Recensione a: (a cura di) Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi ed Elia Zaru, Istituzione. Filosofia, politica, storia, Almanacco di Filosofia e Politica, vol. II, Quodlibet, Macerata, 2020, pp. 304, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Matteo Pagan
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L’obiettivo dichiarato dell’Almanacco di Filosofia e Politica, diretto da Roberto Esposito, è quello di aprire uno spazio di discussione e di riflessione filosofica sulla politica. Nello specifico, la questione principale che l’Almanacco intende sollevare verte sul rapporto tra la crisi globale che ha investito la politica e alcuni limiti del pensiero politico contemporaneo. Avviare una nuova stagione politica, oggi, non sembra più possibile; interrogare criticamente quest’apparente impossibilità e i paradigmi teorici che contribuiscono (inconsciamente) ad accentuarla è quanto mai necessario, se si vuole anche solo pensare una politica altra. Si tratta di un cantiere aperto e decisamente plurale: l’Almanacco si dimostra capace di mantenere al proprio interno posizioni anche molto diverse tra loro, evitando di cadere in una reductio ad unum. Ne è prova la varietà dei contenuti offerti al lettore dal secondo volume dell’Almanacco, intitolato Istituzione. Filosofia, politica, storia (a cura di M. Di Pierro, F. Marchesi, E. Zaru, Quodlibet, Macerata 2020). Il testo è diviso in tre sezioni: la prima, Interventi, raccoglie i saggi di affermati studiosi e studiose come Roberto Esposito, Massimo Recalcati, Paolo Napoli, Judith Revel, Miguel Vatter, Ubaldo Fadini e Nadia Urbinati; la seconda, intitolata Monografica, è composta dagli interventi dei partecipanti al Seminario permanente di filosofia e politica, tenutosi presso la Scuola Normale Superiore nel corso dell’anno accademico 2018/2019. Infine, l’Archivio raccoglie saggi inediti o ancora non tradotti in italiano di autori celebri – in questo caso Yan Thomas, Paul Ricœur e Cornelius Castoriadis – che costituiscono dei riferimenti importanti per il dibattito sull’istituzione. In questa sede non è né possibile né utile riassumere il contenuto di ogni saggio che compone questa ricerca collettiva; ciò che compete a chi commenta è semmai offrirne alcune chiavi di lettura.
Istituzione approfondisce e sviluppa l’ipotesi di ricerca inaugurata nel primo numero dell’Almanacco[1], dedicato alla crisi delle prospettive immanentistiche sul versante della riflessione politica. Il nesso tra politica e immanenza, categoria attorno a cui si è costruita una parte considerevole della filosofia politica continentale negli ultimi decenni, appare ormai tutt’altro che scontato. Ciò che più fa problema di queste posizioni è la loro concezione rigidamente dualistica del rapporto tra il potere e il soggetto politico: il potere viene sempre considerato come una istanza esterna all’azione del soggetto. Quest’assunzione problematica non è una recente novità all’interno del dibattito filosofico-politico: già il movimento del Sessantotto aveva contrapposto all’oppressione del Potere una liberazione del Desiderio. In seguito, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta, l’emancipazione politica è stata ridotta alla proliferazione illimitata della differenza individuale e la politica è stata descritta come lo scontro tra due poli contrapposti: da una parte un potere costituito del tutto negativo, reazionario, e, dall’altra, un potere costituente completamente affermativo. Questa divisione ha implicato nel corso degli anni una separazione sempre più netta tra politica e società e, con essa, il bipolarismo tra la staticità del politico e la dinamicità del sociale, tra l’oppressione e l’emancipazione, tra le istituzioni e i movimenti. Quest’ultimi provocano spesso e volentieri esplosioni di antagonismo che però faticano a conseguire efficacia e durata – si pensi, ad esempio, al movimento dei Gilets Jaunes in Francia –, mentre d’altra parte le istituzioni appaiono sempre più distanti e incapaci di indirizzare le rivendicazioni sociali. Il volume curato da Di Pierro, Marchesi e Zaru ambisce a superare questa impasse attraverso la categoria centrale di istituzione[2], intesa in un senso non statico ma dinamico come istituire. Le categorie di Stiftung e Institution, formulate in un primo momento dalla tradizione fenomenologica di Husserl e Merleau-Ponty e poi rielaborate in un senso più propriamente politico da Claude Lefort, permettono di pensare insieme istituente e istituito, trasformazione e conservazione, conflitto e ordine. In questo orizzonte teorico, la dinamica dell’istituire non è riducibile alla tradizionale forma politica, statica e limitante, ma non coincide neanche con un movimento istituente del sociale, la cui rifondazione continua rende impossibile una qualsiasi messa in forma; l’istituire è semmai una via per articolare la società e la politica, al di là del dualismo tra movimento e fissazione. Spostare l’accento dal sostantivo alla forma verbale, dall’istituzione all’istituire, significa infatti dare “forma vitale alla forza[3]”, ovvero non reprimere il movimento, ma al contrario incanalarlo nella forma stessa. La posta in gioco è alta: pensare un sociale ricomposto, un orizzonte di senso condiviso in cui le differenze, oggi disperse e irrelate, possano riconoscersi senza annullarsi. Il rifiuto della pura immanenza si collega quindi alla necessità di pensare un’unità che – salvaguardando la propria pluralità interna – ricomponga l’isolamento e la dispersione.
Questo non significa però ricadere nella trascendenza teologico-politica: infatti, il cosiddetto “pensiero istituente” afferma chiaramente la volontà di superare la teologia politica, il suo lessico e le sue categorie (Di Pierro, Marchesi, Zaru, a cura di, 2020, p. 17). L’ordine non è allora inteso come qualcosa di trascendente che dà unità al diverso, ma semmai come uno scarto nell’immanenza capace di determinare la distinzione e la non-coincidenza, condizioni di possibilità del contrasto politico. Non sorprende allora il rifiuto di quella concezione puramente conservatrice dell’istituzione come katéchon, che Paolo Napoli definisce “istituzione Leviatano” (ivi, p. 59), e il recupero della categoria merleau-pontiana di Institution. Nel corso tenuto al Collège de France tra il 1954 ed il 1955 Merleau-Ponty aveva infatti messo in luce come l’istituzione non fosse il mantenimento statico dell’ordine, ma una relazione dinamica tra un’attività istituente e uno stato istituito, relazione che lui stesso definisce in termini politici: «Rivoluzione e istituzione: la rivoluzione è re-istituzione, che culmina nel rovesciamento dell’istituzione precedente»; «l’istituzione non è il contrario della rivoluzione: la rivoluzione è un’altra Stiftung[4]». Questa specifica categoria di istituzione offre la possibilità di concepire il sociale e la politica al di là di ogni dualismo tra il conflitto e l’ordine: questi due termini non sono più estranei e frontalmente contrapposti, ma intrecciati in una correlazione continua. «Non si dà, allora, un conflitto estraneo e contrario all’ordine, ma piuttosto un conflitto come relazione a e proiezione di un ordine. […] Un conflitto, insomma, che crea ordine, e ordini nuovi, nuovi significanti, inediti legami e opposizioni» (ivi, p. 10, corsivo nostro). A sua volta l’ordine non si oppone al conflitto, ma semmai emerge dal conflitto e ne condivide la dinamicità. Da questo punto di vista il verbo “istituire” assume maggiore rilevanza rispetto al sostantivo “istituzione”, che ne costituisce un punto di arrivo temporaneo e superabile in una diversa configurazione.
Non si tratta quindi di ritornare all’istituzione in quanto semplice conservazione di ciò che è già istituito, ma di articolare, sulla scia di Merleau-Ponty, la sedimentazione e l’innovazione: il novum non sorge dal Nulla[5], ma dalla ripresa e dalla trasformazione di qualcosa che è già sedimentato nel tempo. Ecco il rimando alla dimensione della storia a cui il sottotitolo del volume fa riferimento; proprio nel rapporto con il tempo storico è infatti possibile rintracciare le due istanze opposte e complementari su cui Istituzione si fonda: da una parte il rifiuto della trascendenza teologico-politica e, dall’altra, il rifiuto di un puro piano di immanenza. La temporalità dell’istituire non è né una pura immobilità né un presente evenemenziale – due modi diversi per dissolvere la dimensione della storia –, ma un processo in cui un persistere passa nel divenire e il divenire conduce a un persistere. Queste due dimensioni hanno un carattere relativo e non assoluto: non vi è né divenire assoluto né eternità immobile, ma chiasmo di dinamicità e staticità, di flusso e fissità. La fecondità della concezione merleau-pontiana dell’istituzione risiede proprio nell’esaminare l’evento storico sempre in riferimento alla tradizione in cui necessariamente si iscrive: l’istituzione «congiunge con un unico gesto la tradizione che riprende e la tradizione che fonda[6]». In altre parole, l’evento storico modifica sempre il campo già istituito nel quale si iscrive e così facendo ne apre un altro dotato di senso: si tratta dell’inaugurazione di una tradizione nuova nella storia. Così facendo si rinuncia, da una parte, all’esaltazione dell’evento in quanto tale e, dall’altra, al suo inserimento forzato all’interno di una storia dialettica e teleologicamente orientata. È proprio questa considerazione della storia in un senso né messianico né escatologico che distingue il “pensiero istituente” dalla potenza destituente teorizzata da Giorgio Agamben e dal potere costituente di Toni Negri. La “terza via” che il volume Istituzione elabora nasce infatti dall’esigenza di superare sia una teologia politica della negazione di matrice heideggeriana sia un’ontologia politica dell’affermazione di matrice deleuziana, due prospettive teoriche dimostratasi incapaci di avere effetti politici significativi. È però importante segnalare che la stessa biopolitica affermativa di Roberto Esposito finiva per rivestire la vita di una potenza affermativa che non richiedeva di essere politicamente istituita e che anzi era destinata a contrastare ogni istituzione, intesa solo negativamente come repressione e disciplinamento. Il pensiero istituente si configura quindi anche – se non soprattutto – come il risultato di una riflessione autocritica.
In definitiva, l’istituzione coincide con l’avvenimento di un senso che «è scarto rispetto a una norma di senso, differenza[7]», ma che allo stesso tempo non liquida assolutamente ciò che lo precede: è una «trasformazione che conserva […] e supera[8]». Quest’idea della trasformazione come superamento relativo e la ripresa, mediata da Merleau-Ponty e Ricœur, della categoria di “spirito oggettivo[9]”, sembra avvicinare determinati aspetti del pensiero istituente alla filosofia di Hegel. In effetti, la figura hegeliana dello spirito oggettivo si rivela utile per una prospettiva filosofico-politica che, rifiutando sia la dissidenza informe sia la forma rigida dell’“istituzione Leviatano”, cerca di instaurare un rapporto dinamico, in formazione, tra la libertà e l’istituzione: la libertà necessita di una “messa in forma” (ivi, p. 11), ovvero della mediazione istituzionale, per realizzarsi; altrimenti, come Hegel ha messo in mostra nel capitolo sul Terrore de La Fenomenologia dello Spirito, rischia di ridursi alla semplice “furia della distruzione”. Questo non implica l’assunzione di una posizione conservatrice, ma semmai determina l’inaugurazione di un riformismo filosoficamente fondato, radicale ma non utopico. L’impressione è che si riprenda la dialettica hegeliana solo come movimento mediatore, rifiutando al contempo qualsiasi idea di sistema chiuso: infatti, si potrebbe affermare che l’istituire tenda a riaprire il processo dialettico, e non a richiuderlo. Più che a Hegel, la prospettiva sviluppata da Istituzione sembra allora avvicinarsi alla sinistra hegeliana – che, come è noto, interpretava la dialettica in senso progressista come un movimento perenne – o alla «dialettica senza sintesi[10]» (o iper-dialettica) elaborata da Merleau-Ponty ne Il visibile e l’invisibile. Ora, se si considera che gran parte della filosofia politica continentale degli ultimi decenni si è dichiarata radicalmente anti-hegeliana, verrebbe da chiedersi se non avesse ragione Foucault, quando nella sua lezione inaugurale al Collège de France affermava la necessità di valutare se la stessa opposizione a Hegel non fosse altro che «l’ennesima astuzia che ci oppone, e al termine della quale ci attende, immobile e altrove[11]». Anche se Hegel è indubbiamente un pensatore da cui non si può mai del tutto prescindere, sarebbe comunque opportuno specificare quali elementi del pensiero hegeliano bisogna (forse inevitabilmente) assumere e quali è invece necessario abbandonare per elaborare un paradigma teorico che voglia essere politicamente produttivo. In effetti, come ho già accennato in apertura, questo è il principale obiettivo di Istituzione e non si può negare che in questo senso la prospettiva delineata dal volume sia promettente. Da un punto di vista teorico, il principale merito di questa ricerca collettiva risiede nel separare il rifiuto del sistema hegeliano dall’eliminazione di qualsiasi figura del negativo. Tornare a fare i conti con il negativo non significa ipostatizzarlo, ma riconoscerlo e anzi utilizzarlo per evitare la dissoluzione del politico nella pura immanenza, senza per questo tornare alla teologia-politica. Non vi è affermazione senza negazione: l’istituire è un negativo fecondo, una mediazione che permette un’articolazione affermativa tra società e politica. Quanto questa riflessione filosofico-politica sia attuale e necessaria oggi, in un periodo storico ancora dominato dalla falsa narrazione di un’inaggirabile opposizione tra popolo ed élite, ci sembra difficilmente contestabile.
[1] Cfr. Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi (a cura di), Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione, Almanacco di Filosofia e Politica, vol. I, Quodlibet, Macerata, 2019.
[2] Questa nozione è stata ripresa recentemente proprio da Roberto Esposito. Cfr. Roberto Esposito, Pensiero Istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino, 2020. In generale, il tema dell’istituzione è tornato d’attualità non solo nell’ambito degli studi politologici e giuridici, ma soprattutto in quello degli studi filosofici sulla politica e sul diritto. Cfr. Enrica Lisciani-Petrini e Massimo Adinolfi (a cura di), Il problema dell’istituzione. Prospettive ontologiche, antropologiche e giuridico-politiche, «Discipline filosofiche», XXIX, 2, 2019.
[3] In questo senso la “teoria clinica dell’istituzione” proposta da Massimo Recalcati apporta un contributo significativo: «può esistere solo un’istituzione che tende a dare forma vitale alla forza, a unire e non opporre il desiderio alla Legge». Massimo Recalcati, Il campo istituzionale tra Legge e desiderio: abbozzo per una teoria clinica dell’istituzione, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione. Filosofia, politica, storia, «Almanacco di Filosofia e Politica II», Quodlibet, Macerata 2020, p. 51.
[4] Maurice Merleau-Ponty, L’institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France (1954-1955), Belin, Paris, 2003, p. 42 e 44, tr. nostra.
[5] Nel corso sull’istituzione Merleau-Ponty afferma che la rivoluzione non è la fine né della storia, né della preistoria, ma semmai l’apertura di una storia altra, la creazione di una tradizione nuova nella storia. È questo il senso della rivoluzione reale ma relativa che egli propone (Ivi, p. 62). Quest’idea della rivoluzione relativa distingue la posizione di Merleau-Ponty da quella di Sartre. In una nota a margine dell’introduzione al corso Merleau-Ponty scrive: «Bisogna mostrare in che senso l’avvenire è gestiftet nell’intenzione fondatrice, in che senso la continua così come la cambia, perché è questo che condiziona la discussione della tesi di Sartre: Sinngebung lacerante, che fa sorgere l’assolutamente nuovo, l’illusione prospettiva, – e la mia posizione: ammetto la rivoluzione, ma relativizzata». Ivi, p. 42.
[6] Maurice Merleau-Ponty, Le langage indirect et les voix du silence (1952), in Id. Signes, Gallimard, Paris, 1960, p. 79, tr. nostra.
[7] Maurice Merleau-Ponty, L’institution, la passivité., op. cit., p. 41, tr. nostra.
[8] Ivi, p. 58, tr. nostra.
[9] Categoria che non a caso Merleau-Ponty definisce «una risorsa » nella sua lezione inaugurale al Collège de France. Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Eloge de la philosophie et autres essais, Gallimard, Paris, 1953, p. 55; cfr. Paul Ricœur, Il conflitto: segno di contraddizione o di unità?, in Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi, Elia Zaru (a cura di), Istituzione, «Almanacco di Filosofia e Politica II », op. cit., pp. 272-274.
[10] «Ecco il punto da tener presente: che la dialettica senza sintesi, di cui parliamo, non è però lo scetticismo, il relativismo volgare, o il regno dell’ineffabile. Ciò che respingiamo o neghiamo non è l’idea del superamento che riunisce, ma l’idea che esso metta capo a un nuovo positivo, a una nuova posizione». Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1969, p. 115.
[11] Michel Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris, 1971, p. 75, tr. nostra.