Recensione a: Piero Ignazi, Il populista in doppiopetto. Berlusconi e la politica italiana, il Mulino, Bologna 2024, pp. 192, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Antonio Francesco Di Lauro
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Che un partito dai tratti marcatamente personalistici, interamente edificato sul carisma del proprio leader, si potesse insediare stabilmente nel panorama politico italiano decidendone a lungo le sorti, non esisteva riprova. Alla guida del governo per dieci anni, parte di larghe coalizioni per cinque e in testa a gruppi di opposizione per altrettanti, Silvio Berlusconi ha generato una rottura tale da oltrepassare il confine politico e investire direttamente la società civile. Già dall’annuncio della sua “discesa in campo”, preparato nei minimi dettagli, intendeva lanciare una strategia ben precisa: subentrare alla Democrazia Cristiana come erede dell’egemonica tradizione centrista con un messaggio di natura liberale, decisamente più al passo con i tempi. Nel videomessaggio che lo ritrae nello studio milanese, l’allora noto imprenditore televisivo si diceva preoccupato per il futuro del Paese, recuperando il motto del “pericolo rosso”. In questa cornice del tutto inedita, il tentativo di posizionamento moderato appare evidente. Cionondimeno, il successo conosciuto dal messaggio politico berlusconiano non è da intendersi come estemporaneo. La costruzione di un vasto impero mediatico unitamente a cambiamenti sociali radicali, confluiti in correnti post-materialiste e post-ideologiche, ne hanno consentito la presa.
Proprio da un’attenta riflessione sui mutamenti subiti dal contesto socioculturale si apre il libro del politologo Piero Ignazi, dedicato a un’analisi critica del controverso cammino politico-elettorale condotto dal Cavaliere e intitolato Il populista in doppiopetto. Berlusconi e la politica italiana (il Mulino 2024). Del resto, nota l’autore, «il berlusconismo esprime e proietta sul piano pubblico-politico quanto è venuto maturando negli anni Ottanta» (p. 12). Una crescita economica senza precedenti – seppure “spensierata” – aveva accompagnato l’Italia verso il nuovo secolo, dandole il volto di un Paese vispo e creativo, dove il cittadino potesse esprimere i propri animal spirit e godere del tempo libero. Sono anni in cui «la militanza ossessiva e lugubre di tanti giovani del “movimento” aveva già lasciato il posto alle feste del Macondo e alle scoperte del sesso libero e gioioso di Porci con le ali» (p. 13). In uno scenario simile, il successo imprenditoriale di Berlusconi gioca un ruolo cruciale. L’utilizzo di un linguaggio condito di slogan e gergalismi, utili ad accorciare virtualmente la distanza dal ceto medio-basso, e di invettive plebiscitarie rivolte allo Stato “lento e macchinoso”, gli consentono di fondere e incarnare nel tempo i sentimenti più vari: dal benpensantismo all’edonismo, dal liberalismo all’antipolitica. In sostanza, Berlusconi diviene ben presto quanto di appropriatamente condensato da Ignazi nel titolo del libro.
Di contro, i rappresentanti dei vecchi partiti non potevano che suscitare un profondo malcontento, ancorati come erano al loro passato, segnato anche da malaffare e corruzione. «Già nel 1986 un’indagine rilevava che l’80,2% degli italiani era d’accordo nel ritenere che i cittadini hanno poca influenza su quello che i politici fanno, mentre solo il 23,3% pensava che il governo fosse sensibile all’opinione pubblica» (p. 27). L’ipotesi di una classe dirigente distante dall’asfissia delle regole a misura di collettività, capace di inscenare le istanze individualiste maturate nel tempo, viene individuata dall’autore nel progetto riformatore di Bettino Craxi. «Il leader socialista aizza la società italiana più dinamica a essere libera e intraprendente offrendole lo sdoganamento dell’arricchimento» (p. 15). Furono il carattere decisionista ed estremamente sicuro di sé, al limite dell’arroganza, e la promessa di modernizzazione mai mantenuta a decretare l’ascesa e, contemporaneamente, la sconfitta del craxismo. La sua carica fisica ed espressiva non si rivelò sufficiente a garantirgli un potere durevole. Il precursore del berlusconismo aveva fallito.
Sette anni dopo, alle elezioni chiave del 1994, la sorte che toccherà al suo amico e leader di Forza Italia sarà ben diversa. Berlusconi aveva fondato ufficialmente il suo “movimento” soltanto alcuni mesi prima, esattamente il 18 gennaio, dotandolo di una struttura piuttosto peculiare. Forza Italia poteva contare sulla presenza di 6.840 Club diffusi in tutto il territorio, in prevalenza in Lombardia e in Sicilia, comprendenti 171.000 unità, esulate da qualsiasi decisione politica. Scelte di questo indirizzo non erano neppure di competenza del ben più ristretto numero di appartenenti al movimento vero e proprio (che contava poco più di 5.000 membri), bensì spettavano direttamente al presidente e al suo gruppo di fedelissimi; fra questi, il giornalista ex monarchico Antonio Tajani. Tuttavia, il partito premiato al voto del 1994 non dipendeva dal suo presidente soltanto politicamente, ma, soprattutto, finanziariamente. Società quotate in borsa di sua proprietà, come Fininvest e Publitalia, difatti, ne costituivano l’ossatura.
Questa concezione irriducibilmente aziendalistica, trasportata nella gestione della cosa pubblica, non riscosse gli esiti sperati. Sebbene l’impalcatura mediatica sorretta da Berlusconi tenesse, furono commessi alcuni passi falsi, rivelatisi poi decisivi. In primis, Ignazi sottolinea la natura instabile del duplice sistema di alleanze promosso con la Lega di Bossi e, in particolare, con i missini capeggiati da Fini. Tra Berlusconi e il segretario del Carroccio i rapporti non furono mai semplici: quest’ultimo sopportava a fatica un’alleanza che comprimeva il suo ruolo e, in fondo, gli rubava anche voti presso l’elettorato più ribellista. Intanto, il governo, a pochi mesi dalla sua formazione, versava già in condizioni disastrose. Dopo l’emanazione della riforma “salva-ladri”, i guai giudiziari cominciarono a inseguire il capo dell’esecutivo, incapace di tenere a bada gli attacchi dell’opposizione tanto quanto di tener fede alle innumerevoli promesse di modernizzazione. Del resto, agiva con un Parlamento ingombrato da matricole. Per darcene una misura, l’autore testimonia che «il 91% dei suoi deputati e senatori è di prima nomina e coloro che hanno avuto esperienze come amministratori locali sono appena il 20%» (p. 58). Nonostante i tanti problemi menzionati, infine fu proprio Bossi, con la firma della mozione di sfiducia promossa dalle opposizioni, a rappresentare l’ultimo insormontabile scoglio per il primo governo Berlusconi.
La stessa veemenza che portò alla caduta dell’esecutivo fece esplodere l’ex premier in una violenta polemica antistituzionale. Le logiche parlamentari su cui è stata fondata la Costituzione divennero improvvisamente oggetto di un’aspra contestazione, destinata a ripetersi, che sbiadì definitivamente l’immagine di un Berlusconi moderato. In questa fase di scompiglio generale, il centro-sinistra ne approfittò per riorganizzarsi nella più solida coalizione dell’Ulivo, guidata da Romano Prodi, di cui le elezioni politiche del 1996 sancirono la superiorità: anche se con uno scarto minimo – pari soltanto allo 0,5% – il Partito Democratico della Sinistra ottenne quanto bastava per battere Forza Italia, alle prese con una fase di declino piuttosto evidente. Quello che Ignazi ribattezza efficacemente partito patrimonial-carismatico cominciò a evidenziare i suoi difetti. Lo scarno dibattito interno e l’impossibilità di emergere per i suoi membri non gli consentirono mai di radicarsi sul territorio e di svilupparsi autonomamente. In sostanza, quando Berlusconi era in ombra, ci finiva l’intero partito.
L’errore commesso da molti, però, fu quello di sottovalutare i mezzi comunicativi a disposizione del leader di Forza Italia. Nel narrare il complesso dei fatti che regge l’esperienza politica di Berlusconi, l’autore non perde mai di vista il ruolo determinante assolto dal medium televisivo: dalle prime elezioni che videro il fondatore di Mediaset protagonista, quando ben l’8% del suo elettorato frequentava assiduamente le sue televisioni, sino ad arrivare al voto del 2001, che lo contrapponeva a Francesco Rutelli. Berlusconi riuscì a superare ogni dissidio interno ed esterno grazie all’aura di splendore e di benevolenza, quasi provvidenziale, che lo avvolgeva agli occhi di tantissimi cittadini. «Il rapporto di fidelizzazione, creato negli anni fin da prima dell’impegno diretto del Cavaliere in politica con i network di sua proprietà, si è poi trasferito sul terreno della politica» (p. 99). All’inizio degli anni Duemila, alla vigilia del suo secondo governo e all’apice della sua popolarità, Berlusconi sembrava però persuadere un elettorato profondamente diverso da quello auspicato, occupato dai ceti imprenditoriali più dinamici. «FI ha la più bassa quota di laureati (2,8%) e la più alta di persone senza titolo di studio o elementare (47,6%)» (p. 101). Nonostante l’efferatezza dimostrata da un esercito di casalinghe pronte a difenderlo – secondo diversi dati, costituivano proprio loro l’ultimo bastione del berlusconismo –, una serie di gaffe e scandali colpirono il Cavaliere, minando gravemente la sua reputazione internazionale. Il caso Mills e quelli sui diritti Mediaset e Mediatrade furono tra i processi più importanti nell’innescare una serie di generosissimi provvedimenti ad personam e inficiarono ulteriormente l’immagine del leader di Forza Italia, senza mai portarlo alle dimissioni. Lo schema vittimismo-irresponsabilità vinse ripetutamente su qualsiasi processo, sull’innalzamento del debito pubblico e su livelli di credibilità in Europa ai minimi storici. A fronte di tutto questo, saranno meno di 25.000 voti, nel 2006, a consegnare le chiavi del governo a Prodi, ma non a tacitare le feroci accuse di brogli, udibili prima ancora di essere ascoltate.
Se c’è una caratteristica del protagonista di tutte queste vicende emersa con particolare tangibilità dal racconto che ne fa Ignazi, dev’essere certamente la sua inesauribile carica trasformativa, contrapposta alla sostanziale sterilità della principale area avversaria. Si ha la sensazione di assistere a una paradigmatica riproposizione di eventi, via via più emblematici, che, pur appartenendo a momenti diversi, sono accomunati da un’unica soluzione plausibile: la primazia di Berlusconi sulla scena politica italiana. Viene in mente uno sketch ricavato dalla trasmissione satirica L’ottavo nano, ideata dal comico Corrado Guzzanti e dalla scrittrice Serena Dandini e trasmessa nei primi mesi del 2001 su Rai2. Il periodo è significativo. A pochi mesi dalle votazioni che avrebbero visto scontrarsi proprio Berlusconi e Rutelli, un esilarante Guzzanti nei panni del leader di centro-sinistra, enfatizzando il suo atteggiamento servile, in uno strampalato romanesco recitava così: “Il Paese non è né di destra, né di sinistra. È di Berlusconi!”. Pertanto, dopo aver concesso un leggero spazio d’azione al nuovo esecutivo, il Cavaliere torna logicamente alla ribalta. Si presenta alle elezioni politiche del 2008, vincendole a capo di un nuovo partito, il Popolo della Libertà, presieduto da due immancabili alleati: Bossi e Fini. Ma ormai la reputazione di Berlusconi in qualità di capo del governo è compromessa. Scandali giudiziari e sessuali, quelli delle cosiddette “cene eleganti”, drastiche diminuzioni del consenso e tracollo economico – legato all’inefficienza di diversi esecutivi susseguitisi nel tempo – ne hanno compromesso irreversibilmente l’immagine. L’ultimo governo Berlusconi cadde nel 2011.
Il seggio senatoriale sembra però essere momentaneamente a riparo. Soltanto il 1° agosto 2013 arriverà la sentenza definitiva della Corte di cassazione, relativa al reato di frode fiscale per i diritti televisivi Mediaset. A quasi vent’anni dalla sua “discesa in campo”, per la prima volta, Berlusconi non era al governo né sedeva in Parlamento. Neanche l’ultima versione di lui raccontataci da Ignazi rinuncia a fare politica. Ma è una versione sempre più stanca, marginalizzata e su cui incombe la vecchiaia, scalzata dall’avvento di nuove tecnologie, padroneggiate per prime dal Movimento 5 Stelle, e da leader più giovani di almeno trent’anni. Resta da attribuirgli l’introduzione di una postura politica del tutto rivoluzionaria per il panorama italiano che, piaccia o non piaccia, ne porta ancora il segno.