto l’attimo in cui tutto cambia, ma la condizione, l’orizzonte essenziale, l’ambiente dei viventi. Questo traspare sin dal titolo, Il capitale nell’Antropocene, in cui va sottolineato l’uso del concetto di Antropocene non per definire una generica epoca dell’uomo, in cui cioè quest’ultimo assumerebbe una potenza ultima sul pianeta Terra, ma proprio il contrario: l’Antropocene è l’ambiente dei sistemi sociali, del modo di produzione capitalistico nella sua forma globale. La questione non è per nulla, d’altra parte, se gli umani possano distruggere l’Antropocene, o uscirne. La fine dell’Antropocene, cioè della trasformazione in corso su scala planetaria, è semplicemente impossibile. Si tratta, invece, di starci dentro. Il capitale, nella sua forma globale, appunto, non ha scelta se non quella di tentare nuovi cicli di accumulazione nell’Antropocene. Il lavoro che qui verrà presentato ha, è bene sottolinearlo da subito, uno scopo essenzialmente divulgativo. Invano lo si leggerebbe alla ricerca di una notevole scoperta teorica o, come accenneremo meglio più avanti, di una nuova lettura di Marx filologicamente adeguata fino in fondo. Saitō prova piuttosto a divulgare al grande pubblico un’analisi della fase e una proposta, riassumibili entrambe nella seguente affermazione: nulla, se non il comunismo della decrescita (la proposta di Saitō, su cui torneremo diffusamente), può rendere abitabile l’Antropocene.

Il libro si apre con una critica all’ambientalismo etico, cioè all’idea per cui l’insieme delle azioni individuali potrebbe portare a una reale mitigazione degli effetti della crisi ecologica, e degli SDGs (obbiettivi di sviluppo sostenibile), che sono, secondo Saito, la rappresentazione plastica dell’illusione di poter operare una transizione ecologica delle nostre società all’interno del quadro capitalistico di produzione e riproduzione della ricchezza. Nel primo capitolo, Cambiamento climatico e modello di vita imperiale, Saitō mostra i meccanismi attraverso cui il modo di produzione capitalistico nella sua forma globalizzata (il cui raggiungimento marxianamente l’autore legge come tendenza inevitabile del capitale) abbia, da un lato, costruito un modello di vita imperiale, cioè una prospettiva di esistenza per una piccolissima parte dell’umanità che si fonda sullo sfruttamento delle risorse naturali e umane di tutto il resto del mondo. Il concetto di modello di vita imperiale, che Saitō riprende da Ulrich Brand e Markus Wissen, ha certamente il pregio di identificare un’oggettiva disparità tra varie parti del mondo e la sua articolazione secondo uno schema centro-periferia che fa sì che alcune zone del mondo siano strutturalmente sottoposte a sfruttamento intensivo e, in generale, i loro abitanti siano condannati a condizioni di vita peggiori, ma corre anche il rischio di non riscontrare le fratture di classe (e di modello di vita) interne al Nord ma anche al Sud globale, dove una piccola minoranza gode fino in fondo delle ricchezze prodotte da questo modello produttivo-riproduttivo. D’altra parte, questa impostazione renderebbe praticabile esclusivamente una politica della solidarietà: ed è quello che sembra dire Saitō quando scrive «se avessimo maggiore consapevolezza del Sud globale, ci verrebbe naturale abbassare i nostri standard» (p. 17). In generale, non ci pare, alla luce della lettura complessiva del libro, che l’autore creda veramente che tutti gli occidentali condividano alti standard di vita e che non abbiano un interesse ad una lotta emancipativa e al comunismo della decrescita che non sia meramente morale. Era tuttavia importante sottolineare i rischi di un concetto che riveste una posizione centrale nell’analisi della congiuntura fatta da Saitō. L’autore prosegue poi mostrando le modalità attraverso cui il capitale si confronta oggi con la crisi ecologica. Il capitale, scrive riprendendo Marx, dirotta altrove le proprie contraddizioni rendendole invisibili, senza per questo annullarle: mette in atto cioè un’operazione di translazione delle contraddizioni. Nel caso della crisi ecologica, queste translazioni sono tre: tecnologica, spaziale e temporale. La prima consiste nel tentare di risolvere la crisi attraverso lo sviluppo tecnologico, nonostante sia storicamente evidente che l’uso sconsiderato delle tecnologie non ha fatto che aggravare le contraddizioni; la seconda nel cercare di allargare l’accumulazione di capitale a spazi via via sempre nuovi del Pianeta Terra, dando luogo a qualcosa che l’autore chiama “imperialismo ecologico”; la terza nello spostare sul futuro le preoccupazioni per gli effetti della crisi ecologica, il ché è ormai privo di senso in un momento in cui tali effetti si manifestano plasticamente.

Il secondo capitolo, invece, I limiti del modello keynesiano applicato al clima, consiste in una critica alle posizioni fiduciose nella cosiddetta “crescita verde”, che negli ultimi anni si sono radunate intorno alla richiesta di un Green New Deal globale (ultimo baluardo degli SDGs di cui si parlava poco sopra), che appunto consiste nella richiesta di grandi investimenti pubblici con l’obbiettivo di una crescita economica non (o meno) dannosa nei confronti dell’ambiente. La ragione fondamentale di questa critica sta nel sospetto di Saitō nei confronti della effettiva possibilità del fenomeno del decoupling assoluto. Con questo termine si intende, in generale, il tentativo di separare la crescita economica da un maggior impatto ambientale. Esso può essere relativo, qualora il tasso di crescita del secondo sia inferiore rispetto al primo, o assoluto, se l’impatto ambientale di una determinata economia cala nonostante la crescita di quest’ultima. Se il primo fenomeno, semplicemente, non è rilevante (in quanto la crisi ecologica, per essere mitigata, necessità di un calo assoluto delle emissioni), il secondo è per Saitō invece impossibile, per il paradosso di Jevons, economista del XIX secolo che mostrava che ogni fenomeno di decoupling consiste in realtà in un recoupling, nella misura in cui ogni aumento di efficienza porta a un maggiore impatto ambientale. In un’economia di stampo capitalistico, cioè legata alla crescita, ad esempio, un aumento dell’efficienza energetica dei televisori porta ad un acquisto compulsivo di questi ultimi, generando un incremento dell’energia generale consumata; inoltre, spesso ciò che appare come un decoupling assoluto (è il caso dell’Olanda, dove effettivamente le emissioni complessive sono calate) in realtà genera, a causa del trasferimento delle attività produttive, un aumento di emissioni nel resto del mondo, annullando così l’effetto potenzialmente positivo del Paese “ricco”. Ecco, in breve, perché la crescita sostenibile è una pia illusione, secondo l’autore, esattamente come lo è l’accelerazionismo, cioè l’idea per cui lo sviluppo tecnologico genererà autentici processi di decoupling e che invece, per Saitō come per tanti altri autori, per un verso è irrealizzabile (paradosso di Jevons), per un altro rischia addirittura di compromettere definitivamente i processi democratici, volgendoli in favore di “tecnologie chiuse” (il riferimento è ad André Gorz) nelle mani di pochi potenti (è il caso della geo-ingegneria).

Il libro di Saito non è, tuttavia, semplicemente una descrizione del Capitale nell’Antropocene, ma, si potrebbe dire, di ogni possibile via per sopravvivere collettivamente in questo mutato contesto. È con questo spirito che, in quel capitolo centrale del lavoro che è il quarto, Saitō riassume la propria interpretazione di Marx, al fine di elaborare alcuni strumenti concettuali adeguati a pensare un’alternativa. Molto brevemente, l’interpretazione di Saitō, legge il Capitale non lontana da quella di John Bellamy Foster, ecomarxista statunitense che ha rinvenuto nel capolavoro marxiano una teoria della frattura metabolica tra Capitale e mondo naturale (non potendo i cicli di quest’ultimo adeguarsi alla tendenzialmente infinita rapidità di quelli del primo), aggiungendo a tale lettura lo studio di alcune pagine di appunti di Marx a proposito del lavoro di Liebig relativo all’uso della chimica in rapporto all’agricoltura e in generale sulle scienze naturali. A questo insieme di scritti marxiani, che avrebbero fatto abbandonare a Marx l’idea di un primato della produzione che avrebbe condiviso da giovane, Saitō aggiunge uno studio delle lettere del filosofo tedesco alla rivoluzionaria russa Vera Zasulič, nelle quali rigetterebbe anche l’eurocentrismo progressista e abbraccerebbe l’idea del comunismo come di una «via a più binari» (p. 143), cioè come di un processo che può essere realizzato globalmente in più di un modo, uno dei quali è appunto l’instaurazione di un regime sociopolitico fondato sulla proprietà comune già presente in Russia verso la fine del XIX secolo. Da questo punto di vista, secondo Saitō, Marx alla fine della sua vita era già convinto che una possibile strada al comunismo fosse, per l’appunto, l’istituzione di una serie di comuni governate democraticamente e libere dal vincolo della crescita come unica fonte di benessere. È bene ribadirlo: non ha senso leggere il filosofo giapponese cercandovi un’interpretazione esatta di Marx. Spesso Saitō prova a far dire al filosofo di Treviri cose che probabilmente non pensava, ad esempio che fosse già nelle sue ipotesi la necessità di un arresto della crescita (che è molto difficile pensare facesse direttamente parte dei suoi interessi, nonostante vi sia un dibattito acceso sul punto), o a leggere l’ultimo Marx come in rottura netta con un primo Marx “produttivista” (quando tutta una serie di letture, anche molto recenti, mostrano una serie di passaggi ecologici già presenti nei Manoscritti economico-filosofici). Se è forse esagerato parlare, come fa Saitō, di una vera e propria «conversione del tardo Marx»” (p. 122), lo è forse altrettanto svalutare tutto il libro a partire da un’interpretazione un po’ forzata del testo marxiano. Il lavoro dell’autore in oggetto va piuttosto letto come, appunto, un tentativo a due facce: da un lato, Saitō vuole divulgare le sue ricerche su Marx (che consistono in un grande lavoro di archivio su testi anche del tutto inediti), ma soprattutto, dall’altro, vuole elaborare una proposta a partire dalle categorie marxiane (proposta che quindi, evidentemente, non è in sé marxiana). Tale proposta è quella di un comunismo della decrescita, fondato sull’associazione tra lavoratori in cui vengono ripristinati i «beni comuni» (p. 118) e sulla rimozione del «primato della produzione» (p. 125) a cui sia le prospettive socialiste classiche che il modo di produzione capitalistico sono rimasti a lungo legate. È poi nel capitolo sette che Saitō delineerà alcuni degli elementi imprescindibili per una società di tal fatta: a) il passaggio a un’economia del valore d’uso, fondata su ciò che serve alla società e non a ciò che vende e di conseguenza la rivalutazione dell’importanza dei beni essenziali; b) la riduzione dell’orario di lavoro e la fine dell’ «appetito per il superfluo creato mediante marketing» (p. 243); c) l’abolizione della divisione standardizzata del lavoro basata sull’uniformazione efficientista di esso. Da questo punto di vista Saitō non è a favore dell’abolizione del lavoro ma di una sua trasformazione in un’attività «attrattiva» (p. 247); d) la democratizzazione del processo produttivo, cioè la gestione condivisa dei mezzi di produzione tramite l’associazione che per l’autore porterebbe immediatamente a una decelerazione dell’economia, in quanto lo scopo della produzione non sarebbe più l’arricchimento infinito di pochissimi ma la produzione di valore d’uso sociale.

Il capitolo sei è dedicato alla risposta alla più classica delle obiezioni alla decrescita e dunque anche a un comunismo della decrescita, cioè a una prospettiva di società fondata sulla gestione democratica dei mezzi di produzione disinteressata alla crescita esponenziale del prodotto interno dell’unità politica di riferimento. Proviamo a formulare tale obiezione: “se, in generale, gli esseri umani sono felici in una situazione di abbondanza, in cui cioè la quantità di ciò che viene richiesto supera strutturalmente la richiesta effettiva, come può una società in cui si produce di meno come quella del comunismo della decrescita essere anche una società del benessere?”. Evidentemente, tale obiezione non è solo quella della controparte (il modo di produzione capitalistico), ma è da sempre anche interna al mondo critico radicale. Se già l’etica deontologica, per cui il bene va fatto perché si deve e non perché rende felici, non è di facile accettazione, ancor meno lo è infatti una politica deontologica, cioè una prassi di produzione e riproduzione sociale accettata perché più “giusta” rispetto alle altre. Bisogna dunque capire come è possibile essere felici anche in una società in cui la produzione è ridotta, naturalmente senza partire dal fatto che nella società attuale la stragrande parte degli esseri umani è felice, giacché il comunismo della decrescita non può essere la prospettiva meno peggio, ma la migliore in generale. Il nucleo della risposta di Saitō sta nell’affermazione per cui «è il capitalismo a creare scarsità» (p. 187). Si tratta di un punto assolutamente fondamentale e che, per quanto da un punto di vista storico-scientifico sia ormai ampiamente dimostrato, è quasi completamente ignorato dal dibattito pubblico contemporaneo. Come è noto, la definizione di abbondanza e scarsità non è mai assoluta, ma legata alla richiesta di tutta una serie di beni in una determinata società: è scarso un bene la cui disponibilità a fronte della sua richiesta è ridotta. Ad esempio, nel capitalismo contemporaneo vi è una assoluta scarsità di alloggi in quasi tutte le città medio-grandi dell’Occidente. Questo non è evidentemente dovuto a una minor quantità di spazi abitabili in rapporto alla popolazione (e infatti è in grossa crescita il numero di appartamenti vuoti) bensì al fatto che nel libero mercato, per un verso, una parte importante degli alloggi è destinata a essere venduta in operazioni speculative e, per un altro, la scarsità di alloggi aumenta il guadagno di chi li possiede (potendoli affittare e/o vendere a un prezzo maggiorato). È quindi il capitalismo che produce costantemente scarsità, non solo perché genera bisogni non necessari, ma soprattutto perché, privatizzando e dovendo vendere ciò che potrebbe essere comune, toglie questo dalla disponibilità di tutti, obbligandoli alla fatica per potersi procacciare anche beni di prima necessità. Nonostante si possa mettere in dubbio l’affermazione di Saitō per cui la qualità della vita è peggiorata nel capitalismo (p. 191) in quanto eccessivamente generica, è però fondamentale sottolineare l’assoluta storicità della scarsità, che solo apparentemente è la condizione essenziale dell’essere umano, nonché il fatto che la ricchezza privata, per definizione, riduce la prosperità pubblica (p. 195).

Concludiamo questo sorvolo su un’opera di cui non abbiamo certamente esaurito i contenuti con alcune considerazioni di carattere politico. Nel suo libro, Saitō identifica con molta chiarezza i “nemici”, cioè coloro che a suo avviso rendono insuperabile l’attuale impasse per cui, nonostante la crisi sia evidente, non si trova un modo per uscirne. Ricordiamoli brevemente: il modo di produzione capitalistico (non solo nella sua forma neoliberale), le destre globali post-fasciste, il maoismo climatico (cioè l’idea di una gestione integralmente statale della crescita e della crisi ecologica) in quanto forma di autoritarismo, il centrosinistra riformista e keynesiano e l’accelerazionismo, in quanto fautori dello sviluppo sostenibile. Identifica anche, con una certa chiarezza (quella che è possibile avere quando si fa la “storia del futuro” di cui cantava il recentemente scomparso Manfredi) le forme del comunismo della decrescita. Con molta più difficoltà, lo si è visto anche nella prima parte di questa recensione, l’autore si approccia invece alla questione politica fondamentale: quella della transizione. Una volta compresa l’inadeguatezza dello stato di cose presente e intuita la forma di quello auspicabile, bisogna comprendere la forma del movimento reale che abolisce il primo e avvicina al secondo. Saitō, in accordo con la quasi totalità del marxismo, ritiene che il primo passaggio per comprendere i contorni di tale movimento sia identificarne il soggetto, cioè l’agente che lo metterà in atto. È a questo punto, ci pare, che la prospettiva dell’autore diviene maggiormente confusa. In prima battuta, egli disperde questa soggettività in una pluralità indefinita di agenti, che vanno dalle classi di cura (i lavoratori nel campo dei servizi alla persona) alle cooperative di lavoratori, da un generico e problematico “Sud globale” all’economia sociale, dalle “fearless city” (un insieme di città sparse per il globo governate da forze alternative). Come si vede, Saitō passa senza soluzione di continuità da parti identificate a partire dalla loro posizione nel modo di produzione a organizzazioni politico-istituzionali. Il problema non è la pluralità intrinseca alla soggettività politica, che il dibattito sull’intersezionalità, a partire dal femminismo e dal post-colonialismo, ha ormai mostrato come non contraddittoria rispetto alla lotta politica (anche la classe operaia era assolutamente plurale), bensì il fatto che non sia identificata con chiarezza la linea di faglia tra parti, la ragione per cui esse sono appunto parti contrapposte e dunque la loro stessa potenzialità politica. La ragione della lotta per il comunismo della decrescita appare, a tratti, legata non a interessi materiali (cioè, come vedevamo prima, alla ricerca della propria felicità da parte di gruppi sociali identificabili) ma a una generica solidarietà che sembra più propria di una forma di moralismo che di una teoria politica rivoluzionaria. La conclusione del capitolo relativo a tale problematica, l’ottavo del lavoro in oggetto, mostra nettamente tale difficoltà dell’autore che scrive che basterebbe un 3,5% della popolazione mondiale attiva praticamente nella lotta per il comunismo della decrescita per realizzarlo effettivamente. Come è noto, il 3,5% della popolazione è un numero immenso, che difficilmente è stato messo in campo dai movimenti rivoluzionari prima della presa degli Stati; parlare in termini percentuali avendo come base l’intera popolazione, inoltre, è forse ciò che mostra più plasticamente l’incapacità di identificare delle parti nel sistema sociale. Non vi sono dubbi che la Leva per la giustizia climatica necessiti di ben altro perno per sollevare la globalizzazione nell’Antropocene. Tale impasse, va sottolineato, non è di Saitō, non ha cioè semplicemente a che fare con una difficoltà teorica (che pure è evidentemente presente nel dibattito critico-radicale contemporaneo – basti pensare al dibattito sull’alternativa class politics / identity politics): è al contrario tutta intera nel mondo reale, dove per l’appunto il problema non è quasi per nulla l’identificazione delle forme possibili di una società migliore, ma l’apparente impossibilità di realizzarla, la mancata identificazione delle forme della transizione. È questa la sfida dell’ecologia politica nella sua forma radicale, che non può dunque né ridursi a essere l’elenco giornalistico e acritico delle lotte in atto, né una forma di utopismo inteso come descrizione, più o meno puntuale, di una società futura.

Scritto da
Paolo Missiroli

Dottore di ricerca in Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’Université Paris Nanterre. È docente a contratto di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e cultore della materia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, dove collabora con la cattedra di Storia della filosofia francese contemporanea. Membro del comitato editoriale dell’“Almanacco di Filosofia e Politica” e del gruppo di ricerca “Officine Filosofiche”, studioso del pensiero filosofico francese contemporaneo, in particolare di Merleau-Ponty e della filosofia francese degli anni Trenta, si interessa di Antropocene, del rapporto uomo-mondo, dell’ecologia e di una sua possibile declinazione in termini politici.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici