Il valore dell’economia sociale nel modello di sviluppo territoriale: sostenibilità e impatto comunitario
- 13 Giugno 2025

Il valore dell’economia sociale nel modello di sviluppo territoriale: sostenibilità e impatto comunitario

Scritto da Paolo Venturi, Andrea Baldazzini

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Se si ascoltano con attenzione i territori e le comunità, la domanda che emerge oggi con più forza è una domanda di cambiamento. Può sembrare paradossale, proprio in un’epoca in cui velocità e innovazione vengono costantemente proposti quali principali mantra per alimentare il progresso, l’esperienza più forte che le collettività sperimentano ogni giorno è quella di un’impossibilità di essere realmente parte di un cambiamento positivo.

L’evoluzione del digitale e della tecnologia è emblematica da questo punto di vista in quanto, tranne che per piccole minoranze, la postura che si ha verso di essa è di totale passività, una costante rincorsa ad assorbire novità frenetiche che prendono forma in dispositivi e prassi che permeano sempre di più la quotidianità di ciascuno. Tutto questo nonostante una tale accelerazione tecnologica si rende possibile solo perché vi è una partecipazione costante delle collettività che alimentano con i propri dati e utilizzi un sistema di conoscenza ancora appannaggio di pochi. A ciò si sommano poi cambiamenti sistemici che agiscono su grande scala, dalla crisi ecologica a quella demografica, dai mutamenti degli scenari geopolitici a quelli relativi alle prospettive delle nuove generazioni.

Infine, il principale sistema che in epoca moderna si è occupato di guidare, o quanto meno di indirizzare il cambiamento, ovvero il sistema politico, sembra non essere all’altezza delle sfide odierne, alimentando una sorta di “sindrome dello spettatore” che finisce per nutrire prospettive individualistiche a discapito del senso di responsabilità collettiva.

Bisogna dunque chiedersi: cosa viene a rappresentare il sistema dell’economia sociale? Di quale tipo di ambizione trasformativa essa può divenire portatrice? Oggetto di questo contributo vuole essere una riflessione sulla prospettiva di cambiamento che l’economia sociale incarna e il suo rapporto, in primis, con la dimensione delle policy.

In primo luogo, bisogna assumere che l’economia sociale non rappresenta semplicemente una particolare famiglia di attori e organizzazioni, piuttosto con essa si vuole indicare un vero e proprio paradigma alternativo in grado di coniugare produttività e inclusione secondo una concezione articolata di sostenibilità, di cui si dirà meglio in seguito.

Al di là dei dibattiti sulle definizioni, il significato più profondo del rilancio di questo paradigma risiede proprio nel tentativo di ridare potere di cambiamento alla persona alimentando però non tanto le potenzialità del singolo, quanto quelle delle comunità e dei territori. Economia sociale significa infatti riconoscimento alle comunità di un’effettiva capacità di agire cambiamenti profondi e di co-partecipare all’indirizzamento delle grandi transizioni in corso. Visione ambiziosa, certamente, ma comprovata dalla fattività delle attività realizzate quotidianamente dalle organizzazioni dell’economia sociale. La storia dell’innovazione sociale dell’ultimo decennio, ha insegnato come inclusione non sia sinonimo di assistenza, allo stesso modo sviluppo territoriale non equivale a sviluppo economico. È tempo di riconoscere modalità diverse di agency collettiva[1] facendosi guidare da un approccio al cambiamento non interessato unicamente a creare rotture con lo status quo, ma ad accompagnare le trasformazioni in atto secondo una visione di interesse generale.

Per oltre un secolo ci è stato detto che lo sviluppo economico richiedeva inevitabilmente un tributo in termini di disuguaglianze. Oggi, invece, è evidente che non è così: la sfida non è tanto trovare un equilibrio tra crescita e inclusione, quanto riscrivere il paradigma stesso dello sviluppo. Lo sviluppo, a differenza della mera crescita, è un processo intenzionalmente sociale: non è il capitale sociale a derivare dallo sviluppo, ma è il capitale sociale la sua condizione essenziale. È da qui che bisogna ripartire se si vuole immaginare un’economia capace di futuro.

Immaginare il cambiamento e costruire il futuro significa proiettarci verso un “nuovo umanesimo” che coinvolga l’economia, il lavoro e il welfare. Ma perché questa tensione non si riduca a uno slogan, occorre costruire un diverso ordine sociale capace di assumersi il rischio di declinare lo sviluppo integrale non solo in termini economici, ma anche sociali. È dunque evidente quanto oggi sia anacronistico evocare un nuovo umanesimo senza potenziare la dimensione contributiva delle formazioni socioculturali e dei soggetti economici nati da motivazioni diverse dall’interesse individuale. L’Italia è un Paese straordinariamente ricco di reti, economie, luoghi e opere che affondano le radici in percorsi comunitari e associativi con un orizzonte pubblico.

Tant’è che l’idea di un’economia sociale quale mera “nicchia” rispetto ai più ampi sistemi del pubblico e del mercato è una narrazione che non trova più alcun fondamento. Spesso, la spinta verso forme radicali di cambiamento è portata avanti da avanguardie e minoranze profetiche, mentre nel caso dell’economia sociale non è così. Basta guardare ai numeri anche solo del nostro Paese: quasi 450.000 organizzazioni, 1,8 milioni di lavoratori e 89 miliardi di valore aggiunto prodotto[2]. Se si guarda poi al panorama europeo i numeri sono ovviamente ancora più impressionanti: 4,3 milioni di organizzazioni, 11,5 milioni di lavoratori e un fatturato complessivo di 912,9 miliardi di euro[3].

Queste poche cifre servono solo per mostrare come l’ambizione di essere un paradigma differente, non poggi unicamente su retorica e principi morali, ma vi è un grande numero di realtà che agisce in modo concreto e secondo una logica di valore che intende tenere insieme: dimensione economica, sociale, ambientale e antropologica in una visione di sostenibilità integrale[4]. La prospettiva sulla sostenibilità portata avanti dall’economia sociale possiede dunque questo tipo di premessa e ha come intenzionalità quella detta sopra, ovvero rendere la persona realmente parte di un processo tramite cui realizzare cambiamento positivo.

Nel concreto questo si traduce innanzitutto in due aspetti: il primo riguarda le modalità di generare economie e lavoro, il secondo riguarda le modalità di far partecipare le persone alla realizzazione di politiche concrete. Il patto tra dimensione produttiva e dimensione politica permette la formulazione di scenari inediti che rompono, per dirla con Mark Fisher[5], quel “realismo capitalista” secondo cui le traiettorie di sviluppo sono dettate unicamente dalle istanze del libero mercato. Un realismo distorto che, ad esempio, porta a ritenere sacrificabili interi territori perché considerati marginali, non sufficientemente produttivi o non sufficientemente strategici, così come propone la marginalizzazione di gruppi sociali e comunità che deviano dagli standard morali o di consumo che la disciplina neoliberista riconosce come necessari. Come ci ricorda Saskia Sassen, oggi la dialettica non si gioca più nell’opposizione tra inclusione ed esclusione sociale, quanto piuttosto tra due polarità nettamente più radicali, ovvero tra integrazione ed espulsione[6]. Il termine “espulsione” appare infatti maggiormente calzante per descrivere forme di allontanamento che non prevedono alcuna possibilità di riabilitazione, e la visione sottostante a questo tipo di logiche racconta di un’idea di società estremamente chiusa e settaria, dove il presunto progresso è appannaggio unicamente di una cerchia ristretta.

Ecco allora che il portato trasformativo dell’economia sociale deve ambire ad affermare una visione altrettanto radicale di futuro delle collettività, perché ad essere messi in discussione oggi sono i fondamenti stessi dei modelli democratici e il sistema di diritti costruito con fatica negli ultimi due secoli di storia. Se si vuole comprendere il valore delle realtà dell’economia sociale e il loro ruolo in termini di impatto sulle comunità, bisogna pertanto avere bene in mente qual è la posta in gioco che l’attuale fase storica sta mostrando rispetto alle direzioni di cambiamento degli odierni sistemi societari. Se si intende non solo salvaguardare i cardini che reggono una visione di società in cui sono distintivi gli elementi dell’inclusione e della libera partecipazione, ma anche alimentarne una ancora maggiore diffusione e affermazione, non basta più restare su posizioni difensive. È il momento di avanzare controproposte realmente ambiziose, ma allo stesso tempo forti di una tradizione e di un’esperienza che da tempo si coltiva nei territori e nelle comunità.

Non è infatti un caso che proprio nell’ultimo periodo stia crescendo l’interesse verso quegli approcci cosiddetti di “innovazione trasformativa”[7] che non si limitano a rincorrere cambiamenti e criticità emergenti, quanto piuttosto avanzano proposte per risposte che ambiscono a cambiare le condizioni strutturali, a riscrivere “il codice sorgente”, di quelle logiche che determinano nuove forme di disuguaglianze e fragilità. Le pratiche che afferiscono a questo orizzonte di innovazione territoriale intendono affermare una postura tutt’altro che adattiva.

Guardando alle ricerche di carattere più teorico, si osserva come il tema dell’innovazione trasformativa nasca precisamente con riferimento al piano delle policy, in quanto ambito che prima degli altri ha dovuto fare i conti con questo tipo di cambiamento di scenario. Inizia così a mutare l’oggetto d’interesse anche dei policy maker, e si assiste ad uno spostamento dei riferimenti: da un lato verso le cosiddette transizioni sistemiche (systemic transitions), come ad esempio il cambiamento climatico, la transizione digitale, l’insostenibilità dei modelli di abitare nelle grandi città, ecc.; dall’altro verso le cosiddette grandi sfide societarie (grand societal challenges), come ad esempio l’invecchiamento della popolazione, l’obesità, le disuguaglianze, ecc. Ecco perché il nuovo soggetto al centro di molte policy diventa quello della “challange”, ovvero della “sfida”, intesa quale riferimento per orientare l’istituzione di un nuovo orizzonte di cambiamento verso cui tendere, e per il quale si è consapevoli fin da subito che il suo raggiungimento diventa possibile solo attraverso una collaborazione trasversale e ampia di tutti gli attori sociali, sia pubblici che privati.

Il Social Economy Action Plan avanzato dalla Commissione Europea nel 2021, così come i vari piani nazionali e territoriali nati di recente che intendono rafforzare e insieme promuovere l’economia sociale, vanno letti con queste chiavi interpretative, ovvero come il tentativo di realizzare forme di innovazione trasformativa alimentando un sistema di organizzazioni e attività capace di ricombinare interessi economici ed interessi sociali secondo una visione di agency collettiva.

Si può dunque affermare che le policy aventi ad oggetto l’economia sociale, siano policy mission oriented e non meramente settoriali. Questo è un altro punto fondamentale, ragionare in ottica di economia sociale non vuol dire ragionare in ottica di un settore, quanto piuttosto di una pluralità di metodi e modelli che concepiscono l’agire il cambiamento e il generare valore, come detto sopra, secondo una visione di sostenibilità integrale. Le organizzazioni dell’economia sociale operano infatti in una grande pluralità di ambiti, rispondendo a bisogni differenti e abilitando forme di lavoro e di partecipazione molto variegate che spingono la pubblica amministrazione a superare un’impostazione basata unicamente sulla logica dei “settori di policy”, adottando una visione che ragiona appunto per “missioni” e “grandi sfide”.

Volendo essere estremamente sintetici, la prospettiva dell’innovazione trasformativa che sintetizza l’ambizione di cambiamento del sistema dell’economia sociale, si caratterizza per la definizione di tre assunti principali: il primo concerne l’indicare come punto di partenza la necessità di ricomporre le manifestazioni di bisogno sociale a livello di territorio non più secondo un’ottica settoriale, ma inventando nuove categorie in grado di riconoscere un doppio livello di rapporti: da un lato quelli intersettoriali (ad esempio il legame che intercorre tra l’abitare, l’accesso ai servizi e le nuove forme di povertà); dall’altro quelli “glocali”, cioè quelli che mettono in connessione gli effetti delle macro dinamiche societarie con le specificità degli assetti produttivi, ecologici e comunitari a livello locale.

Il secondo riguarda la scelta di tradurre tale riconoscimento di rapporti in una strategia unitaria e condivisa tra più attori territoriali, i quali legittimano l’istituzione di un nuovo assetto collaborativo che sia espressione coerente dell’intenzione ad operare per la realizzazione di uno scopo comune (assetto mission oriented). Qui si pensi al fiorire di “patti” e partnership inedite che animano in maniera crescente le politiche locali.

Il terzo invece corrisponde alla consapevolezza che l’individuare quale oggetto primario di intervento una grande sfida postula non solo la costruzione di alleanze inedite, ma anche il rendere le comunità stesse attrici del cambiamento. Se quest’ultime si fermassero ad un livello istituzionale o di rappresentanza non avrebbero alcuna speranza di agire sui meccanismi profondi delle criticità sistemiche. Non è più possibile pensare le comunità solo in qualità di “destinatarie”, mentre sempre di più devono essere oggetto di percorsi di infrastrutturazione in grado di abilitarle per renderle promotrici di un cambiamento che sia duraturo e che trovi al proprio interno il senso e le energie necessarie per continuare a maturare. Con ciò si ritorna al punto di inizio dal quale ha preso le mosse la presente riflessione.

Compito dell’economia sociale è ricomporre quel legame che unisce comunità e politiche secondo una prospettiva di responsabilità collettiva, così da poter ambire ad agire forme di cambiamento capaci di incidere e guidate da visioni di lungo periodo. Questo tipo di legame emerge in maniera chiara soprattutto nei piani territoriali per l’economia sociale a cui si è già fatto cenno sopra, basti pensare a quello recentemente approvato dalla Città Metropolitana di Bologna o a quelli in corso di elaborazione a Torino e Milano.

Con essi si arriva infatti a rilanciare soggettività vecchie e nuove dell’economia sociale e a valorizzare la loro biodiversità, integrandole nelle filiere strategiche dello sviluppo territoriale e creando un ambiente in cui profit, economia sociale e pubblica amministrazione collaborano attivamente per realizzare missioni sociali capaci di dare vita a una prospettiva “diversamente competitiva”. In un mondo di istituzioni estrattive che “consumano e bruciano fiducia” (trust consumer), le organizzazioni orientate all’interesse generale costituiscono la più rilevante delle sorgenti di reciprocità (trust producer): non è possibile inseguire obiettivi economici desertificando il territorio di relazioni, comunità e partecipazione culturale. Non basta più come diceva Diderot “far bene il bene”, occorre anche chiedersi dove va il valore, come viene distribuito, imparando a riconoscere e distinguere fra chi estrae e chi include. Tanto nelle politiche quanto nell’economia, tanto nell’innovazione quanto nell’inclusione.

Prima di concludere, un’ultima osservazione è doverosa perché tocca nuovamente il rapporto tra il sistema delle politiche e quello dell’economia. Quanto descritto nelle pagine precedenti non intende avere la valenza di semplice manifesto o di esortazione verso buoni propositi. Quanto riassunto descrive una possibile direzione da coltivare e in cui investire. Se fino a poco tempo fa, questa sembrava essere una prospettiva condivisa anche dalla Commissione Europea, che ha stimolato in maniera forte gli Stati membri ad agire in tal senso, oggi questo riconoscimento in merito alla valenza strategica dell’economia sociale sembra vacillare.

La recente decisione della Commissione Europea di eliminare l’unità dedicata all’economia sociale all’interno della DG Growth ha suscitato forte preoccupazione tra reti e stakeholder europei. Social Economy Europe, insieme a numerose organizzazioni e istituzioni, ha lanciato un appello chiaro e deciso: l’economia sociale non è un ambito marginale, ma un pilastro strategico per il futuro dell’Europa. Dietro questa scelta si cela un rischio profondo: adottare in modo acritico una visione utilitaristica e iper-finanziaria dell’economia, importata da modelli d’oltreoceano, che riduce la competizione a una logica escludente, priva di empatia, giustizia sociale e coesione. Una visione che dimentica il ruolo della comunità, quel “terzo pilastro” evocato da Raghuram Rajan come elemento essenziale per l’equilibrio tra mercato e Stato.

In questo scenario, le regioni possono e devono giocare un ruolo cruciale, orientando lo sviluppo dei propri territori attraverso piani lungimiranti e inclusivi. Cinque traiettorie possono guidare la costruzione di piani regionali efficaci per l’economia sociale.

La prima riguarda il riconoscimento formale dell’economia sociale come modello economico fondato sull’interesse generale, la sostenibilità e la partecipazione. Servono cornici normative chiare, strumenti legislativi adeguati, assessorati dedicati e leggi regionali che ne legittimino e valorizzino pienamente il contributo allo sviluppo sostenibile.

La seconda è l’integrazione dell’intelligenza artificiale nelle organizzazioni dell’economia sociale, per migliorarne l’efficienza, rafforzare la capacità di analisi dei dati e orientare le politiche pubbliche. L’uso di piattaforme digitali intelligenti, strumenti predittivi e percorsi formativi mirati può coniugare innovazione tecnologica e missione sociale.

La terza traiettoria punta su competenze e formazione per la sostenibilità. È urgente investire nella costruzione di un ecosistema professionale qualificato: attivare corsi universitari e master, rinnovare i programmi scolastici e sostenere la formazione continua per dirigenti e operatori del Terzo settore.

Il quarto ambito riguarda il rilancio delle aree interne, dove l’economia sociale può rispondere concretamente alla marginalizzazione territoriale. Cooperative di comunità, pratiche di economia circolare e investimenti in innovazione sociale possono generare occupazione, rafforzare i legami sociali e valorizzare le risorse locali.

Infine, è essenziale promuovere l’innovazione sociale come leva di sviluppo. La creazione di hub, laboratori urbani e collaborazioni con tecnopoli consente di testare nuovi modelli di welfare e impresa sociale, favorendo la nascita di startup a impatto. È urgente stimolare la nascita di luoghi che promuovano la relazione e l’intersezione fra economia sociale e tessuto produttivo, al fine di generare dei veri e propri acceleratori di progettazione condivisa e ibridazione tra saperi, settori e comunità.
Queste cinque traiettorie delineano una visione integrata dell’economia sociale come infrastruttura strategica per la coesione, l’innovazione e la sostenibilità.

La posta in gioco è troppo alta per cedere all’inerzia che accompagna le grandi complessità. Non possiamo permetterci una postura puramente adattiva. È il tempo di praticare alleanze autentiche, fondate sulla corresponsabilità e sulla visione condivisa. Altrimenti, rischiamo di giocare una partita che non prevede un secondo tempo.


[1] Daniele Morselli e Piergiuseppe Ellerani, Verso un programma di ricerca sull’agency in accordo al capability approach, «Giornale Italiano della Ricerca Educativa», anno XIII, n. 24 (2020), pp. 85-101.

[2] Atlante Nazionale dell’Economia Sociale a cura di AICCON e Unioncamere Emilia Romagna.

[3] Alessio Nisi, Economia sociale, in Europa un potenziale inespresso da 912 miliardi, «Vita Magazine», 19 Settembre 2024.

[4] Le Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile.

[5] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma 2018.

[6] Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2018.

[7] Gijs Diercks, Henrik Larsen e Fred Steward, Transformative innovation policy. Addressing variety in an emerging policy paradigm, «Research Policy», Volume 48, Issue 4, (2019), pp. 880-894.

Scritto da
Paolo Venturi

Direttore di AICCON e The FundRaising School. Docente di imprenditorialità sociale e innovazione sociale presso il Master in Economia della Cooperazione all’Università di Bologna e in numerose altre università e istituzioni. Componente del Consiglio Nazionale del Terzo Settore, del Comitato Scientifico della Fondazione Symbola e del CNV – Centro Nazionale per il Volontariato. Autore di numerose pubblicazioni tra cui: “Spazio al desiderio. Il potere delle aspirazioni per generare innovazione e giustizia sociale” (Egea 2024), “Neomutualismo. Ridisegnare dal basso competitività e welfare” (Egea 2022), “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” (Egea 2019) e “Imprese ibride. Modelli d'innovazione sociale per rigenerare valore” (Egea 2016), tutti scritti con Flaviano Zandonai.

Scritto da
Andrea Baldazzini

Ricercatore Senior presso AICCON, centro di ricerca dell’Università di Bologna dedicato alla promozione della cultura della cooperazione e del non profit, dove si occupa di imprenditoria sociale, innovazione e trasformazioni dei sistemi di welfare territoriale. Svolge inoltre attività di formazione e consulenza per organizzazioni di terzo settore e pubbliche amministrazioni. Per «Pandora Rivista» è membro della Redazione.

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