Recensione a: François-Xavier Fauvelle e Anne Lafont (a cura di), L’Africa e il Mondo. Riannodare le storie dall’antichità al futuro, traduzione di Marco Aime, Andrea de Georgio, Giulia De Marco e Anna Donà, add editore, Torino 2024, pp. 488, 35 euro (scheda libro)
Scritto da Emanuele Bonanno
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All’interno di una formula relazionale dipendente, ergo la cui manifestazione nel reale sia distinta da una precisa suddivisione gerarchica tra il dominato e il dominante, tra un agente “ricevente” e uno “donante”, gli attributi afferenti alla soggettività del primo vengono solitamente attribuiti tramite la volontà del secondo. In particolare, seguendo un processo formativo dalla duplice natura, il dominato verrebbe non soltanto sussunto come attore passivo, e dunque incapace di esercitare una propria “agentività” nei rapporti con la dimensione spazio-temporale, ma persino nella costruzione di una sua identità interiore che lo possa distinguere da differenti agenti, o che metta in risalto la propria complessità soggettiva.
Dando seguito a una logica di rottura con tale impostazione, che ha da sempre contraddistinto la lunga tradizione degli studi su colonialismo, post-colonialismo, imperialismo e nuove forme di dominanza, i curatori di L’Africa e il mondo. Riannodare le storie dall’antichità al futuro (add editore) François-Xavier Fauvelle e Anne Lafont si inseriscono nel presente dibattito sulle eterogenee modalità dei contributi che il continente africano, pur nelle sue diversità, ha saputo sviluppare e lasciare in eredità nel corso della Storia. Difatti, in un contesto storico come quello odierno, in cui, dalle aule universitarie alle piazze pubbliche, estese discussioni vengono intraprese in merito alla restituzione di ampie porzioni del patrimonio storico e archeologico dell’Africa da parte dei musei euro-americani, il volume si propone di restituire al pubblico una “mappatura”, o una sequenza di coordinate, che abbiano come fine ultimo quello di ridare una soggettività storica, culturale e politica al continente africano. Per soggettività, tuttavia, non si vuole intendere un assoluto protagonismo dell’Africa, o di un’indefinita africanità da esporre, se rapportata con attori esterni. Al contrario, ciò che vuole essere posto come fondamento teorico di base di ogni capitolo del libro è la “compartecipazione”, la (com)presenza africana quale elemento (co)soggettivo nel susseguirsi della Storia. L’aspirazione degli autori, dunque, assistiti dai più svariati contributi dal mondo dell’accademia[1], è di ricercare il fil rouge dell’africanità quale fattore presente e agente, che plasma, reinterpreta, integra e fa proprie le manifestazioni del mondo circostante, dal commercio alla religione, dall’arte manifatturiera a quella pittorica, dalla tratta schiavista al rapporto conflittuale e collaborativo con le entità politiche europee e non europee. Pur basandosi su un’impostazione descrittiva di stampo diacronico, vale a dire seguendo una linea temporale che attraversa molteplici tappe, dalle primissime manifestazioni comunitarie del tardo Neolitico alle più recenti evoluzioni politiche e culturali della diaspora africana, l’opera si differenzia da altri lavori dalla finalità simile per il suo approccio multidisciplinare. Mentre una digressione fondata sulle strutture statali e sub-statali africane rimane un passaggio quanto mai obbligatorio per mettere in risalto l’influenza africana nei maggiori eventi accaduti nei secoli, nei vari capitoli le strutture “inter-agenti” sono enucleate nei settori più disparati, dalle reti commerciali alle confraternite religiose, dalle comunità transnazionali della diaspora africana alle singole entità statali proprie del continente, passando infine per concetti più astrattamente presenti, quali la memoria collettiva e la ricostruzione dell’identità post-coloniale.
Partendo dall’epoca del Tardo Neolitico, la volontà decostruttiva del libro si manifesta già nello scardinamento di una delle visioni pregiudiziali più persistenti e ataviche riguardo l’immaginario collettivo sull’Africa. François Bon e François-Xavier Fauvelle impiegano un approccio poliedrico per dimostrare come la perennità dell’Africa intesa come portatrice della parte più primitiva e ancestrale della razza umana si scontri periodicamente con le capacità inventive delle società africane. Questo è ben evidente nell’analisi che gli autori compiono sulla pluralità di percorsi neolitici sviluppatisi nel continente, dove, come sottolineato da Scott MacEachern, forme di civiltà nel vasto entroterra si rivolgono verso una centralità dell’attività di pastorizia, mentre le “civiltà della costa” sono ben incanalate in un profondo tessuto commerciale intercontinentale. A causa di ciò, una lunga serie di Stati, Città-Stato e centri regionali del commercio si pongono alla guida di questo primo sistema transnazionale di scambi. Essendone questi una parte integrante, le influenze africane sulle dinamiche globali prendono già piede nel primo millennio avanti Cristo.
Persino nell’evento più caratterizzante della storia delle relazioni tra l’Africa e il resto del mondo, la tratta schiavista internazionale, persiste un processo interattivo fra le comunità schiavizzate, i compratori europei, e gli Stati africani coinvolti nella tratta. Sebbene ancora oggi il pesante passato dello schiavismo sia un forte catalizzatore per la percezione delle classi più giovani dei Paesi africani verso il resto della comunità internazionale[2], sovente la partecipazione africana allo stesso viene deliberatamente messa da parte o sottostimata. Proprio nell’ottica di scardinare questo radicato pregiudizio, il capitolo scritto da Anne Ruderman mostra le forme con le quali gli attori locali africani già precedentemente coinvolti nella tratta interna degli schiavi sono stati in grado di influenzare e dirigere il rapporto commerciale con la controparte europea. Anche in questo caso i protagonisti delle società africane non emergono come degli attori passivi soggetti alle rapaci volontà dello schiavista europeo; al contrario, la schiavitù diventa una preziosa occasione di elevare il proprio status rispetto ai propri vicini, e, secondo il contributo dello storico Paul Lovejoy, la relazione stessa che gli europei sviluppano con le autorità locali si basa su una continua contrattazione, all’interno della quale la “supremazia” negli scambi uomini-cose viene periodicamente esercitata dai secondi. Di ciò ne risente financo la struttura stessa delle strutture politico-economiche delle comunità africane interessate, le quali, essendo parte attiva e coinvolte nella “antica alleanza della costa”[3], si avviano verso un processo di centralizzazione amministrativa ruotante attorno ai principali centri della tratta intercontinentale.
In differenti parti del libro gli autori si insinuano negli interstizi delle espressioni estetiche dell’epoca coloniale, trovandovi aspetti di influenze provenienti dal mondo africano. In una dimensione come quella coloniale, dove l’assoggettamento delle popolazioni indigene si rapporta con il livellamento culturale e sociale imposto dallo straniero, la capacità da parte dei soggetti colonizzati di partecipare, se non perfino modellare, le più articolate espressioni artistiche del tempo, rappresenta una delle vie più funzionali per riappropriarsi della propria identità deturpata. Dentro questo schema logico si può rinvenire l’espansione dello stile barocco “extra-europeo”, diffuso a fianco dell’espansione coloniale in Sud America e nelle colonie africane, il quale tuttavia riesce ad assumere una propria soggettività, figlia del sincretismo nato dalle comunità dei colonizzati. L’espressività stessa del barocco, che assume forme inedite e sempre più spettacolari nei maggiori centri urbani dell’Africa colonizzata, dimostra quanto lo stile elaborato e sontuoso delle culture africane possa mettere in discussione l’estetica stessa di chi lo ha per primo esportato. Rimanendo sempre nel campo delle arti visive, l’esempio della fotografia è uno dei più esemplificativi per la capacità delle società africane colonizzate di rivolgere l’uso di una specifica tecnologia per “rivoltarla” a proprio vantaggio. Se infatti la diffusione dei primi dagherrotipi era prevista in un modello di classificazione e controllo estetico da parte del razzismo scientifico propedeutico al progetto coloniale[4], Érika Nimis e Marian Nur Goni dimostrano come l’ideologia coloniale abbia potuto essere soppiantata dalla creatività dei colonizzati, come dimostrato nel caso del sultanato di Bamoun sotto Ibrahim Njoya. Questi, comprendendo come l’arte fotografica fosse uno strumento di efficace promozione del proprio status sociale e politico, ne fece ampio uso per imporre la sua estetica anche nei confronti delle autorità straniere.
In maniera altrettanto analoga, le conseguenze del colonialismo sono state dirimenti nella resignificazione di alcune pratiche sociali diffuse, le quali declinano l’espressività della parola nelle forme più differenti. Seguendo il percorso del filosofo Jean Godefroy Bidima, ci si imbatte nei profondi cambiamenti che, a causa dell’arrivo del colonialismo, hanno intaccato il codice sociale della palabre, inteso come lo strumento di perpetuazione del sapere ancestrale e di governance locale[5]. Anche in seguito al colonialismo, tali pratiche di governance comunitaria non hanno visto il ritorno dell’usanza della palabre, salvo vederne un riadattamento funzionale in merito ai processi di giustizia transizionale post-genocidarie, come dimostrano le sedute di gacaca impiegate in Ruanda.
Contemporaneamente alla costruzione di canoni culturali globali dalle fattezze “afro-e-qualcosa”, con l’intensificarsi della tratta atlantica si assiste a una sempre maggiore circolazione di visioni e teleologie politiche miranti a riappropriarsi idealmente della originaria terra perduta: il continente africano viene posto sotto un processo idealistico dai tratti utopistici, che assume le fattezze del locus amoenus dove una antica civiltà superiore a quella odierna aveva avuto luogo. È per questo che, seguendo il racconto di Sarah Fila-Bakabadio, il lettore si relaziona con una panoplia di attivisti, giornalisti, intellettuali e leader politici che ricreano lo status e l’avvenire della propria condizione, prospettando un futuro ruolo guida dei popoli africani contro la morsa del colonialismo. Nel capitolo riguardante la complessa evoluzione del percorso panafricanista, che parte dalla fine dell’Ottocento fino a giungere ai nostri ultimi anni, vengono ripercorsi in primis i più incisivi risvolti e progetti ideologici che si formularono in epoche ancora coloniali: dal tema del “Grande Ritorno” di Marcus Garvey, fino alla svolta anti-razzista e anti-imperialista di W.E.B. Du Bois, il tema del panafricanismo si adatta, si relaziona, muta in conformità alle emergenti sfide e alle possibilità dell’epoca di riferimento[6]. Successivamente, spostandosi nell’era della decolonizzazione e della nascita dei primi Stati africani indipendenti, viene ancora una volta accentuato il carattere trasformativo della sfera panafricanista, la quale diventa il fulcro del vasto movimento terzomondista.
Come detto all’inizio, l’aspetto della Natura selvaggia africana all’interno dell’immaginario coloniale europeo ha da sempre rappresentato una delle immagini più evocative. Quando, nel contesto storico dello Scramble for Africa, gli esploratori europei si inoltrarono sempre di più negli ampi spazi dell’entroterra continentale, si instaurò una stilizzazione della natura africana, nota con il termine di conservazionismo. Essendo il colonialismo un modello di dominanza incentrato su un doppio binario, quale l’assoggettamento politico, insieme alla “ristrutturazione” psicoculturale del soggetto dominato, il ruolo della scienza riveste una straordinaria importanza. Con l’avanzata del colonialismo, infatti, si consolidò un movimento ambientalista asservito ai bisogni degli Stati europei, i quali da una parte usufruivano delle immense risorse di cui disponeva il continente africano, mentre dall’altro intendevano rispettarne il delicato ecosistema che era minacciato dalle negligenze delle popolazioni autoctone. Nel corso della digressione storica, si mostra come la creazione di ampi parchi naturali e di territori da “salvaguardare” abbia comportato lo spostamento forzato di intere popolazioni, come sapientemente illustrato nel capitolo scritto dallo storico ambientalista Guillaume Blanc[7]. Ciò nonostante, a partire dagli anni Settanta, le amministrazioni dell’Africa post-coloniale continuarono a impiegare un sistema di governance ambientale sostanzialmente basato sulla precedente impostazione europea, con la sola differenza di essere assistite da organizzazioni internazionali, come la FAO, per l’elaborazione e l’implementazione di tali progetti. Il tema del conservazionismo ambientale, oggi più attuale che mai, rappresenta un altro dei campi che l’intervento africano ha continuato a promuovere, seppur gravato dal passato coloniale.
La caratteristica fondante che ha motivato il percorso di questo libro, certamente lungo e ricco di sfumature, nonché non monolitico nelle sue argomentazioni, potrebbe essere descritta come restaurativa. Mettendo insieme le varie parti, emerge chiaramente come l’Africa si ripresenti con forza e determinazione nella finestra della Storia. Sfuggendo alla retorica pregiudiziale che ha spesso rinchiuso il continente e i suoi innumerevoli popoli in una dimensione di perenne sudditanza, non solo rispetto agli Stati che hanno plasmato il suo passato e futuro, ma anche rispetto alle altre aree geo-culturali della comunità globale, i contributi degli autori hanno con acribia messo in luce le sue molteplici sfumature, evidenziando gli spazi di esistenza e resistenza. Le civiltà, le culture, le comunità e persino gli individui del continente riaffermano, attraverso una solida letteratura scientifica e un’analisi approfondita delle ricerche a disposizione, la propria esistenza come soggetti capaci di interpretare e adattare le condizioni dei rispettivi tempi alle proprie esigenze, interessi e passioni, dando allo stesso tempo la giusta storicizzazione alla loro esperienza. Inoltre, l’opera restituisce alla dimensione africana quel tratto di complessità e diversificazione che, in particolare riguardo al capitolo sulla tratta schiavista, si sottrae a qualsiasi ipersemplificazione della storia, o per meglio dire, alla percezione collettiva che ancora oggi persiste riguardo a questo specifico tema. In ogni caso, alla conclusione della lettura, quello che rimane acclarato è che, a dispetto di una narrativa per lungo tempo dominante, l’Africa c’è stata, l’Africa c’è, l’Africa ci sarà.
[1] Oltre ai due curatori, hanno contribuito al volume: Ana Lucia Araujo, Pascale Barthélémy, Jean Godefroy Bidima, Guillaume Blanc, François Bon, Marie-Laure Derat, Souleymane Bachir Diagne, Sarah Fila-Bakabadio, Erika Nimis, Marian Nur Goni, Anne Ruderman.
[2] «Le Courrier de L’Unesco», Esclavage: une mémoire à vif, juillet-septembre 2024.
[3] Basil Davidson, Madre nera. L’Africa nera e il commercio degli schiavi, Einaudi, Torino 1966.
[4] Elizabeth Edwards (a cura di), Anthropology and Photography, 1860-1920, Yale University Press, New Haven 1991.
[5] Fweley Diangitukwa, La lointaine origine de la gouvernance en Afrique: l’arbre à palabres, «Revue Gouvernance», 11 (1) (2014).
[6] The Nordic Africa Institute, The legacy of Pan-Africanism in African integration today, dicembre 2020.
[7] Dan Brockington, The enduring power of fortress conservation in Africa, The University of Manchester – Centres d’estudies africains/Interculturals.