Il futuro dei trasporti: “Driver” a Genova
- 21 Febbraio 2020

Il futuro dei trasporti: “Driver” a Genova

Scritto da Tommaso Brollo, Arianna Papalia

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«Se l’Impero era gli Eagles, il Veuve-Clicquot, Reagan, “Il Padrino” e Robert Redford, il post-Impero era “American Idol”, l’acqua di cocco, il Tea Party, “The Human Centipede” e Shia LaBeouf. Mentre le aspettative diminuivano ovunque, ci si sbarazzava del decoro dell’Establishment»
(Bret Easton Ellis, Bianco, 2019)

L’imperialregia monarchia austroungarica guardava con sospetto alla macchina a vapore. La ferrovia, così si ragionava all’Hofburg, non trasportava solo beni o persone, ma soprattutto “l’ideologia socialista”, quindi lo sviluppo della rete ferroviaria doveva essere graduale, misurato, governato. La Germania bismarckiana, d’altro canto, forte dell’ordine sociale che trova la sua epitome nel patto tra il grano e l’acciaio, riconosceva nella logistica ferroviaria e portuale uno strumento fondamentale per la propria proiezione di potenza e per le proprie industrie pesanti. Sulle traversine si costruì l’ethos nazionale degli Stati Uniti, civilizzazione e conquista degli spazi immensi del Nuovo Mondo, ciò che per la Russia sovietica fu l’elettrificazione del Paese e la massiccia espansione della rete ferroviaria per quella zarista. Anche Cavour fondò la sua azione politica e la preminenza piemontese rispetto agli altri Stati della Penisola sulla capillarità della sua rete ferroviaria, integrata con il porto di Genova e i mercati d’Oltralpe, sì da fare della piccola monarchia subalpina un tassello importante delle reti commerciali (e quindi politiche) europee.

Muovere merci e persone, dunque, ma non solo: ora come allora, il settore dei trasporti è profondamente intrecciato con la proiezione estera della politica e dell’economia nazionali, contribuisce a definire l’identità di un Paese, ne determina le traiettorie di sviluppo. In un mondo che sta affrontando un rapido e confuso cambio di paradigma, politico, sociale ed economico, i trasporti sono uno degli ambiti che più risente sia del ritmo sia dell’intensità di questi rivolgimenti. Riconoscendo la complessità della fase e la necessità di saperne analizzare le determinanti principali, al fine di poterle comprendere, afferrare, governare, a quarant’anni dalla sua fondazione la Federazione Italiana dei Lavoratori dei Trasporti della Cgil si è dotata di un attivo dipartimento di formazione, studi e ricerche che, il 12 e 13 dicembre 2019, ha promosso una due giorni di studio a Genova, intitolata Driver: il futuro dei trasporti, a cui gli autori di questo resoconto hanno partecipato in quanto redattori di Pandora Rivista. Giocando sulla polisemia del termine inglese, il dipartimento guidato da Cecilia Casula ha voluto declinare il tema delle dinamiche che toccano il settore lungo quattro assi portanti, profondamente interconnessi, quali la geopolitica e la geoeconomia, l’innovazione tecnologica, la sostenibilità ambientale e il cambiamento sociale, demografico e insediativo. Argomenti analizzati e discussi con profondità e attenzione dai delegati sindacali e dagli ospiti esterni nei vari momenti di confronto che si sono susseguiti nei due giorni. Una profondità analitica di cui daremo contezza ampiamente nella seconda e terza parte dell’articolo e che restituisce l’immagine di un sindacato che sta guardando alla complessità del presente con l’intento di comprenderla e così governarla. Questa situazione sembra porte sfide nuove al sindacato, al di là della contrattazione sul salario, che pure resta fondamentale, l’ambito del dialogo sociale va ampliato includendo nel confronto anche tematiche come gli investimenti in adeguamenti tecnologici e formazione, la riduzione dell’orario di lavoro e la tutela da tutta una serie di rischi crescenti derivanti dall’instabilità geopolitica.

 

I driver fondamentali della complessità 

La prima parte dell’iniziativa Driver si è svolta presso il Circolo Autorità Portuale e Società del Porto di Genova, lo scorso 12 dicembre. Coordinati dalle due promotrici dell’iniziativa Cecilia Casula, responsabile del Dipartimento Formazione, Studi e Ricerche Filt Cgil, e Chiara Mancini, i quattro esperti designati dal Dipartimento hanno illustrato alla platea le implicazioni dei quattro driver nelle prospettive di sviluppo italiano. L’esercizio di riflessione sulla complessità delle trasformazioni in atto e la necessità contestuale di iniziare a discuterne all’interno del sindacato è il frutto dell’esigenza, avanzata dal segretario nazionale Stefano Malorgio, di impostare un impianto teorico sindacale nuovo, più solido, capace di affrontare con più efficacia le sfide future di un mondo del lavoro in continuo mutamento, anche per effetto dei driver individuati. Di seguito, dunque, un breve resoconto dei quattro interventi durante la plenaria dell’iniziativa.

In un mondo che, seppur accenna a “de-globalizzarsi”, è ancora strettamente interconnesso, la geopolitica gioca un ruolo cruciale. Giorgio Cuscito, consigliere redazionale di Limes e curatore del Bollettino Imperiale sulla Cina “Dibao”, ha interpretato per l’assemblea questo primo vettore del cambiamento. Cuscito ha definito la geopolitica come la movimentazione dei principali protagonisti internazionali – gli Stati – in un determinata area geografica e in un determinato periodo temporale con il fine ultimo di concretizzare ognuno la propria strategia nazionale. Ogni Stato si muove, pertanto, sullo scacchiere mondiale spinto dai propri interessi nazionali impiegando tutta una serie di tattiche – l’insieme delle modalità che permettono di mettere in atto la strategia stessa – per assicurarsi la sopravvivenza. L’introduzione terminologica del collaboratore di Limes è strumentale per la comprensione del quadro geopolitico: dall’analisi di Cuscito emerge sullo scenario mondiale una prorompente potenza americana che sembra in ultima istanza avere come strategia il mantenimento della propria egemonia internazionale. A minacciarla si dispongono sullo scacchiere rispettivamente il nemico storico – la Russia – e la nuova potenza emergente – la Cina. La battaglia per l’accaparramento di porzioni di potere si gioca attraverso tattiche diverse: lo sconto economico-finanziario (si veda guerra dei dazi), il controllo delle infrastrutture (l’America controlla gli oceani, una vera e propria talassocrazia, ma la Cina, per ovviare a questo limite strategico, concepisce un nuovo piano infrastrutturale, ovvero la “Belt and Road Intitiative”), lo sviluppo tecnologico (si veda la corsa per il 5G o la nuova guerra sui brevetti). In questo macrocontesto internazionale, qual è il ruolo dell’Europa, quale quello dell’Italia? Interrogativi del genere sono essenziali, non solo nella definizione della strategia nazionale, che pure sembra molto debole negli ultimi anni, ma sono essenziali per un posizionamento geopolitico e geoeconomico strategico che protegga da eventuali rischi alcuni cruciali comparti economici del Paese.

La definizione del secondo driver e l’evocazione di come esso possa modificare l’evoluzione dei paradigmi di sviluppo è affidata a Lorenzo Basso, co-founder e Direttore Business Development di MESA Group, azienda che si occupa di consulenza manageriale e innovazione tecnologica. Basso ha delineato i contorni di una quarta rivoluzione industriale definita da tre concetti chiave: complessità, velocità e interconnessione. In prima istanza, l’implementazione delle tecnologie che si stanno sviluppando possiede un grado di complessità che non tutte le risorse umano di cui il settore dispone al momento riescono a gestire, perché scarse o poco specializzate. Ne emerge la necessità di una formazione più ampia e più altamente qualificata. Stesso problema emerge nel controllo della velocità. Le tecnologie che ci circondano lavorano ad una velocità che è al di fuori della nostra portata, e riuscire ad anticiparla e ad amministrarla è ancora un obiettivo lontano. L’interconnessione, infine sarà la costante della rivoluzione 4.0, una capacità di comunicazione tra gli esseri umani, gli oggetti e il loro contesto che va ben oltre quello che finora abbiamo sperimentato. Quello che ne sarà è una crescita esponenziale, ha anticipato Basso, tuttavia, nella corsa per prepararsi a questa rivoluzione tecnologica, l’Italia si trova in una fase di smarrimento e stallo che Basso definisce così, mutuando la sua citazione da Gramsci: “Crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere, in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Quanto al terzo asse portante, ossia la sostenibilità ambientale, Stefano Lenzi, membro del comitato scientifico del WWF, ha rimarcato come il settore dei trasporti sia particolarmente rilevante per affrontare il cambiamento climatico. La crescente preoccupazione per la sostenibilità ambientale dell’attività economica della filiera dei trasporti non può essere ridimensionata: secondo il Politecnico di Torino, 1/3 del consumo energetico europeo e 1/4 delle emissioni di anidride carbonica sono legati al settore dei trasporti. L’approccio alla sostenibilità ambientale, tuttavia, come ha sottolineato Chiara Mancini, del Dipartimento Formazione, Studi e Ricerche della Filt, nella sua relazione d’apertura, non può essere una «questione di classe al contrario», in quanto la responsabilità di un cambiamento non può essere imputata al singolo individuo, bensì ad un’azione progettuale condivisa, che punti ad una riconversione sistemica dell’apparato produttivo. Questo asse di complessità appare quindi inscindibile dall’innovazione tecnologica, per evitare che, citando sempre Mancini, «la strada per la sostenibilità si trasformi in una macelleria sociale, in una contrapposizione tra lavoro e ambiente». Nondimeno, il tema della riduzione in termini quantitativi dei trasporti, specie a lungo raggio, sarà uno degli elementi che il sindacato dovrà prendere in considerazione, sia a seguito dei processi di de-globalizzazione, sia in risposta ad una ristrutturazione del sistema produttivo in chiave sostenibile, il che implica una minor dispersione della filiera produttiva e diverse abitudini di consumo. D’altro canto, se il trasporto di merci a lungo raggio potrebbe subire una riduzione quantitativa, la sostenibilità ambientale implica una maggior attenzione al trasporto pubblico locale, specie su ferro.

Da ultimo, Matteo Colleoni, docente all’Università di Milano Bicocca, ha rilevato come uno degli assi portanti delle future dinamiche demografiche sarà il fenomeno che ha definito di periurbanizzazione. Non si tratta del già noto inurbamento della popolazione delle campagne, con i conseguenti problemi che derivano dalla formazione di vasti agglomerati urbani e dalla gestione dei quartieri-dormitorio e delle periferie all’interno del tessuto urbano, ma del fatto che i cittadini tendono ad abbandonare le città, divenute spesso troppo costose o invivibili, in favore dei comuni periurbani. Per intenderci: non più Gratosoglio o Rogoredo, ma Pavia o Lodi o persino, con l’alta velocità, Brescia. Questo fenomeno ha due conseguenze immediate: la prima è in capo alle città dove risiedono i lavoratori che gravitano attorno ad un centro maggiore, che perdono progressivamente la propria autonomia e identità a favore della prima: la seconda, che migliaia di persone pesano sulla città-hub e sulle sue infrastrutture. Il centro attrattivo, come una fisarmonica, si espande e si contrae ogni giorno (per Milano si parla circa di un milione e mezzo di persone in più durante il giorno), unitamente alle reti di trasporto locale e a quelle suburbane, che si estendono (o dovrebbero estendere) fino a comprendere città esterne alla cintura urbana. Così Milano si allunga da Sondrio a Pavia, Bologna fagocita la via Emilia, Firenze estende la sua longa manus ben al di là dell’usuale contado, abbracciando tutta la Val d’Arno. La morfologia della città contemporanea muta, diventa un meta-hub di cui è impossibile definire i confini. Questo chiama ad una domanda di mobilità completamente diversa, sia per le persone, sia per le merci: i grandi agglomerati urbani, infatti, necessitano di una rete che riduca il ricorso all’auto privata da un lato e, dall’altro, si situano lungo percorsi di transito delle merci che non sono più nazionali, ma continentali: per prendere sempre l’esempio di Milano, l’asse di trasporto rilevante è quello tra il nucleo metropolitano di Genova, con il suo porto, e il Nord Europa.

 

Tra Washington e Pechino: le sfide del mondo nuovo           

Come si può intuire dalla citazione che abbiamo scelto ad esergo di questo articolo, per la letteratura americana contemporanea, per Bret Easton Ellis così come per David Foster Wallace e molti altri, viviamo già nel post-Impero, inizia la decadenza della pax Americana, arrivano «les barbares blancs». Di fronte a questo radicale cambio di paradigma, di fronte al ruolo diverso che gli Stati Uniti stanno assumendo, di fronte a una Cina più incline a proiezioni egemoniche e alle incertezze dell’Unione Europea, alla paura pratica i più sommano, per dirla con Marx, lo sconcerto teorico. Tracciare un profilo geopolitico della situazione attuale è quindi un’operazione che vuole affrontare entrambi questi timori, prendendo le mosse in particolare da un rinnovato sguardo teorico al presente. Tale è l’approccio che abbiamo cercato di mantenere durante il tavolo “Geopolitica e Geoeconomia” del 13 dicembre, insieme a Giorgio Nannetti, consulente aziendale, e ad Alberto Belladonna dell’ISPI, che ha moderato il dibattito. In quanto segue vorremmo descrivere questo mondo nuovo partendo dal commercio mondiale, soffermandoci in specie sugli squilibri che caratterizzano le partite correnti della maggior parte dei Paesi del primo mondo e le politiche di ambito commerciale seguite dagli Stati Uniti d’America.

È necessario muoverci su di un livello di astrazione diverso, in cui cercheremo di tracciare i doverosi collegamenti tra la dinamica delle partite correnti, i flussi di capitale, e il governo dell’economia. Ora, non vi è che una sola posizione di razionalità economica quando parliamo di regolamenti internazionali, ossia l’equilibrio delle partite correnti. Per un dato tasso di cambio, tanto importo, tanto esporto, tanto compro, tanto vendo, tanto m’indebito sull’estero, tanto ottengo crediti sull’estero. Una posizione di surplus strutturale è uno squilibrio tanto quanto una posizione di deficit, uno squilibrio sia per il Paese in questione sia per il sistema internazionale nel suo complesso. Una posizione di surplus strutturale significa che sto accumulando crediti nei confronti del resto del mondo, crediti che sono strutturalmente inesigibili, in quanto non compio l’unico dovere economico del creditore. Questo dovere non consiste nell’imbastire improvvidi giubilei debitori, quanto nel mettere il debitore in condizioni di poter pagare. Come? Nel caso del commercio, spendendo questo credito attraverso un’espansione, investendo nella propria economia, in consumo e in capacità produttiva ulteriore. Un Paese in surplus strutturale ha scelto di condurre la sua attività economica sulla base di un principio che potremmo addirittura definire non macroeconomico, ciò che Keynes, in un bellissimo articolo pubblicato sull’Irish Quarterly Review nel giugno 1933, chiamava «una specie di parodia dell’incubo di un contabile». Un principio che, in ultima analisi, danneggia il Paese stesso, in quanto la compressione della propria domanda interna, specie se si manifesta come carenza d’investimenti, porta le strutture produttive a dipendere dall’export e quindi dalla volubilità dei partner commerciali. Vedere alla voce Germania, giusto per intenderci su cosa significhi uno Stato con un surplus commerciale enorme, che non investe al suo interno e ora sta rallentando vistosamente assieme ai suoi export. D’altro canto, un Paese strutturalmente in deficit commerciale non può certo pensare di vivere indefinitamente in questa condizione: la sua struttura produttiva è inesistente o si articola su scala ridotta, dipende strutturalmente dall’afflusso di capitali stranieri per mantenere una minima parvenza di stabilità del cambio, compensando il profondo rosso delle partite correnti con una passività consistente del conto finanziario. Ciò non solo non permette una crescita dell’apparato produttivo, ma espone il Paese alla dipendenza dalle volubilità dei movimenti di portafoglio, come la fuga di capitali italiani a seguito della crisi dei debiti sovrani ha ampiamente dimostrato.

Questa premessa è necessaria per tornare su di un terreno forse più congeniale e descrivere come, a partire dal crollo del sistema di Bretton Woods, il commercio mondiale si sia retto su un ruolo peculiare degli Stati Uniti quali consumatori di ultima istanza, un ruolo che potrebbe, nel prossimo futuro, venire meno, specie per via delle spinte interne dei perdenti della globalizzazione, oltre che per la riarticolazione dell’Alleanza atlantica.

Finora non abbiamo fatto altro che parlare di equilibrio commerciale, di come questo definisca i vincoli esterni fronteggiati dagli Stati, ma già dall’inizio si notava come questa sia una storia di squilibri. Dove sta il problema, dunque? Il vulnus sta nel fatto che il sistema economico attuale, nelle sue caratteristiche istituzionali, riposa su quello che potremmo definire uno squilibrio originario che è necessario e funzionale al sistema dei pagamenti internazionale. 1944, Bretton Woods: in una stazione termale sulla East Coast degli Stati Uniti, posto altrimenti dimenticabile ed effettivamente dimenticato, si decide l’ordinamento monetario per il Dopoguerra. Nonostante le insistenze di Lord Keynes, passa il piano americano di Harry D. White, che assegna al dollaro una funzione di preminenza. È una fotografia dei rapporti di forza nel mondo occidentale, un’asimmetria che, tuttavia, già presenta i sintomi che porteranno alla sua fine: l’«esorbitante privilegio» del dollaro, come sentenziava Valéry Giscard d’Estaing, scava progressivamente una voragine nei conti con l’estero degli States, che però sostiene la crescita dei Trenta Gloriosi, serve la ripresa europea, determina, nella regolamentazione della circolazione dei capitali, una massiccia crescita del commercio. Nel 1971 Nixon, in piena guerra del Vietnam, col bilancio dello Stato che annaspa, annuncia al mondo che non intende onorare la convertibilità del dollaro in oro, mettendo fine unilateralmente al sistema di Bretton Woods. Scompare il sistema dei cambi a geometria variabile, entriamo nel nostro mondo, quello dei cambi flessibili sul mercato e dei movimenti di capitale. Il deficit americano nei confronti del resto del mondo non si riduce con la fluttuazione del dollaro. Parallelamente all’affermarsi di una sempre più libera circolazione dei capitali, il dollaro è sempre più la moneta della finanza: non serve a comprare merci americane, ma è la valuta in cui i capitali sono intermediati in tutto il mondo. Questo ruolo peculiare del dollaro, che resta ancora, specchio della potenza statunitense, si fonda sull’essere la valuta principe dei regolamenti internazionali.

Da questa caratteristica strutturale del mondo post-Bretton Woods, quella che vede gli States definire la domanda globale attraverso il dollaro, si possono razionalizzare tanto i tentativi di reshoring delle produzioni manifatturiere, specie quelle strategiche, quanto le politiche protezioniste di Trump. Arriviamo così alla contemporaneità: gli Stati Uniti sono l’intermediario finanziario del mondo e, laddove non lo sono, gli altri negoziano e prezzano debiti e crediti in dollari, tenendo attività in dollari. La domanda di dollari è inesausta, così come la produzione di debito del sistema statunitense e il profondo rosso delle sue partite commerciali. Così gli States hanno mantenuto il loro dominio sul mondo occidentale, così potrebbero riarticolarlo a loro piacere. Non è da dimenticare, peraltro, un ulteriore elemento di riflessione: gli Stati Uniti sono diventati, recentemente, esportatori netti di petrolio. Vedere alla voce crisi della saudita Aramco, rapporti con l’Iran e via discorrendo, ma anche proiezione degli States nel “giardino di casa” latinoamericano, da cui sembra evidente non si vogliano disimpegnare. Con l’Europa che conferma le sue difficoltà nel progettare una propria strategia di sviluppo e con la Cina che non è (ancora) pronta a sostituire la domanda interna statunitense con alcunché di lontanamente simile.

Dall’altro angolo del globo la Cina gioca la sua partita in contropiede al Washington consensus, pur rivendicando la necessità di integrare l’ordine mondiale nato a Bretton Woods. E mentre gli Stati Uniti pongono loro stessi un cambio di tendenza al liberismo di mercato che avevano esportato, come è emerso, dando il via ad una tipologia di guerra dei dazi che cela il desiderio di contenimento della potenza cinese e l’addomesticamento della stessa sulle modalità di commercio internazionale, la Cina prova a divincolarsi dal contenimento americano, che è anche geopolitico, con un nuovo piano infrastrutturale di respiro imperiale: la Belt and Road Initiative o meglio nota come la Nuova Via della Seta. Con l’iniziativa la Cina mira al cuore dell’Europa, ma non solo, proiettando verso il continente la propria forza economica e il proprio surplus produttivo accumulato in seguito ad anni di crescita a doppia cifra. Il progetto che per terra e per mare punta a creare un corridoio infrastrutturale permettendo una movimentazione più fluida e veloce di beni, capitali, persone, servizi ed idee porta con sé opportunità enormi, ma anche criticità diverse, che dovrebbero essere tutte analizzate e contestualmente inserite in una strategia ad hoc.

In Italia quello che emerge in chiave geopolitica in merito all’iniziativa, al di là degli accordi e dei memoranda firmati, è lo stagliarsi di una grande zona d’ombra sulla penisola. Storicamente hub europeo nel Mediterraneo, piattaforma portuaria d’Europa, per dimensioni dei porti e un ritardo infrastrutturale che limita l’intera penisola nel raggiungimento dell’Europa centrale, l’Italia sta rischiando l’isolamento geografico a favore di altri porti, in cui la Cina sta massivamente investendo. L’aumento delle capacità in termini di movimentazione Teu di merci nel Mediterraneo, in seguito all’allargamento del Canale di Suez del 2010, non ha comportato un contestuale adattamento delle capacità attrattive dei porti italiani. Ne consegue un potente investimento della Cina in porti come il Pireo (Grecia), Marsaxlokk (Malta), o il porto di Tangeri (Marocco), per ovviare alla fuga delle merci dall’Oriente (il 44% del totale) via stretto di Gibilterra.

Ma l’oscuramento geopolitico non è l’unica questione da tenere in considerazione. Come ricorda Giorgio Nannetti, la crescita economica cinese e la sua conseguente capacità finanziaria vengono spesso proiettate sul continente africano, lasciato al proprio destino dalle politiche di sviluppo europeo. La Cina trova ampio spazio di manovra in Africa per realizzare tutta una serie di investimenti infrastrutturali e se gli investimenti concorrono a porre i paesi africani in una condizione di dipendenza nei confronti della Cina, le migliaia di borse di studio concesse alle nuove generazioni posso in prospettiva avvicinare le nuove classi dirigenti locali alla cultura e agli interessi cinesi.

Come si pone l’Italia, alle porte dell’Africa e bisognosa di investimenti infrastrutturali, in questo contesto? Come ne trae vantaggio? Nannetti ribadisce la straordinaria capacità adattiva delle aziende italiane nella contrattazione e nella collaborazione economica con le omologhe cinesi. Il valore competitivo delle imprese italiane (piccole e medie per formulazione genetica) è la capacità di trovare soluzioni rapide e destrutturate in situazioni complesse e difficoltose. Facendo leva su questi valori di adattamento dell’imprenditoria italiana, e più in generale del carattere dell’italiano, i margini di collaborazione con la Cina potrebbero e dovrebbero ampliarsi, solo e soltanto, però, in seguito a quello che ci è sembrata una costante della due giorni: in seguito al delinearsi di una strategia nazionale che sia il risultato di un’attenta valutazione dei rischi e delle opportunità di collaborazione con la Cina e una conseguente formulazione di una strategia che posizioni l’Italia sullo scacchiere geopolitico al sicuro da un eventuale strumentalizzazione dell’Italia stessa in un confronto Usa-Cina.

 

Conclusioni

In un contesto politico che fatica a delineare obiettivi di medio-lungo termine, la due giorni della Filt Cgil è stato un insolito esercizio di lungimiranza. La necessità, più volte ribadita dal segretario Stefano Malorgio, di avviare un dibattito interno al sindacato in una congiuntura storica quale quella in cui ci troviamo, è il sintomo di una matura disposizione all’adattamento e alla mutazione genetica, essenziale se consideriamo la trasformazione del paradigma economico e, contestualmente, del concetto di “lavoro”. Condurre una riflessione, approfondita, strutturata, di alto livello, serve, secondo Malorgio, per creare un “impianto teorico forte” capace di resistere agli urti di una rivoluzione in atto di cui non conosciamo ancora gli effetti.

Il sindacato, e in questo caso la Filt Cgil, si prepara ad affrontare le sfide del futuro e lo fa anche rendendosi permeabile agli influssi esterni. La percezione è quella di un sindacato che cerca di individuare e disegnare non solo gli strumenti contrattuali, ma anche le soluzioni non contrattuali più utili per poter migliorare la vita dei lavoratori. In questa riflessione sulla complessità della fase, che vuole essere teoricamente densa, si può quindi cogliere, in nuce, non solo il futuro dei trasporti, ma anche, e forse soprattutto, un tentativo di ripensare il futuro dell’organizzazione del lavoro.

Scritto da
Tommaso Brollo

Nato nel 1993 a Tolmezzo (UD). Ha conseguito la laurea magistrale in Economia e Scienze Sociali all'Università Bocconi di Milano. Si interessa principalmente di storia economica e del pensiero economico, ma non disdegna di spaziare all'attualità.

Scritto da
Arianna Papalia

Giornalista praticante e sinologa. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze internazionali con indirizzo China and Global Studies all’Università di Torino e alla Beijing Foreign Studies University di Pechino. Collabora con giornali, riviste e programmi televisivi.

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