Intervista a Michele Prospero
- 04 Giugno 2015

Intervista a Michele Prospero

Scritto da Matteo Giordano, Tommaso Sasso

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Questa intervista, a cura di Matteo Giordano e Tommaso Sasso, si inserisce in un ciclo mirante ad approfondire tematiche quali la crisi della modernità in atto, allo scenario europeo e all’interpretazione degli esiti della pluridecennale egemonia neoconservatrice. Michele Prospero è professore presso la facoltà di Scienza Politica, Sociologia e Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma ed è stato editorialista de L’Unità. I suoi interessi vertono da un lato sull’analisi dei partiti e del sistema istituzionale italiano e dall’altro su uno sforzo di riflessione teorica sulle grandi categorie del pensiero politico (sovranità, rappresentanza, proprietà) e sulle grandi correnti culturali (liberalismo, socialismo, democrazia).


La crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà, ha in qualche misura svelato la reale natura di una dottrina ideologica, quella neoliberale, ai cui assunti di fondo la Sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente. Cosa ritiene ci sia stato alla base di questo pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente?

Michele Prospero: È opportuna una periodizzazione: la crisi degli assetti democratici del secondo dopoguerra, con i suoi profili di civiltà, precede il crollo del comunismo, così come la rivisitazione delle categorie politiche da parte della sinistra, in un senso di sostanziale confluenza nei paradigmi neoliberali, è antecedente al collasso storico del comunismo. Una rivisitazione delle categorie era indispensabile, perché il “vecchio” quadro interpretativo non garantiva più una capacità di diagnosi e di formulazione di una risposta politica alle nuove sfide. C’era un problema storico di usura delle categorie tradizionali e di capacità di mobilitazione di nuove soggettività. Con la fine del trentennio glorioso (un solido stato sociale, una forte ridistribuzione del reddito, la mobilità sociale), l’impresa su scala internazionale recuperava margini di competitività comprimendo i poteri sindacali e gli spazi della democrazia organizzata. Dunque all’ordine del giorno c’era sia la crisi della democrazia, teorizzata dalla Trilaterale all’inizio degli anni Settanta e poi sistemata da Luhmann (il sovraccarico di partecipazione), sia un alleggerimento dello Stato (il sovraccarico di domande e funzioni): è necessario ricordare a questo proposito anche la pubblicazione de “La crisi fiscale dello Stato” (O’ Connor). Il modello del compromesso socialdemocratico, di cui parlava Dahrendorf, presentava problemi di tenuta delle leve del riformismo statale, in un quadro di internazionalizzazione dell’economia, e anche di consenso alle ricette classiche della sinistra che prevedevano un inasprimento fiscale in cambio di uno spettro di diritti. Quel modello di società in cui il pubblico guidava ambiti rilevanti dell’economia creando risorse da redistribuire attraverso le levi fiscali, infatti, inizia a perdere consenso proprio in quegli anni. Si afferma la rivoluzione neoconservatrice: Thatcher e Reagan, sul finire degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta smantellano il “vecchio” stato, e, con il ruolo del pubblico stesso, il “vecchio” modello di democrazia garante dei diritti di cittadinanza. In questo contesto, la sinistra tradizionale non poteva limitarsi a una semplice difesa delle antiche categorie, perché c’erano state trasformazioni nella geografia delle classi sociali, e i costi della mano pubblica, i processi di burocratizzazione rendevano elettoralmente difficile il mantenimento del consenso socialdemocratico. Alla crisi interna del modello sociale europeo si aggiunge il collasso del comunismo, che rende il capitalismo, dopo quasi un secolo di condominio dello spazio mondo tra mercato e pianificazione, l’unico soggetto economico su scala mondiale. La tesi di Hobsbawm, per cui i diritti di cittadinanza e la grande costituzionalizzazione novecentesca sono una risposta europea alla minaccia di un contagio sovietico, induce ad interpretare lo stato sociale come opera creativa delle socialdemocrazie in funzione di contenimento del modello espansivo russo. Senza più quella minaccia esterna, che costringeva la socialdemocrazia e anche formazioni moderate a compiti di redistribuzione e cittadinanza sociale, la socialdemocrazia stessa entra in una fase critica. Viene in luce che un capitalismo con democrazia e diritti sociali costituisce un’eccezione, non un connubio scontato e necessario. Il processo di rivisitazione delle categorie della sinistra coincide con l’enfatizzazione delle stesse dinamiche e concetti fatti propri dalla Thatcher: sotto questo profilo, tra la lady di ferro e Tony Blair è possibile riscontrare una differenza di grado, non un’opposizione qualitativa. Condividono infatti lo stesso paradigma, ovvero la critica della burocratizzazione e dell’egualitarismo, la necessità di introdurre parametri meritocratici e momenti di valutazione permanenti nel servizio pubblico; insomma, esiste una sostanziale continuità tra il thatcherismo ed il blairismo, che ne è una razionalizzazione. Dopo queste due stagioni si cumulano gli effetti negativi di quel modello ad impronta fortemente liberista e la sinistra europea non è più in grado di fornire risposte critiche percepibili alle nuove dinamiche del capitalismo. Anche in Italia c’era una grande tradizione di socialismo liberale o liberalsocialismo (pensiamo alla formula di Croce che distingueva tra liberismo economico e liberalismo etico-politico), che non era affatto interna al paradigma liberista. Oggi, invece, il cosiddetto socialismo liberale è più liberista che liberale: non c’è più l’attenzione liberale per i diritti individuali, per la sovranità del corpo, direbbe Stuart Mill. C’è invece una curvatura liberista che rende il vecchio impianto del socialismo europeo molto fragile, per cui quando, con la grande contrazione globale del 2007, scoppia la crisi di civiltà sono i movimenti euroscettici ed il populismo ad attrarre i consensi degli esclusi: il malessere sociale si indirizza più verso questi soggetti irregolari che verso le formazioni del socialismo europeo, che sono percepite come interne al paradigma dominante e nel sud Europa scompaiono.

La democrazia vive una fase di grave involuzione, i diritti sociali sono sotto attacco da decenni. Possiamo ricondurre ciò tanto a una crisi della modernità, i cui caratteri costitutivi starebbero secondo molti osservatori lentamente venendo meno, quanto agli esiti delle rivoluzione neoconservatrice di cui parlavamo poc’anzi. Quale pensa sia il nesso, se esiste, tra crisi della modernità e neoconservatorismo?

Michele Prospero: La democrazia vive un processo che alcuni studiosi americani, penso a Tilly, chiamano “deconsolidamento democratico”, in riferimento al venir meno della capacità integrativa della democrazia. Parliamo dell’eclisse del progetto che collegava la politica alla “vita buona”, ossia la democrazia costituzionale del Novecento. La democrazia subisce un processo involutivo perché, perduto il suo legame con i diritti, con la crescita, con la mobilità sociale, si tramuta in puro meccanismo procedurale. La democrazia vive quindi una fase di involuzione qualitativa, perché permane soltanto l’involucro minimale. È dunque una democrazia procedurale, ridotta sostanzialmente a tecniche elettorali e alla competizione per la definizione della leadership. La democrazia necessita di un involucro procedurale minimo. Però non può essere solo questo, perché là dove la democrazia si riduce a procedure formali, si creano meccanismi diffusi di alienazione politica, cioè una crisi di legittimazione e di fiducia. Si ha delegittimazione del ceto politico, crescono istanze di partecipazione e di controllo ma, soprattutto, le domande di “vita buona” non sono più rivolte alla politica, che non ha più risorse, spazi e quell’autonoma potenza sociale del lavoro indispensabile per decidere qualcosa di significativo per la vita dei soggetti. La crisi della modernità si lega dunque a doppio filo alla crisi della democrazia che nel Novecento aveva un soggetto, cioè il riferimento di tutte le Costituzioni al lavoro. Aristotele diceva che c’è un sovrano economico nelle costituzioni: nella democrazia questo sovrano economico era la centralità del lavoro, che era il presupposto dell’impianto dei diritti di cittadinanza e di civiltà. Venuto meno il riferimento al lavoro a causa della crisi delle socialdemocrazie e delle grandi trasformazioni della società e dell’economia di mercato, la democrazia non ha più un soggetto sociale a cui aggrapparsi. La conseguenza è che con la destrutturazione della base materiale della democrazia, il suo impianto lavoristico, essa diventa un centro di decisione sottoposto a permanenti pressioni di gruppi di interesse. Senza più il peso politico del lavoro, la democrazia diventa dunque vulnerabile, perché si accresce la capacità di influenza, di pressione e di decisione di media, denaro e finanza. Diventa più opaca la democrazia come sfera pubblica, tanto che si parla di “privatizzazione dello Stato”, cioè della potenza economica che acquisisce direttamente potere politico. C’è in questo un appannamento delle categorie del moderno: non a caso sfuma la differenza tra potenza e potere che è al centro delle riflessioni di Max Weber. Queste ondate di privatizzazione del pubblico sfidano la separazione moderna tra pubblico e privato, che finisce per saltare a causa della scomparsa, nella società civile, della potenza politica organizzata del lavoro. Ecco spiegata la capacità pervasiva degli agenti privati di influenzare l’arena politica, da cui consegue l’indistinzione tra spazio pubblico ed interessi privati. Il conflitto di interesse, difatti, non è un incidente di percorso, che poi in Italia assume aspetti caricaturali, ma diventa l’ossatura portante degli assetti politici contemporanei dopo la scomposizione del lavoro come soggetto politico autonomo.

Quale lettura dà del processo di mondializzazione avviato negli anni Ottanta? È la naturale evoluzione delle dinamiche del capitalismo finanziario o, secondo una lettura che va diffondendosi, una sorta di strumento della lotta di classe?

Michele Prospero: La mondializzazione, che è un termine francese, o più generalmente la globalizzazione, degli anni Ottanta è per un verso la conseguenza dell’affermazione del neoliberismo, del crollo dell’URSS e delle trasformazioni che hanno riguardato la politica negli ultimi trent’anni. C’è stato anche una spinta politica dei processi di mondializzazione. Basti pensare alle decisioni di Clinton nell’accelerazione dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione dei mercati. Ma, sulla lunga durata, la globalizzazione è l’essenza del capitalismo. Essa rientra nella regolarità dei processi espansivi del sistema capitalista. Marx, nel Manifesto del ‘48, diceva che il capitalismo ha la missione storico-universale di produrre un’economia-mondo come suo terreno di sviluppo. Marx diceva che il capitalismo produce un’economia mondiale, una cultura mondiale, una letteratura mondiale e quindi anche comunicazioni mondiali. La mondializzazione è dentro lo spaccato teorico dell’analisi che Marx fa della diffusione espansiva totale della forma di merce: la forma di merce, cioè, penetra nell’ambito del vivente in ogni parte del mondo. Quindi la globalizzazione per un verso conferma l’analisi critica di Marx, ma dall’altro mette in difficoltà le risposte politiche che le forze di sinistra possono mettere in campo. Non c’è nulla di più marxista della globalizzazione, perché è il capitale che ha conquistato il globo con la sua logica produttiva e questo per Marx è l’essenza della modernità che supera tradizioni, sentimentalismi. Ci troviamo però di fronte a un paradosso: l’inveramento della categoria marxiana del capitale come processo mondiale coincide con la fine di soggetti politici in grado di influenzare e contrastare i processi sociali ed economici, in quanto la mondializzazione dello spazio economico coincide con il restringimento dello spazio politico. Storicamente la sinistra era la curvatura del calcolo economico ottenuta con le leve del conflitto e del governo dello Stato. Ora, mancando questa leva politico-statuale, l’economia acquisisce un primato squilibrato sul momento politico. Le forze del mercato acquisiscono il vantaggio strategico di decidere come, dove e quando produrre, quale regime fiscale adottare, quali forme contrattuali privilegiare, avendo una libertà di movimento e di autonormazione quasi assoluta. Al contrario, le forze politiche e sociali sono spazialmente limitate e speso costrette a ratificare accordi, transazioni maturati tra il privato che diventa autolegislatore. Lo spazio per l’impresa, il capitale e la finanza è una grande opportunità, che spinge verso l’omogeneità dell’ambito degli scambi di mercato; per la politica, questa metamorfosi del territorio statuale in spazio indifferente della merce coincide con l’interruzione della capacità di pressione, in quanto priva di leve per un efficace intervento regolatore di carattere internazionale. Le richieste dei diritti urtano con il regime economico del mercato che produce disoccupazione in conformità alla logica della valorizzazione che richiede esercito industriale di riserva per contenere i salari. Questo meccanismo era stato rotto sul piano politico statuale, ma trova forme incontrollabili nell’attuale congiuntura. Per esempio, in Europa, l’allargamento ad est, così incontrollato ed indiscriminato, ha comportato l’indebolimento delle prestazioni sociali per il resto d’Europa, perché non esistendo lì diritti e sindacati, essendo il costo del lavoro più basso, le nuove opportunità di produzione si sono accompagnate a una generale compressione dei diritti. Gli economisti calcolano che un aggiustamento generale dell’economia mondiale si avrà tra circa 30-35 anni, quando cioè i salari delle tigri asiatiche e dei paesi in via di modernizzazione cresceranno e non ci sarà più il divario macroscopico tra l’Occidente ed i paesi emergenti. Con i salari più equilibrati cambieranno anche gli scenari della politica internazionale e i profili della lotta tra i soggetti politici e sociali. In questo quadro, è necessario distinguere tra l’Europa, spazio giuridico di mercato, legato ai principi della concorrenza, e altri paesi che conservano invece una sovranità politica, come i BRICS, dove esiste ancora un connubio forte tra economia e sovranità. In Europa, la mancanza di una sovranità continentale fa sì che il mercato e la concorrenza diventino autolegislatori: la legge perde sempre di più l’aspetto di norma positiva e di configurazione eteronoma, per diventare autonormazione dei soggetti privati (quasi una contraddizione in termini). Questo è dovuto all’asimmetria nel controllo dello spazio tra stato politico e mondo economico: la mancanza di una sovranità politica europea rende lo spazio non controllabile con le risorse della politica e del costituzionalismo novecentesco.

Veniamo al nostro Paese. In Italia la spoliticizzazione della società sembra non trovare argini e offre solide sponde a chi ha, o si ritiene abbia, qualcosa di “nuovo” da dire e da fare. Anche alla luce del suo “Il nuovismo realizzato”, edito da poco, quale interpretazione dà delle cause della naturale disposizione tutta italiana a non fare i conti con la dovuta radicalità con la propria condizione e a rifugiarsi dietro tutto ciò che sembra offrire una netta cesura con il passato?

Michele Prospero: L’Italia ha una peculiarità: negli ultimi 25 anni, solo il nostro paese ha conosciuto la crisi del modello economico e degli assetti istituzionali. Due crisi di regime nell’arco di vent’anni. Nel ‘92-’94 non crolla solo la partitocrazia, la repubblica dei partiti, ma anche il modello economico-sociale. Mentre i giudici arrestano i politici corrotti, avviene anche un’incursione del momento del vincolo esterno. Il trattato di Maastricht impone una rivisitazione del modello economico. Il rientro nei parametri europei suggerisce delle correzioni che non si sono rivelate efficaci: privatizzazioni, liberalizzazioni, misure per la concorrenza. L’Italia, infatti, nella Prima Repubblica, aveva una grande presenza dello Stato nell’economia e questo era importante soprattutto nei settori nevralgici (chimica, ENI, siderurgia ecc.), dove la presenza della mano pubblica garantiva investimenti in innovazione. Negli anni Novanta scompare la grande impresa pubblica e si consolida il dominio del nano-capitalismo, il micro capitalismo dei territori: un capitalismo a conduzione personale o familiare la cui propensione agli investimenti è scarsa e in molti casi impossibile a realizzarsi. Il collasso tra la Prima e la Seconda repubblica è dunque non solo politico, ma anche economico-competitivo. La fine dell’impresa pubblica e della grande impresa a partecipazione statale comporta la fine dell’innovazione e l’incapacità dell’Italia di competere sul piano tecnologico. La Prima Repubblica aveva una forte cultura keynesiana, che poi degenera anche in forme di corruzione, ma che aveva garantito crescita e mantenimento di capacità innovative e competitive. Senza più questa presenza pubblica, l’Italia degli anni Novanta non riesce più a competere ed innovare. Alla base di tutti i dissesti politici della Seconda Repubblica c’è il nodo di fondo che l’economia italiana, a causa della deindustrializzazione, lo smantellamento della grande impresa pubblica, le delocalizzazioni, si fonda ormai quasi esclusivamente sulla piccola impresa, che può competere solo con la flessibilità o la precarietà, cioè con il contenimento del costo del lavoro. È una piccola impresa con scarso spirito innovativo. Questo fa sì che l’Italia sia l’unico paese che negli ultimi vent’anni non è riuscito a crescere. La nostra economia è di fatto stagnante almeno dalla fine degli anni Novanta, con alcune interruzioni congiunturali. Il modello della piccola impresa, in una società dell’economia della conoscenza, della robotica, dell’informatica non è competitivo e non riesce a stare sul mercato. Nasce così una forte avversione e risentimento verso il ceto politico, a cui i piccoli imprenditori addossano le colpe dei limiti del tessuto economico, che proprio perché fondato sulla piccola impresa, non riesce a delineare orizzonti di crescita e di innovazione competitiva. L’Italia entra in crisi in questi ultimi vent’anni perché scoppiano, prima nel ‘92-’94 e poi nel 2010-2013, due momenti di tensione là dove il vincolo esterno europeo si fa più stretto. La prima volta si impongono privatizzazioni, la finanziaria lacrime e sangue di Giuliano Amato con il prelievo forzoso sui conti correnti, la parentesi tecnica affidata a Ciampi: cose che favorirono l’emersione di Forza Italia e della Lega. Nel 2010-13 emerge nuovamente il vincolo esterno europeo con la lettera estiva della BCE: si chiedono drastiche misure di rientro del debito in un quadro di forte ascesa dello spread, e si ha così la nascita, volendo semplificare, del fenomeno Grillo come risposta in chiave comica alle misure di austerità adottate dal governo che aveva assunto una maschera tecnica. L’antipolitica non è solo un fenomeno e un dialetto eccentrico e radicale, ma ha anche una base economica e materiale, cioè le difficoltà del sistema economico basato sulla piccola impresa di essere competitivo e di garantire crescita.

Spesso nei suoi scritti si richiama l’urgenza di ricostruire solidi corpi intermedi, primi tra tutti i partiti, per arginare e sconfiggere la dilagante e subalterna tendenza all’immediatezza e al pragmatismo tipica del nostro tempo. Ritiene possibile una riedizione della vecchia forma partito, o sono necessari cambiamenti? Se sì, quali sono gli aspetti dei vecchi partiti di massa che occorre riesumare, e quali vanno invece inverati per poter essere adattati alle esigenze presenti?

Michele Prospero: Il partito politico è un’istituzione della società moderna. Questo fatto, rimarcato da Gramsci o da Lipset o da Huntington, è confermato dalle dinamiche storico-politiche: in tutti i paesi, non solo nella vecchia Europa, compare almeno un partito quale leva della costruzione di Stati (Russia, Cina) o molti partiti per strutturare una democrazia competitiva. Questo vuol dire che il partito è un’istituzione quasi necessaria, anche se il concetto di necessità è un concetto che in politica non ha facile cittadinanza. Senza i partiti però non si governano società moderne di mercato, rette da sistemi democratici competitivi. Il partito è il soggetto della mediazione, non nel senso che deve mediare fra tutti gli interessi, che sarebbe la metafora del partito clientelare, ma costituisce l’anello di congiunzione tra la società e lo Stato. La modernità è la separazione della società, che funziona con il contratto ed il negozio giuridico, cioè meccanismi privati di regolazione, e lo Stato, come momento della regolazione eteronoma, della sanzione giuridica organizzata e monopolizzata. Questo è il moderno per Marx e anche per Weber: lo Stato che si separa dalla società. Proprio per questo però non è possibile che i due momenti del pubblico e del privato restino senza una congiunzione. L’aspetto della mediazione e della congiunzione era presente già in Hegel, nei Lineamenti di filosofia del diritto, quando vedeva la società civile moderna, lo Stato astratto e credeva che le corporazioni fossero il momento della mediazione. I partiti sono altra cosa rispetto ai corpi intermedi di Hegel o Montesquieu: sono la proiezione della libertà soggettiva, il prolungamento del soggetto che si lega ad altri per costruire momenti di influenza e quindi una volontà collettiva. Il partito è quindi indispensabile perché senza agenzie collettive stabili salta la mediazione, ovvero si lacera un tassello costitutivo del Moderno. Il problema italiano è che abbiamo un panorama anomalo per via della decomposizione della mediazione politica: non esistono più i partiti da circa vent’anni e l’opera della loro ricostruzione è stata un fallimento, da ultimo ricordiamo il tentativo di Bersani durante la sua segreteria. C’è stato un effetto contagio, per dirla con Duverger: a sinistra, l’effetto contagio è la tendenza di tutti i partiti a dotarsi delle forme classiche del partito di massa; a destra invece è l’americanizzazione. In Italia, nella Seconda Repubblica, fallito l’effetto contagio di sinistra per cui il modello di partito di massa era il punto di riferimento anche per i partiti di centrodestra, abbiamo avuto un contagio da destra, ovvero partiti personali e carismatici, cartelli elettorali, che hanno sfondato anche a sinistra. In Italia si soffre una mancanza, in tutte le culture politiche, di qualsiasi forma, sia pure embrionale, di politica organizzata. La conseguenza di ciò è la carenza di classi dirigenti. Chi forma le classi dirigenti in un paese senza partiti? Esse sono inventate, provengono dall’impresa, dalla società civile, da sfere di amicizia e cooptazione ad ogni modo lontane dalla politica. In questo, bisogna far riferimento ad una valutazione di Max Weber, che affermava la necessità di allontanare lo spirito letterario in politica, cioè il mito dell’uomo della società civile, che senza saper nulla del conflitto politico diventa uomo di Stato. Occorre però schivare anche altri due momenti: la tecnocrazia, in quanto un politico non deve essere un tecnico, ma deve sapere come usare anche le competenze tecniche ai fini di costruire politiche e catturare consenso, cioè l’attitudine strategica a conquistare fiducia. Weber escludeva infine il politico che proviene dall’impresa: l’imprenditore non può diventare uomo di Stato, perché questo porterebbe alla riedizione di forme di neopatrimonialismo politico. In Italia, la mancanza di partiti come anelli insurrogabili di costruzione di classi dirigenti e percorsi di selezione della leadership, lascia spazio a scalate del potere fatte in maniera irregolare. Solo in Italia, per dirne una, ci sono esempi prolungati di capi di Governo che non sono neanche membri delle Camere. Nella Seconda Repubblica sono quattro i Presidenti del Consiglio non parlamentari ed è una spia molto significativa. L’unico esempio in tal senso riscontrabile in Europa è quello del richiamo di De Gaulle nel ‘58 quando gli fu attribuito il potere costituente, ma si trattava di una crisi di regime. In Italia a Presidenti del Consiglio non eletti precedentemente in Parlamento, si accompagnano partiti ridotti a corpi flaccidi senza nervi e strutture portanti. Questo fa sì che accanto a velleità del capo che si presenta come uomo solo al comando, subentra uno scenario tardo ottocentesco, cioè il Parlamento dei notabili, il Parlamento trasformistico, il territorio affidato al potere incontrastato dei cacicchi indifferenti alle dinamiche nazionale e pronti di mettersi al servizio di qualsiasi leader, nella sicurezza che tanto nel territorio solo al lui spetta la sovranità in ultima istanza. Accanto allo squilibrio di potere tra il Governo e il legislatore, che fa parlare di democrazia non più rappresentativa ma esecutiva, si avverte un fenomeno di avanzata scomposizione dei gruppi parlamentari (sono più di 200 tra deputati e senatori che hanno cambiato la propria appartenenza politica negli ultimi due anni). Questo è appunto il ritorno ad una politica pre-democratica: la caratteristica della democrazia nel secondo dopoguerra, grazie ai partiti di massa disciplinati e compatti, era stata quella di demolire le radici storiche del trasformismo, che non era certo soltanto una deleteria manifestazione del parlamentarismo mediterraneo. La comparsa del partito moderno ha messo fine a questo fenomeno, là dove esso tiene un piede nella società, con capacità di mobilitazione politica e socializzazione, e un piede nelle istituzioni, come attitudine di governo di realizzazione dell’indirizzo politico. Il partito di massa è la sintesi tra organizzazione nella società e controllo della decisione politica anche statuale. Senza di esso, si ha ancora il controllo dello Stato da parte del ceto politico, ma è un controllo evanescente, perché in Italia la politica decide sempre di meno. Non ci sono più grandi imprese pubbliche, proliferano le Autorità indipendenti (e legiferanti), cresce l’impatto della decretazione e il ricorso al voto di fiducia e infine il Parlamento è chiamato principalmente a funzioni di ratifica della legislazione europea. Siamo dunque in presenza di un ridimensionamento generale dello spazio politico, le cui decisioni sono vincolate a decisioni prese altrove. La ricostruzione dei partiti non può quindi non avvenire che su scala europea. La formula di Gramsci, partito come “moderno principe”, ha avuto una certa fortuna nella Prima Repubblica, ora però il rilancio della funzione statuale dei partiti è possibile solo su scala europea, con la costruzione di grandi famiglie e macchine organizzative europee. Oggi i partiti politici europei sono sigle, famiglie evanescenti e con deboli strutture organizzative. Servirebbero strutture organizzative permanenti. La costruzione dell’Europa politica è fallita perché è stata affidata al primato della moneta, prima che all’integrazione politica (di cui solo la potenza tedesca può fare a meno). Questo meccanismo dei due tempi ha fallito e dunque il rilancio del progetto europeo implica la centralità del partito di massa su scala europea: solo il partito europeo può a questo punto ricostruire una sovranità a livello continentale. Certo, il partito politico andrebbe ricostruito al suo interno nei suoi aspetti multi-funzionali: socializzazione politica, radicamento sociale, controllo del territorio, membership, selezione dei gruppi dirigenti, lavoro nelle istituzioni, macchina organizzativa. Ma le scelte adottate, come l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, indeboliscono ancora di più i soggetti politici, rendendoli molto esposti al potere di condizionamento delle grandi imprese, cioè di chi ha il denaro e può orientare la selezione delle classi dirigenti.

Nel nostro Paese la crisi dei partiti è stata accompagnata dal proliferare di associazioni, coordinamenti e reti tematiche che nel senso comune costituiscono la cosiddetta “società civile”. Non possiamo che richiamarci al tuo “Libro nero della società civile” chiedendoti a quali condizioni un fermento di questo tipo può effettivamente portare un contributo positivo alla vita politica nazionale e quando invece finisce per assecondarne tendenze disgregative, come la progressiva desertificazione partitica e sindacale in atto ormai da decenni.

Michele Prospero: L’alternativa secca tra il cosiddetto capitale sociale (le reti dialogiche, la democrazia deliberativa dal basso) e i partiti ha avuto una funzione destrutturante nella politica italiana. Ovviamente la politica non può essere ridotta al solo momento del partito, ci sono infatti molteplici soggetti e figure che richiamano a una funzione politica ricoperta nelle forme dell’autonomia. In Italia c’è stata però una contrapposizione radicale tra la società civile presentata come luogo della spontaneità della dimensione dialogica e il ceto politico raffigurato come casta e come momento del tutto parassitario e distruttivo. In realtà, se noi guardiamo con attenzione l’Italia, là dove c’è società civile ci sono anche i partiti, viceversa dove mancano i partiti non c’è nessuna traccia di società civile. Anzi, se noi guardiamo al tessuto di reti civiche presenti nelle periferie della Roma di oggi, ci accorgiamo che la destrutturazione della presenza territoriale dei partiti produce alienazione, populismo aggressivo. Il venir meno delle sezioni dei partiti di massa nelle periferie o nell’Italia meridionale non ha lasciato grande proiezione alla società civile, al contrario ha lasciato il territorio in mano alla criminalità, a momenti di irresponsabilità, di razzismo, di pregiudizio e così via. La mancanza di partiti nel territorio non restituisce la città alla società civile, ai mitici cittadini informati, ma la rende uno spazio altamente inospitale: dove mancano partiti che presidiano il territorio, infatti, sfumano anche le capacità di tenuta civica e quindi di crescita della società civile.

Tornando alla sinistra, essa soffre indubbiamente della mancanza di un mito di mobilitazione di massa di cui invece dispone l’avversario, penso alla liberazione dell’individuo da ogni tipo di vincolo, alla libera espressione della propria volontà di potenza. Quale è secondo te il terreno su cui provare a costruirne uno capace di dotare la nostra parte della necessaria autonomia? C’è chi propone una nuova declinazione della democrazia, chi una ripoliticizzazione del lavoro…

Michele Prospero: La debolezza della sinistra dimostra un assunto: senza ideologia non c’è lotta politica, né partito politico. Un sociologo, Alessandro Pizzorno, rivendica il connotato fortemente positivo dell’ideologia. Lo aveva già mostrato Gramsci. La destra, che ha prodotto una forte ideologia culturale, ha una solida intelaiatura ideologica. Dinnanzi a questa destra fortemente identitaria (il mercato da un lato, e dall’altro una presunta solida comunità di valori), la sinistra sconta quello che lo storico francese Rosanvallon ha chiamato “fallimento della alternativa pragmatica alla caduta del comunismo”. Cioè, dopo la caduta del comunismo, la sinistra europea ha cercato nel pragmatismo e nella proposta del buon governo una risposta efficace. In realtà, questo tipo di soluzione pragmatica e ragionevole lascia senza riferimenti tutti i ceti sociali popolari che prima trovavano nei partiti ideologici di massa della sinistra più radicale non solo degli interpreti, ma anche degli orizzonti di senso. Il pragmatismo, altra cosa è una cultura di governo, non basta, non avendo una capacità disciplinatrice nelle dinamiche conflittuali della società moderna. Il fatto che sia scomparsa, secondo alcuni, la vecchia antitesi tra capitale e lavoro, non significa che sia scomparso del tutto il conflitto: si attenua quello sociale per i diritti, per il potere nelle fabbriche ma a questo terreno di inimicizia abbandonato subentrano altre inimicizie, sfociando nel conflitto culturale, etnico, religioso ecc. La sinistra europea ormai è una sinistra della classe media riflessiva, dei soggetti metropolitani scolarizzati sensibili ai nuovi diritti civili e alle nuove questioni ambientali. È forte nelle metropoli, tra gli insegnanti, fra gli intellettuali, nel lavoro autonomo creativo, ma è completamente assente nei ceti più marginali. La sinistra appare come il rifugio di chi sta bene e ha la puzza sotto il naso, mentre gli ultimi e i lavoratori, che non hanno nessuna coscienza politica legata alla loro condizione, sono molto sensibili ai miti e alle narrazioni delle destre, che politicizzano istinti e pulsioni elementari. Nella politica contemporanea non scompare l’inimicizia, ma si attenua, perché priva di interpreti politici, solo quella legata al progetto e al conflitto sociale. In compenso, compaiono nuove forme di ostilità fortemente regressive. La ripoliticizzazione del lavoro, nella condizione data, è quindi indispensabile per il rilancio della sinistra moderna. Senza di essa, si creano due società antagoniste: quella dei soggetti centrali ed istruiti e quella dei soggetti periferici, delle “vite di scarto”, che coltivano un senso di estraneità e di odio verso il centro della società postmoderna: i colti, ed i benestanti delle funzioni pubbliche.

Scritto da
Matteo Giordano

Classe '96, studia Filosofia alla Sapienza di Roma.

Scritto da
Tommaso Sasso

Studia giurisprudenza all'università di Roma 3. È membro del Comitato di redazione di Italianieuropei.

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