Il fattore umano nella cooperazione sociale. Intervista a Stefano Granata
- 02 Agosto 2024

Il fattore umano nella cooperazione sociale. Intervista a Stefano Granata

Scritto da Giacomo Bottos

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Dal 20 al 22 giugno a Bologna si è tenuta la XV Convention del Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale Gino Mattarelli (CGM), con il titolo “Direzioni. Intelligenze collettive per una nuova economia sociale”, di cui Pandora Rivista è media partner. Il tema di questa convention sono state le direzioni che è necessario intraprendere per fronteggiare le transizioni ambientale, digitale, demografica e culturale. Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Stefano Granata, Presidente di Confcooperative Federsolidarietà, che è intervenuto nel panel “Generazioni al lavoro: un nuovo contratto sociale” a cui hanno partecipato anche: Francesco Seghezzi, Silvia Zanella, Rita Ghedini, Matteo Caramaschi e Stefano Arduini. In questa intervista, Granata riflette sui temi del lavoro educativo e assistenziale e sulla fase che sta attraversando il settore della cooperazione sociale.


Dal suo punto di osservazione, quali sono alcuni dei principali elementi che contraddistinguono la fase che la cooperazione sociale sta attualmente attraversando?

Stefano Granata: La cooperazione sociale, dopo essere nata come movimento spontaneo dal basso, per circa quarant’anni ha avuto una natura fortemente espansiva, con caratteristiche imprenditoriali tipicamente italiane che non si sono manifestate in nessun altro Paese. Tuttavia, nel tempo, si è progressivamente istituzionalizzata fino a diventare di fatto uno strumento per l’esternalizzazione dei servizi sociali dello Stato. Questo processo ha coinciso con una crisi del welfare State che perdura da anni e che oggi ha raggiunto una saturazione, aggravata da fenomeni come il deterioramento della sanità pubblica e l’impoverimento della popolazione, ma non solo. Il settore della cooperazione sociale, agendo sempre più come braccio operativo dell’amministrazione pubblica, ha spesso adottato le stesse modalità operative uniformandosi alla logica dei bandi e delle gare d’appalto, perdendo così la sua originalità imprenditoriale, la sua creatività e i suoi modelli organizzativi distintivi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel settore educativo e in quello assistenziale, che fanno parte della cosiddetta cooperazione sociale di tipo A. Le cooperative di inclusione lavorativa, al contrario, hanno mantenuto una maggiore vicinanza al mercato, esaltando il modello organizzativo tipico della cooperazione caratterizzato dalla compartecipazione democratica e dai benefici che ne derivano. In questo momento, dunque, la cooperazione sociale si trova di fronte a questo bivio tra l’omologazione al metodo dell’amministrazione pubblica e il recupero dell’originalità delle prerogative che hanno permesso la sua emersione.

 

In questo quadro di transizione uno dei temi che si pongono con forza è quello della qualità del lavoro nell’ambito alla cooperazione sociale. Quali sono gli elementi principali di tale questione?

Stefano Granata: Ci sono due aspetti principali da considerare. Il primo riguarda la cooperazione di tipo B, che deve tornare a rivestire un vero ruolo imprenditoriale di sussidiarietà e non limitarsi a una mera esternalizzazione di servizi. È essenziale che questo sia fatto, appunto, salvaguardando i modelli organizzativi più vicini all’impresa, piuttosto che alla semplice funzione di fornitura di servizi per conto dell’amministrazione pubblica come se fosse un’intermediazione con la forza lavoro. Questo aspetto è cruciale laddove è presente, come dimostrano i recenti sviluppi. Fino a sette o otto anni fa, le cooperative di tipo B operavano principalmente in tre settori: lavorazioni conto terzi, pulizie e verde pubblico. Oggi, invece, queste cooperative si sono espanse a tutta una gamma di produzione di beni e servizi, diventando competitive con altre imprese, ma continuano a includere soggetti fragili. Questa tendenza si osserva anche nel settore dell’assistenza e dell’educazione, dove è necessario riprendere un approccio creativo, offrendo servizi innovativi che vadano oltre le proposte standard dell’amministrazione pubblica e rispondano a bisogni che attualmente rimangono insoddisfatti. Si pensi alla grande domanda non soddisfatta per quanto riguarda le povertà educative di minori e adolescenti, alle fragilità psicologiche, all’uso di sostanze stupefacenti o psicofarmaci, e ai disturbi alimentari. Questi sono bisogni reali e urgenti per i quali non esiste una risposta pubblica standardizzata, ma che potrebbero essere affrontati efficacemente da cooperative che continuano a innovare e a costruire soluzioni dal basso. Affinché ciò avvenga, è necessario acquisire nuove skill, rivedere i modelli organizzativi e integrare diverse competenze e modalità operative. In sintesi, dico che la cooperazione sociale si trova a un bivio perché, se non riuscirà a rinnovarsi e a riaffermare il suo ruolo imprenditoriale, rischia di diventare solo un esecutore di servizi e di essere sostituita da altre forme giuridiche o imprenditoriali più efficienti.

 

Per scegliere il corno virtuoso di questo bivio, il rapporto con lamministrazione pubblica come deve evolvere? Come deve cambiare, da un lato, latteggiamento degli interlocutori pubblici, e dall’altro quale deve essere latteggiamento del mondo della cooperazione sociale nel richiedere un cambiamento?

Stefano Granata: Uno dei principali problemi attualmente è che, già da qualche anno, la cooperazione sociale ha adottato una postura di sudditanza nei confronti della pubblica amministrazione. Questa relazione è basata su una dinamica semplice: la cooperativa segue le direttive di ciò che l’amministrazione decide, in cambio della possibilità di ottenere dei lavori, eseguirli e sopravvivere preservando una buona collaborazione. È fondamentale uscire da questo schema e sfruttare anche gli strumenti giuridici a disposizione in modo diverso e proattivo. Oggi è molto diffuso il concetto di coprogettazione ma spesso si tratta di una modalità in cui la pubblica amministrazione stabilisce le modalità di erogazione dei servizi, le risorse disponibili e le condizioni, che sono generalmente ancora più restrittive rispetto a quelle tipiche delle gare d’appalto. La vera svolta innovativa dovrebbe essere quella della coprogrammazione, che implica una collaborazione autentica nella definizione comune delle risposte ai bisogni del territorio. In questo approccio, le condizioni non sono imposte dalla pubblica amministrazione, ma costruite congiuntamente, valorizzando e riconoscendo il lavoro sociale e la qualità, che presuppone anche l’avere nuove idee e proposte. Per realizzare ciò, è necessario che le cooperative dimostrino capacità di cofinanziamento, non solo la disponibilità di risorse umane ma anche di contributi economici, investendo direttamente nella costruzione delle soluzioni e delle risposte ai bisogni. Affidarsi esclusivamente ai finanziamenti pubblici limita l’indipendenza e la capacità di essere terzi rispetto all’amministrazione, perché in ogni ambito è vero il concetto che chi paga decide. In anni recenti questa dinamica è diventata sempre più evidente anche in questo settore.

 

Allinterno della trasformazione di cui abbiamo parlato e di questa prospettiva di miglioramento della qualità del lavoro nella cooperazione sociale, che ruolo può avere il nuovo contratto della cooperazione sociale di cui lei è stato uno degli artefici, quali sono i punti di forza, e quale contributo può dare?

Stefano Granata: Il rinnovo del contratto rappresenta uno spartiacque significativo per diverse ragioni. Di fronte a un incremento così significativo che prevede tariffe adeguate, la pubblica amministrazione fatica a riconoscerlo nella sua totalità ed è costretta a mettersi in discussione per la prima volta. Inoltre, da un punto di vista del rapporto tra cooperative e istituzioni, queste ultime si trovano a confrontarsi con una situazione tutto sommato nuova, ovvero quella delle agitazioni a cui abbiamo assistito recentemente a Milano e Roma, dove i rappresentanti delle cooperative sociali hanno manifestato richiedendo salari equi e giusti in linea con il nuovo contratto nazionale, evidenziando una nuova fase di conflittualità. Il settore della cooperazione sociale sta alzando la voce e sottolineando che seppure siano comprensibili le difficoltà di budget della pubblica amministrazione, non è possibile scaricare queste problematiche sull’ultimo anello della catena, che sono i lavoratori. Questa situazione, se da un lato segna, come dicevo, l’inizio di una possibile stagione di rinnovata conflittualità, sottolinea anche una maggiore consapevolezza dell’impossibilità di abbassare il livello delle proprie richieste all’interno del movimento cooperativo. Siamo giunti a un punto di non ritorno e lo dimostra il fatto che il mismatch tra domanda e offerta sulle proposte lavorative ha raggiunto il massimo in questo periodo: non si riescono a reperire adeguatamente né figure assistenziali né figure educative. Questo problema lo si vede anche nella fase formativa e nelle iscrizioni universitarie, perché il settore della cooperazione non è più percepito come desiderabile non solo per questioni economiche e di contributo al PIL ma anche per mancanza di riconoscimento sociale. Questa situazione rappresenta uno spartiacque non solo per l’amministrazione pubblica ma per tutto il comparto del sociale, perché anche altri settori che pur ingaggiano meno persone della cooperazione sociale sono andati in crisi perché faticano a rinnovare i contratti. I segnali di agitazione attuali mostrano la consapevolezza di trovarsi in un percorso rischioso, ma rappresentano anche l’unica strada percorribile per riportare al centro il dibattito sul lavoro sociale e per costruire modalità di confronto più assertive. Due anni fa, a questo proposito, abbiamo intitolato il nostro periodo assembleare proprio “Su la testa” per sottolineare la necessità di ripartire con maggiore sicurezza, pur nella consapevolezza delle difficoltà che ci aspettano. Il clima un po’sdolcinato che c’è sempre stato con la pubblica amministrazione, che definiva la cooperazione sociale come la spina dorsale del Paese e un alleato fondamentale, adesso si è trasformato in un certo fastidio anche perché le richieste di maggiore riconoscimento influiscono negativamente sul consenso politico. Ma questa fase di conflittualità suscita preoccupazione da entrambe le parti, perché anche per la cooperazione sociale l’amministrazione locale è sempre stata una culla di sicurezza. E d’altra parte però le cooperative che stanno performando meglio e innovando di più sono soprattutto quelle che si stanno lanciando con successo sul mercato, dimostrando che è possibile ottenere buoni risultati anche al di fuori dei legami e modelli tradizionali.

 

Abbiamo già toccato parzialmente il tema della formazione e delle nuove generazioni, ma entriamo ora più nello specifico. La cooperazione sociale ha dei limiti quando si parla di intergenerazionalità, che poi si riverberano anche sulla difficoltà di rinnovarsi? Cosa si può fare per attirare maggiormente le nuove generazioni?

Stefano Granata: Di fatto la cooperazione sociale è nata come un movimento giovane – anche se oggi lo è meno, se non altro perché sono passati trent’anni – e nelle sue strutture ci sono ancora i fondatori, che spesso occupano ruoli predominanti e faticano a delegare le responsabilità o a rinunciare alla loro leadership. Per la mia generazione, la cooperazione sociale ha garantito un protagonismo unico e questo ha avuto un impatto notevole sulla sua evoluzione ma oggi rappresenta anche un limite strutturale perché riduce le possibilità di ricambio generazionale. Un secondo limite quando si parla di attirare i giovani riguarda la sostenibilità economica: le nuove generazioni, meno garantite rispetto al passato e più attente alla sostenibilità della retribuzione, trovano difficile accettare salari che, sebbene piuttosto competitivi all’ingresso, rimangono fissi e non offrono percorsi di carriera con prospettive di crescita economica, e questo rappresenta un problema significativo già durante la fase di colloquio. Un terzo limite, a mio avviso il più cruciale, è quello del riconoscimento sociale. Trent’anni fa, chi sceglieva di lavorare nel settore della cooperazione sociale godeva di stima e rispetto per il suo impegno verso il bene comune, mentre oggi questo lavoro è spesso considerato come un ripiego, poco ambito e non particolarmente prestigioso. Questo si riflette già nelle scelte formative, in cui vediamo un numero sempre minore di persone che intraprendono studi e percorsi funzionali a inserirsi nell’ambito educativo e assistenziale. Inoltre, attualmente il nostro Paese sembra stia facendo affidamento sul mondo dell’immigrazione per coprire le necessità in questi settori ma questa forma di affidamento rischia di essere un’illusione e una scelta di breve termine, poiché anche gli stranieri potrebbero presto rifiutare tali lavori se non vengono adeguatamente valorizzati. I giovani, dunque, necessitano di prospettive future, di protagonismo e di riconoscimento economico. Senza affrontare e risolvere questi tre aspetti lavorare nel settore della cooperazione sociale rischia di diventare un lusso inaccessibile a molti.

Stefano Granata

Quali sono stati gli spunti più interessanti venuti dal dibattito che si è svolto alla Convention CGM e cosa ci consegna di positivo questo evento per il futuro della cooperazione sociale?

Stefano Granata: Un aspetto particolarmente rilevante riguarda a mio avviso i modelli organizzativi di lavoro, soprattutto in relazione ai giovani. Oltre agli elementi già discussi, è necessario concentrarsi sulla flessibilità e sulla consapevolezza che il lavoro non è tutto nella vita. La vera chiave di volta è che la cooperazione sociale dovrebbe diventare più consapevole di disporre di modelli organizzativi efficaci non solo per il settore stesso, ma per un’ampia gamma di situazioni, perché sono in grado di accompagnare e accogliere le persone in difficoltà ma optando verso una loro valorizzazione, coinvolgendo anche coloro che magari non hanno il set di skill richiesto per essere inseriti in certi processi di lavoro, e svolgendo una funzione di accompagnamento per le persone più fragili. In relazione alla Convention di CGM, dunque, le sessioni più rilevanti sono state quelle dedicate al lavoro e alla valorizzazione delle risorse umane, un aspetto che nella cooperazione sociale è stato spesso dato per scontato mentre è fondamentale che il modello organizzativo metta al centro la persona trasformandosi per rispondere meglio alle esigenze umane. Un altro tema è l’inclusione lavorativa di quelle realtà che rappresentano la migliore spinta verso l’innovazione come le cooperative che lavorano sulle transizioni digitali e ambientali, che stanno trovando risorse e opportunità per lo sviluppo, dimostrando che il settore può continuare a evolvere per rispondere alle sfide attuali. Questa è una grande opportunità per la cooperazione sociale, simile a quella di trenta o quarant’anni fa quando il settore ha costruito risposte per i più fragili all’interno delle comunità. Oggi dentro le fragilità che emergono dalle profonde transizioni in corso è necessario ritrovare il protagonismo nell’innovazione per lo sviluppo della comunità che sia ovviamente inclusivo, perché questa resta la matrice della cooperazione sociale.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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