Il lavoro e la cooperazione sociale. Intervista a Giulia Casarini
- 12 Giugno 2025

Il lavoro e la cooperazione sociale. Intervista a Giulia Casarini

Scritto da Giacomo Bottos

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Giulia Casarini è Presidente Cadiai Cooperativa Sociale.


Cadiai nasce nel 1974, in un periodo fortemente creativo ed espansivo per la cooperazione sociale, quando a fronte dell’emergere di nuovi bisogni e nuove sensibilità si strutturano nuove forme di risposta. Si tratta dunque di una storia paradigmatica rispetto alle tendenze e alle svolte che, nel suo complesso, la cooperazione sociale ha attraversato? Può ripercorrerla brevemente fino a riflettere sulla situazione attuale?

Giulia Casarini: Occorre premettere che la cooperazione sociale viene normata come tale solo negli anni Novanta. Tutte le realtà di questo tipo che nascono tra gli anni Settanta e Ottanta vengono quindi fondate come cooperative di produzione e lavoro. Non è un aspetto da dimenticare: è proprio a partire dall’organizzazione del lavoro che si inizia a immaginare i servizi e a qualificare le persone, per la maggior parte donne, in percorsi che vedono anche una componente importante di supporto alla loro autonomia. Si cerca infatti, fin da subito, di qualificare il lavoro di cura come lavoro formato e professionale, e non residuale e lasciato alle donne in quanto donne. Negli anni Settanta Cadiai, ad esempio, organizzava corsi di formazione per le proprie lavoratrici ai quali il settore pubblico chiedeva di iscrivere le proprie dipendenti, e questi servizi servivano anche come strumenti di emancipazione. Al tempo stesso la cooperazione sociale svolge e ha sempre svolto una funzione pubblica fondamentale; all’epoca il dialogo con il pubblico si basava su una forte necessità e allo stesso tempo volontà condivisa di costruire congiuntamente un insieme di servizi alla persona e di rafforzare il tessuto sociale. Poi questa spinta si è trasformata, confluendo in un ambito più regolamentato, che se da un lato ha consentito di regolare e strutturare meglio i servizi, ha anche ridotto il dialogo pubblico-privato principalmente a un rapporto di committenza e gestione. Oggi la riflessione che viene svolta in molte sedi va nella direzione di una cooperazione che torni ad essere e ad essere riconosciuta partner attivo del settore pubblico, piuttosto che mero gestore ed erogatore di servizi. Il rischio, se non si recupera questa dimensione, è quello di perdere la vocazione innovativa della cooperazione sociale, che non è solo innovazione tecnologica o di strumento, ma è anche innovazione di processo, di lettura dei contesti, di pensiero. Un esempio, facendo riferimento ancora a quegli anni, è il riconoscimento da parte del Ministero del Lavoro, all’epoca presieduto da Tina Anselmi, della figura dell’assistente domiciliare che precedentemente non esisteva come figura professionale. Questo riconoscimento fu dato in un primo momento solo a Cadiai e poi, a partire da qui, fu formalizzato a livello nazionale diventando la professione che oggi tutti conosciamo.

 

La categoria di economia sociale è utile dalla vostra prospettiva? È un contesto in cui vi ritrovate?

Giulia Casarini: Secondo noi si tratta di una categoria molto utile, che ha il pregio di far riferimento ad un contesto economico in senso pieno. Spesso la cooperazione sociale viene invece erroneamente concepita come una nicchia, come uno spazio residuale ai margini del tessuto economico. In realtà si tratta di economia e di economia sana, che crea fatturato e lavoro. Occorre tuttavia definire con chiarezza cosa si intende quando si parla di economia sociale. Non può essere intesa, come spesso capita anche nel nostro settore, soltanto come ciò che riguarda “il sociale”, perché anche chi non si occupa di sociale in senso proprio ha un impatto sulla società e ha la capacità di mettere in campo azioni a supporto del sociale e del territorio. Pensiamo, ad esempio, al welfare aziendale o alla filantropia. Come cooperazione sociale dobbiamo interrogarci maggiormente su questi aspetti e capire come affrontare e interiorizzare questa riflessione. Anche il rapporto con realtà che si situano all’esterno del perimetro dell’economia sociale è necessario, perché la società sta correndo verso una complessità maggiore e i perimetri stabiliti di un tempo oggi non reggono più. L’innovazione in questo momento avviene, del resto, nel dialogo tra realtà diverse e dalla natura multiforme. Un esempio ne sono le fondazioni che promuovono e sostengono percorsi sui territori. Su questo punto Cadiai ha sperimentato collaborazioni con fondazioni di varia natura, siano esse locali come Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna o nazionali come Fondazione con i Bambini, portando in queste sperimentazioni uno spaccato variegato di tutti gli attori che possono essere coinvolti quando si parla di economia sociale, dalle associazioni a realtà come Opificio Golinelli o CINECA. È fondamentale che da questi dialoghi emerga una maggiore chiarezza sul ruolo evolutivo della cooperazione sociale e che tutti gli attori coinvolti comprendano cosa significhi essere una cooperativa.

Un tema cruciale in questo contesto è la co-programmazione, che sta guadagnando sempre più importanza. Tuttavia, esiste una certa difficoltà nel partecipare a questi tavoli di co-programmazione, poiché il dialogo può risultare complesso quando non sono chiare le esigenze, le potenzialità e le problematiche di ciascun attore. Dando per scontato che la co-programmazione sia davvero condivisa, ad ogni attore in campo occorre riconoscere la propria natura e impostare il rapporto in maniera conseguente, distinguendo se si tratta di volontariato e di soggetto economico e professionale. In base a ciò è necessario il riconoscimento di competenze specifiche e di professionalità e quindi anche il relativo riconoscimento economico se si tratta di realtà economiche come la cooperazione sociale. È fondamentale tenere conto di queste differenze per garantire la sostenibilità di tali strumenti. In sintesi, è essenziale comprendere quali soggetti fanno parte dell’economia sociale, quali regole di ingaggio devono seguire e quali prospettive possono offrire. Solo così potremo garantire il funzionamento efficace di questo sistema e la sua positiva evoluzione.

 

Che valutazione date al percorso del Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna? In che modalità siete stati coinvolti? È stato utile per lo sviluppo di forme di partenariato?

Giulia Casarini: Siamo stati coinvolti in diversi tavoli di lavoro e diamo merito alle istituzioni che ci hanno invitato a partecipare a questo percorso. Riteniamo che iniziative di questo tipo siano fondamentali per promuovere l’innovazione sociale ed economica del nostro territorio. È, inoltre, importante che il Piano sia strettamente connesso con le politiche del lavoro, come avviene in Regione Emilia-Romagna attraverso il Patto per il Lavoro e per il Clima, che dialoga con la dimensione dell’economia sociale.

Quando parliamo di economia e di soggetti economici, è inevitabile dover affrontare anche il tema del lavoro. Questa correlazione è cruciale per chi opera nel settore sociale, poiché stiamo vivendo una grave carenza di personale. Questo problema assume dimensioni significative non solo per motivi demografici, dato che i giovani sono sempre meno presenti nel mercato del lavoro, ma anche per questioni di attrattività che si possono sintetizzare, da un lato, in retribuzioni medio-basse – anche se recentemente i contratti hanno visto un incremento – dall’altro in una opinione pubblica che non riconosce a sufficienza il valore sociale di queste professionalità. Ad esempio, perché un operatore socio-sanitario (OSS) in un ospedale è percepito in un certo modo, mentre in una residenza sanitaria assistenziale (RSA) in un altro? Le mansioni sono le stesse, la professionalità è la medesima, ma la percezione cambia. Pertanto, le politiche del lavoro, intese come percorsi formativi, pieno riconoscimento del lavoro in tutte le sue dimensioni, rivestono un’importanza fondamentale per l’economia sociale.

È altrettanto cruciale la relazione con il settore pubblico: è necessario che le istituzioni dialoghino e facilitino la comunicazione tra i vari attori, evitando la frammentazione e promuovendo una maggiore sostenibilità. Inoltre, è importante considerare il contesto in cui si svolgono le attività. Progettare senza la certezza di avere risorse e interlocutori stabili, ad esempio in caso di cambiamenti politico-amministrativi, non è affatto semplice. Se non c’è garanzia che un percorso inizi e prosegua, il rischio è che si creino iniziative temporanee, destinate a durare solo pochi anni e di scarso impatto sociale. In questo dibattito, che si svolge a livello metropolitano, è emersa la necessità di prestare attenzione anche alle aree al di fuori della città. Da un lato, affrontiamo il problema dello spopolamento, dall’altro, i servizi offerti non sono sostenibili. Le zone dell’Appennino, in particolare, richiedono un’attenzione speciale per garantire che i servizi siano adeguati e accessibili.

 

Tornando al tema della co-programmazione e della co-progettazione, possono essere questi gli strumenti per rafforzare il rapporto di partenariato col pubblico?

Giulia Casarini: Ritengo di sì, ma è necessario capire come questa opportunità viene applicata e declinata. È importante sottolineare le differenze significative tra co-programmazione e co-progettazione, in particolare per quanto riguarda il rispetto delle normative. In alcune situazioni, le differenze sono necessarie, mentre in altre derivano da interpretazioni specifiche. Questo può rappresentare un problema, poiché il contesto evolve e diventa difficile operare quando i parametri di riferimento possono cambiare. È essenziale inoltre chiarire quali attività possono essere considerate co-programmabili o co-progettabili, evitando di generalizzare e affermare che la co-programmazione sia adatta a ogni situazione; è necessario dettagliarla con precisione. Quali tipologie di servizio o attività sono co-progettabili, in che modo e fino a che punto?

Un altro aspetto importante è che la co-programmazione implica una cessione di potere da parte di tutti gli attori coinvolti. Una cooperativa deve mettere in gioco le proprie competenze, assumendosi il rischio che possa non esservi un ritorno. D’altro canto, il settore pubblico deve essere disposto a rinunciare a una parte del suo controllo sulla gestione, pur mantenendo il ruolo centrale. La quantità di risorse e competenze che ciascun attore decide di investire dipende dalla sua valutazione riguardo al riconoscimento della propria competenza e del suo ruolo economico all’interno del contesto. In questo periodo culturale e sociale che stiamo vivendo, è fondamentale che ci siano dei presupposti chiari. Se esiste un ente o un tavolo che garantisce la “cessione” di potere e la fiducia reciproca, questo può facilitare il raggiungimento di importanti obiettivi comuni.

 

Torniamo al tema del lavoro, quali sono le azioni che l’attore pubblico può compiere per sostenere un modello che ne migliori la qualità?

Giulia Casarini: Ritengo sia necessario rivedere i modelli di servizio attuali, che siano gestiti dalla cooperazione o dal settore pubblico. Molti di questi modelli non sono più adeguati a rispondere ai nuovi bisogni emergenti, e continuiamo a investire risorse e personale in forme di assistenza che appaiono obsolete e parziali, nella risposta verso il cittadino, e con una organizzazione del lavoro frammentata e faticosa che rende alcuni ambiti di intervento poco attrattivi. Ad esempio, se per svolgere sei ore di lavoro è necessario essere disponibili per dodici ore a causa della mancanza di continuità oraria, questo non rende il lavoro appetibile. Si sente spesso dire che la cooperazione mantiene i lavoratori in part-time, generando così salari bassi, in particolare per le donne che sono la maggioranza delle lavoratrici del settore. È importante notare che in molti di questi casi è il modello di servizio attuale che prevede questa situazione. Ad esempio, un’addetta all’infanzia può avere un monte ore superiore alle trenta ore settimanali, ma rimane comunque in part-time. È fondamentale ripensare i servizi in modo da migliorarne l’efficacia; questa è una direzione che dovremmo perseguire con determinazione. In aggiunta, esiste un tema culturale che merita attenzione. Nei percorsi formativi, la cooperazione è spesso trascurata, poco conosciuta e raramente raccontata. Se il ruolo della cooperazione fosse integrato nei percorsi formativi, si renderebbe il curriculum più aderente alla realtà. Infatti, una parte significativa di chi affronta percorsi di studi rivolti al lavoro nei servizi potrà trovare occupazione nella cooperazione, ma approdandovi senza realmente sapere di che soggetto economico si tratti, che tipo di organizzazione abbia e che opportunità offra mentre probabilmente sarà entrato in contatto con pregiudizi secondo cui le cooperative offrono soltanto salari bassi e contratti part-time. Se riuscissimo a comunicare il valore politico e sociale della cooperazione, potremmo contribuire a una migliore comprensione delle nostre realtà e del nostro lavoro. Pertanto, è fondamentale agire su due fronti: sviluppare nuovi modelli di servizio e ripensare i percorsi di formazione.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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