“Il lavoro intellettuale” di Gianfranco Pasquino
- 23 Giugno 2024

“Il lavoro intellettuale” di Gianfranco Pasquino

Recensione a: Gianfranco Pasquino, Il lavoro intellettuale. Cos’è, come si fa, a cosa serve, UTET, Torino 2023, pp. 192, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Olivio Romanini

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«Qui e adesso, la notizia è che Il lavoro intellettuale mi pare davvero destinato a rimanere il mio ultimo libro. Non credo che ne scriverò altri, cosicché con questo sintetico saggio mi congedo dai miei lettori nella speranza che vogliano continuare a leggere, e apprezzare, anche i libri precedenti. Più non posso». Con queste parole, scelte con estrema cura, il politologo Gianfranco Pasquino firma il suo congedo dai lettori nell’ultima pagina de Il lavoro intellettuale (edizioni UTET), presentato lo scorso 26 febbraio a Bologna alla Libreria Coop Ambasciatori. Speriamo che si tratti di una bugia o di una mezza verità e che Pasquino, uno dei “mostri sacri” della Scienza politica italiana, torni a dispensarci insegnamenti e ammonimenti in qualche altro lavoro, consapevoli però che, se fosse davvero il suo ultimo libro, «nessun lavoro intellettuale ha mai veramente una fine» come scrive Pasquino stesso nelle pagine del libro. Ogni traiettoria intellettuale continua a produrre germogli in tante direzioni attraverso il lavoro di colleghi, allievi, studiosi che riprendono dal punto dove ci si è fermati, la storia delle idee non si arresta mai. E in ogni caso, proprio prendendo per buono il congedo dell’allievo di Norberto Bobbio e Giovanni Sartori, è necessario ancora di più provare ad analizzare e a capire in profondità questo suo «ultimo» lavoro dedicato agli intellettuali, al loro lavoro e al loro posto nel mondo. Pasquino stesso è stato ed è un intellettuale e inevitabilmente il libro percorre anche la sua lunga avventura umana e professionale: professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna, senior associate fellow alla Sais-Europe di Bologna, direttore della Rivista il Mulino dal 1980 al 1984, condirettore della Rivista Italiana di Scienza Politica dal 2010 al 2013 e autore di una sterminata produzione scientifica.

Nel mondo del giornalismo, attività che l’autore include tra i lavori intellettuali, circola da sempre la celebre frase secondo cui «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare», una battuta a effetto che nasconde tanti significati. Il primo e forse il più autentico è che fare il giornalista, anche se forse sarebbe meglio declinare il verbo al passato, può essere così gratificante e pieno di senso che non sembra nemmeno di lavorare. E questo naturalmente potrebbe valere per ognuna delle professioni intellettuali di cui parla Pasquino nel libro. Ma a volte quell’espressione significa anche che c’è chi fa il giornalista, o il commentatore, in maniera non proprio rigorosa, perché le parole sono importanti ma possono anche essere sempre aggiustate in qualche modo. Si può esprimere la propria opinione su ogni argomento senza essere particolarmente informati – vale soprattutto per gli influencer che Pasquino inserisce tra gli intellettuali e vale anche per gli assidui frequentatori di talk show – senza correre grossi rischi sulla propria credibilità: si veleggia a vista, ci si destreggia senza essere particolarmente preparati in niente, senza aver fatto “i compiti a casa”. Ecco, sgombriamo subito il campo da ogni possibile dubbio: l’intera produzione scientifica di Pasquino appartiene alla prima versione della frase perché di sicuro è stato profondamente appassionato delle cose di cui si è occupato e si è certamente divertito, soprattutto nella sua attività di insegnante e “predicatore”, ma non ha mai concesso nulla all’improvvisazione, non ha fatto sconti e non si è fatto sconti, ha applicato al suo lavoro il rigore dell’artigiano. Ed è per questo che, al di là degli aneddoti e della leggerezza con cui vengono raccontati alcuni passaggi, l’intellettuale di Pasquino, sospeso tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità di stampo weberiano, è una figura sempre estremamente rigorosa.

Venendo al libro, cominciamo con il dire che Il lavoro intellettuale è un libro importante, pieno di riferimenti e di simboli, uno di quei libri da lasciare sul comodino o sulla scrivania anche dopo averli finiti perché possono essere apprezzati sempre, per un piccolo aneddoto, per un riferimento o per un ricordo. Il libro è uno scrigno infinito di pensieri e considerazioni, una testimonianza civile e culturale delle tante scorribande intellettuali del professore. Ispirato al testo fondamentale di Max Weber Il lavoro intellettuale come professione – a sua volta ispirato alle conferenze pubbliche dedicate a La scienza come professione e a La politica come professione – contiene già nell’introduzione il pensiero forte di fondo: «Il lavoro intellettuale – scrive Pasquino – ha perseguito l’obiettivo di accrescere le conoscenze e le opportunità, le chances di vita (direbbe Max Weber) per il maggior numero di persone». Non bisogna cercare altro o altrove, questa è la missione sociale degli intellettuali, il loro compito fondamentale da perseguire nell’attività di ricerca e di insegnamento. Il libro è un caleidoscopio di riferimenti e chiama in causa molti dei grandi della storia delle idee e i primi nomi che troviamo, non a caso, sono quelli di Max Weber e di Albert Camus e tra gli italiani i primi nomi sono tre e soltanto tre: Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Leonardo Sciascia.

«Non si può scrivere senza leggere, sarebbe come fare il pane senza la farina». La frase di Bianca Pitzorno introduce il capitolo dedicato alla prima fondamentale attività degli intellettuali, quella del “leggere”. I riferimenti sono infiniti e spaziano nel tempo lungo della storia delle idee: Niccolò Machiavelli, ancora Pier Paolo Pasolini, Michel Houellebecq («Sono un autore, certo, ma sono soprattutto, nella mia vita, un lettore: ho passato molto più tempo a leggere che a scrivere»), Elias Canetti, Ray Bradbury, Charlie Chaplin, Ettore Scola, Mario Vargas Llosa, Woody Allen, Antonio Tabucchi.

Per Pasquino ci sono alcune letture fondamentali perché, per dirla con Giovanni Sartori, bisogna «avere la bibliografia in ordine» e gli intellettuali devono provare a «salire sulle spalle dei giganti» cioè devono poter riuscire a guardare molto più in là dei loro occhi grazie alle letture dei grandi che li hanno preceduti. L’autore del libro fa un esempio specifico del pericolo che deriva dal leggere solo i titoli e non i libri, chiamando in causa due opere fondamentali degli ultimi decenni: La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama e Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale di Samuel Huntington. Alzi la mano chi non ha mai sentito un intellettuale ironizzare sul fatto che la storia non era affatto finita o affermare che il pericolo ipotizzato da Huntington fosse esagerato? Pasquino direbbe che chi ha fatto queste affermazioni, con molta probabilità, non ha letto le due opere che nella loro complessità rappresentano “pietre miliari” per la comprensione dell’ordine politico mondiale e contengono anche analisi che si sono rivelate corrette. E ha letto, invece, solo i titoli. Solo che la realtà è un po’ più complicata di quello che dicevano i titoli delle due opere, pur chiaramente azzeccati.

Nell’analizzare invece l’attività principale di un intellettuale, quella della ricerca e della scrittura, l’autore torna a Giovanni Sartori e al suo concetto dello «scrivere contro». «La motivazione che ci spinge a scrivere – ricorda Pasquino – è che non siamo d’accordo con quanto abbiamo letto». L’autore affronta anche il tema più spinoso per chi fa ricerca e per chi scrive: quello del plagio «perché almeno in linea di principio, il lavoro intellettuale dovrebbe mirare a perseguire l’originalità nell’individuazione dei problemi da affrontare, nella metodologia con la quale procedere all’analisi, nel conseguimento dei risultati». Bisogna però essere molto precisi perché per plagio non si deve intendere che non si può utilizzare il lavoro degli altri che invece è necessario e utile, ma solo che non si può effettuare «un furto di conoscenze e di riconoscimenti». In questo caso, e solo in questo caso, il plagio «è il vizio più grave che inficia qualsiasi pubblicazione».

Venendo all’insegnamento devo confessare un conflitto di interessi: chi scrive molti anni fa ha avuto il privilegio da studente di frequentare le lezioni di Scienza politica di Gianfranco Pasquino alla Facoltà di Scienze Politiche, un’esperienza che mi consente di confermare che quanto scrive il professore nel suo libro a proposito dell’insegnamento è una pratica che ha sperimentato sul campo. «Quando il numero degli studenti è ampio – sostiene l’autore – il bravo insegnante deve sapere immedesimarsi in un ruolo che richiede capacità non dissimili da quelle degli attori. Deve, come spesso affermo scherzosamente richiamando una celebre canzone di Aznavour, assumere modalità (moderatamente) istrioniche». Un’altra caratteristica fondamentale, si legge in un altro passaggio del libro, è quella di prevedere «uno spazio per l’analisi dell’attualità». Questo aspetto è davvero fondamentale nella pratica dell’insegnamento perché, rimanendo nell’ambito della Scienza politica (ma l’esempio potrebbe valere per molti campi), il richiamo ai fatti di attualità permette agli studenti di comprendere che i concetti che stanno studiando non sono nozioni perdute nel passato ma servono a capire e a interpretare il presente. Noi giovani studenti di Scienze politiche al termine di quel corso del professor Pasquino avevamo molti più strumenti per leggere e comprendere i quotidiani che all’inizio del corso ci parevano incomprensibili, per comprendere il funzionamento del Parlamento, le attività del governo e quelle dei partiti politici e anche per decifrare quello che allora si chiamava politichese, il modo tipico di parlare dei politici senza farsi capire, in modo contorto e obliquo. A giudicare da come parlano e da come si esprimono oggi i politici si sente la mancanza del politichese, ma questa è un’altra storia.

Le attività dell’intellettuale sono profondamente interconnesse tra di loro e anche insegnare agli studenti «serve (e molto) a elaborare, chiarire, migliorare le idee e gli scritti» anche perché per dirla con Max Weber «la cattedra non è per i profeti e per i demagoghi». Leggere, recensire, ricercare e scrivere, insegnare e predicare sono punti collegati del lavoro intellettuale, inscindibili uno dall’altro. Nelle conclusioni del libro che Pasquino chiama bilancio, l’autore torna sul concetto di ricci (gli intellettuali che hanno scritto una grande opera e hanno brillato nel loro settore) e volpi (intellettuali che si sono spesi in più campi e hanno scritto tante cose). Difficile però a certi livelli trovare dei ricci. Forse Max Weber, ipotizza Pasquino, per il suo Economia e società che «però è molto di più di un grande libro» ed è invece «una grande, probabilmente ineguagliabile, opera su un ampio insieme di tematiche tutte di enorme rilevanza e di altrettanto enorme impatto sulle scienze sociali e sulla vita». Difficile scegliere tra ricci e volpi ma di sicuro nella lista dei grandi Pasquino mette George Orwell, Daniel Bell, Raymond Aron, Hannah Arendt, Jürgen Habermas, Noam Chomsky e tra gli italiani i già ricordati Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Leonardo Sciascia ma anche – oltre agli inevitabili Norberto Bobbio e Giovanni Sartori – Beppe Fenoglio, Cesare Pavese e Umberto Eco.

Nelle ultime pagine del libro sembra che Pasquino inviti gli intellettuali a non rimanere chiusi in se stessi e li sproni invece ad andare fuori, a predicare pur in un tempo difficile perché senza questa attività non adempiranno al loro senso e alla loro missione profonda. E allora anche se è vero che il lavoro intellettuale, tra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, è costretto a privilegiare la seconda è altrettanto vero che non si può restare chiusi in difesa o nella propria rassicurante “torre d’avorio” e che bisogna invece uscire allo scoperto, andare per il mondo, confrontarsi, spendersi e sporcarsi le mani. «Tirando le difficili somme del discorso fin qui condotto – chiude Pasquino – temo di dovere giungere a una conclusione che implica una valutazione dolente e preoccupata. Laddove per una molteplicità di ragioni (contesto culturale, politicizzazione faziosa dei dibattiti, scarso o nullo riconoscimento attribuito al lavoro intellettuale) gli intellettuali ripiegano su loro stessi e, invece di salire sulle spalle dei giganti, si rinchiudono nelle loro biblioteche, ne risentono a cascata non soltanto la cultura e la sua trasmissione e trasformazione, ma tutte le società e il sistema politico». Anche perché, e qui torniamo all’inizio del libro e all’inizio di tutto, se il lavoro intellettuale ha il fine ultimo di migliorare le condizioni degli uomini, il gioco non funziona se si rimane sotto coperta, tra i propri simili, e si rinuncia ad andare controvento nella storia di oggi, esponendosi alle sconfitte ma confortati dai giganti che abbiamo imparato a leggere, studiare e apprezzare. E che ci hanno lasciato qualcosa dentro che vogliamo portare, nelle varie forme del lavoro intellettuale, agli altri. Dare concretezza a questo appello di Pasquino significa anche operare per contrastare il populismo, almeno quello del linguaggio. Sfidare il tempo degli slogan, del pensiero corto, delle esagerazioni e delle promesse balzane, dello scontro fine a se stesso. In questo tempo difficile, gli intellettuali rischiano di essere come gli ingombranti albatros di Charles Baudelaire, che con le loro ali da gigante non riescono a camminare tra i mortali. Ma il senso profondo del libro di Pasquino resta questo, gli intellettuali devono provarci, devono continuare a provarci. Sempre e per sempre.

Scritto da
Olivio Romanini

Giornalista, caposervizio politico alla cronaca di Bologna del «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni: “Guazzaloca. L’uomo che si mangiò i comunisti” (con Gianluca Faggioli, Minerva Edizioni 2019) e “Lo chiamavano Tex. Sergio Cofferati sindaco di Bologna” (con Andrea Bonzi e Mirko Billi, Minerva Edizioni 2009).

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