L’aria che si respira a una COP: da Baku a Belém
- 04 Dicembre 2024

L’aria che si respira a una COP: da Baku a Belém

Scritto da Giorgio Brizio

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I delegati delle Conferenze sul clima per certi versi sono come quegli studenti universitari che – pur avendo due settimane per sedersi, prepararsi, confrontarsi con i colleghi in vista di un esame – si riducono sempre agli ultimi due giorni, all’ultima notte. La COP del 2024 è finita con circa 36 ore di ritardo. Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 novembre, alle 2:40 ora di Baku, il Presidente di COP29, l’azerbaigiano Mukthar Babayev, ha battuto il martelletto sancendo l’adozione del punto 11/a, quello sul più importante dossier di COP29, il New Collective Quantified Goal (NCQG). Nell’anno più caldo da quando esistono le rilevazioni e in cui più di metà della popolazione mondiale è stata chiamata al voto, i Paesi delle Nazioni Unite sono riusciti ad approvare un testo con al centro la finanza per il clima. Il nuovo obiettivo sulla finanza climatica prevede lo stanziamento di “almeno 300 miliardi” all’anno entro il 2035, principalmente da parte dei Paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo (G77), per permettere loro di affrontare gli effetti della crisi climatica e ridurre le proprie emissioni.

La ventinovesima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima (UNFCCC) del 1992, che serve anche da incontro delle Parti aderenti al Protocollo di Kyoto del 1997 e all’Accordo di Parigi del 2015, si è svolta dall’11 al 24 (doveva essere 22) novembre 2024. Il primo problema della COP29 in Azerbaijan è stato l’Azerbaijan stesso, la cui economia dipende dal gas tanto quanto quella degli Emirati Arabi Uniti, che hanno ospitato COP28 nel 2023, dipende dal petrolio. Il secondo problema aveva a che fare con il suo numero: dopo ventinove Conferenze delle Parti sul clima, non si è ancora riusciti a invertire la rotta.

 

Le COP servono a qualcosa allora?

Quando venne siglato l’Accordo di Parigi alla COP21, si prevedeva che le emissioni di gas climalteranti sarebbero aumentate del 16% entro il 2030. Ora, grazie agli sforzi della comunità internazionale, si prevede che aumentino “solo” del 3%. Secondo il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), però, i gas serra andrebbero tagliati del 43% entro il 2030.

Ma come ci è arrivata la COP in Azerbaijan? Nell’ambito dell’UNFCCC, le Nazioni Unite hanno diviso il mondo in cinque macroaree: Asia, Africa, Europa dell’Est e Caucaso, Europa dell’Ovest e Nord America, Sud America. A turno, ciascuna regione ospita l’evento: un Paese di quell’area si può candidare come per i Mondiali o le Olimpiadi, e a mettere un veto alla proposta possono essere solo altri Paesi della stessa area. Quest’anno era il turno dell’Europa dell’Est e Caucaso, in cui ci sono diversi conflitti in corso, come quello tra Russia e Ucraina e quello tra Azerbaijan e Armenia. Il primo Paese ad essersi fatto avanti è stata la Bulgaria, ma la Russia ha posto il veto, motivato dal fatto che Sofia sostiene militarmente l’Ucraina. Per diverso tempo la speranza è stata che si proponesse la Polonia, Paese tra due sfere d’influenza che ha già ospitato ben tre COP in passato, ma il neoeletto governo Tusk è riuscito a insediarsi solo dopo molti mesi e dunque non si è candidato. A quel punto si è candidato l’Azerbaijan, e l’Armenia ha posto il veto.

Con grande ritardo – di solito il Paese ospitante di una COP si conosce con almeno un anno e mezzo di anticipo – e all’ultimo momento possibile durante la COP di Dubai, l’Azerbaijan e l’Armenia hanno trovato un accordo, fortemente voluto dal Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Nel comunicato congiunto, i due Paesi «condividono l’opportunità di raggiungere una pace a lungo attesa nella regione. Riconfermano l’intenzione di normalizzare le relazioni e raggiungere un trattato di pace sulla base dei principi della sovranità e dell’integrità territoriale».

Nell’ambito di questo accordo, l’Azerbaijan ha rilasciato trentadue membri dell’esercito armeno, l’Armenia ha liberato due militari azeri e ha rimosso il veto affinché l’Azerbaijan potesse ospitare COP29. La Russia, che considera l’ex Repubblica sovietica uno Stato ancora sotto la sua influenza, aveva solo da guadagnarci, e così la COP29 è volata – letteralmente, dal momento che non si poteva entrare nel Paese via terra – a Baku.

 

Una COP in salita

La prima settimana della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima è cominciata subito dopo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, è continuata con la decisione di Javier Milei di ritirare la delegazione argentina ed è finita con uno scontro tra l’Azerbaijan e la Francia, a causa del supporto di quest’ultima all’Armenia in conflitto con il Paese ospitante.

Nella plenaria inaugurale, davanti alle 198 delegazioni, Babayev – nonostante il suo passato da petroliere – ha ricordato che «le attuali politiche ci portano a un aumento di +3ºC, che distruggerebbe le comunità di molti Paesi presenti in questa stanza». Ma ci ha pensato l’autoritario Presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ad attaccare la transizione ecologica, affermando che il petrolio e il gas sono “un dono di Dio”.

A metà della prima settimana si è svolta la sfilata di capi di Stato e di governo che tradizionalmente sanciscono l’apertura ufficiale del vertice. Con l’adesione di circa novanta di loro, quasi tutti uomini, la COP resta il consesso diplomatico con la maggior partecipazione di leader, seconda solo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

COP 29

Ci sono stati, per motivi diversi, assenti illustri: Xi Jinping, Vladimir Putin, Cyril Ramaphosa e ovviamente Joe Biden. Lula non poteva prendere aerei per una piccola emorragia celebrale. Macron ha scelto di non venire in virtù della stretta alleanza della Francia con l’Armenia. Scholz “ha preferito seguire la crisi di governo piuttosto che la crisi climatica”, come hanno denunciato gli attivisti tedeschi presenti con un’azione nel padiglione della Germania. Infine, Ursula von der Leyen è rimasta a Bruxelles per occuparsi delle nomine dei nuovi commissari, le cui audizioni sono state fissate in modo sconsiderato durante la COP, a cui l’Unione Europea è presente come un unico soggetto politico.

 

L’Unione Europea e l’Italia

La vittoria di Trump quantomeno potrebbe permettere all’Unione Europea di assumere definitivamente un ruolo di guida e diventare punto di riferimento sulla questione climatica, solo che è l’Unione a essere senza guida. L’unico leader di un grande Paese europeo ad avere alle spalle una maggioranza forte è Giorgia Meloni, che non si è fatta sfuggire l’occasione – anche in quanto Presidente del Paese ospitante del G7 – per provare ad accreditarsi come voce dell’Europa.

Nel suo intervento Meloni, che non ha annunciato alcun nuovo impegno da parte del nostro Paese, ha affermato che «un approccio che è troppo ideologico e non pragmatico rischia di toglierci dalla strada per il successo». Qualche giorno dopo il suo intervento in plenaria, l’Italia è stata irrisa davanti alla stampa di mezzo mondo venendo nominata, per essere il secondo importatore di gas in Europa e per il suo rapporto intimo con l’Azerbaijan, “Fossil of the day”. Secondo la società civile riunita a Baku, che ha simbolicamente consegnato a una delegata di Italian Climate Network questo “tapiro” del clima, siamo uno dei “Paesi che fanno del loro meglio per fare del loro peggio”.

Dopo l’escalation della guerra in Ucraina nel 2022, i Paesi europei hanno deciso di diminuire la propria dipendenza dal gas russo, ma non la propria dipendenza dal gas in generale. Meloni e Draghi sono andati, sempre accompagnati dall’amministratore delegato di Eni Descalzi, in Tunisia, Algeria, Angola, Mozambico e anche in Azerbaijan, che è diventato tramite il TAP (Trans Adriatic Pipeline) il nostro secondo fornitore di gas e il primo di petrolio. Oggi Baku esporta il 57% del suo gas e il 20% del suo petrolio in Italia. «Avrete bisogno del nostro gas ancora per parecchi decenni», aveva detto a luglio il Ministro degli Esteri azero in un’intervista di Luca Fraioli su la Repubblica. Nessuno dei Paesi appena citati è particolarmente più democratico o rispettoso dei diritti umani della Russia. L’Italia ha scelto di affrancarsi da un Paese che ha compiuto un’invasione e si è legata a un Paese che ne ha commessa un’altra.

Un’Europa diversa da quella proposta da Meloni l’ha dipinta il premier spagnolo Pedro Sánchez, affermando a pochi giorni dal disastro di Valencia che «la transizione non è più rinviabile». A prendersi la scena, non solo a parole ma anche coi fatti, ci ha provato anche Keir Starmer, che ha lanciato il piano del Regno Unito che prevede di tagliare le emissioni del 81% al 2035. Un passo avanti importante, che leggiamo anche come una sfida all’Unione Europea e al suo piano di riduzione delle emissioni del 90% al 2040. Subito dopo di lui, salutandolo ma senza stringergli la mano, è arrivato sul podio Viktor Orbán, secondo cui «dobbiamo portare avanti la transizione green ma senza smettere di usare petrolio, gas e nucleare». Se l’Unione seguirà Orbán, Presidente in carica del Consiglio Europeo, la sfida della riduzione delle emissioni sarà vinta a tavolino dal Regno Unito. Sulla falsariga di Meloni e Orbán, è intervenuto il Presidente turco Erdoğan, che tuttavia ha dedicato più di metà del suo discorso al “massacro che Israele sta compiendo in Palestina” – il tema più presente nelle proteste a Baku assieme a quello della finanza per il Sud Globale – e ha chiesto alle delegazioni di supportare la candidatura della Turchia a ospitare COP31 nel 2026.

 

L’aria che si respira a una COP

In attesa di nuove bozze dell’accordo finale, una mattina mi sono allontanato dalle stanze dei sussurri e delle negoziazioni informali, che a Baku erano quelle coi soffitti più bassi e le luci più abbaglianti. La sede della COP29 si sviluppava attorno allo stadio di Baku, con dei lunghi corridoi senza finestre che conducevano a spazi più ampi ma comunque senza luce naturale, in cui ci si sentiva come piante pompate sotto una serra.

Nell’area B, quella coi padiglioni dei Paesi che alle COP assomiglia a un Expo, c’era un posto meno controintuitivo degli altri per l’immaginazione di un futuro possibile. È un padiglione che è presente tutti gli anni: si chiama Moana ed è un’isola di pace. Moana nella tradizione polinesiana significa “oceano, mare o distesa d’acqua”, ed è in effetti il nome della coalizione dei piccoli Stati insulari del Pacifico: Figi, Samoa, Tonga, Niue, Vanuatu, Tuvalu, Kiribati eccetera. Sono allo stesso tempo i Paesi meno responsabili della crisi climatica e quelli con l’acqua più alla gola di fronte a questa tempesta che avanza. I loro delegati per arrivare alle COP devono affrontare come minimo trenta ore di viaggio, e sono facili da riconoscere perché hanno quasi sempre un fiore a cavallo dell’orecchio sinistro.

Quella mattina Moana ha lasciato l’intero palco a giovani leader provenienti da piccole isole di tutto il mondo. Ascoltarli mi ha dato speranza, mi ha ricordato che fuori dalle mura dell’alienante sede della COP29 c’è un vasto e bellissimo mondo, per cui vale davvero la pena battersi. Queste isole, i politici e gli attivisti che le rappresentano, sono la frontiera della crisi climatica, la punta dell’iceberg, il cuneo dell’avanguardia. Sono il nucleo di quello che rimane delle 250.000 persone che protestarono fuori dalla COP26 di Glasgow e che in questa COP29 sono state confinate dentro una stanza, lontana dai decisori politici, impossibilitate a cantare e farsi sentire al di fuori di essa. A Glasgow fu il Ministro degli esteri di Tuvalu, Simon Kofe, a scuotere il negoziato. Impossibilitato a venire, si collegò in video con la plenaria, che a poco a poco – mentre la telecamera che lo riprendeva indietreggiava – si accorse con stupore che Kofe stava parlando in mare. Quella mattina, a intervenire per ultima a Moana, è stata Kerryne James. Ha 27 anni ed è la Ministra della resilienza climatica, dell’ambiente e dell’energia rinnovabile dello Stato caraibico di Grenada. È lo stesso posto da cui arriva Simon Stiell, carismatico segretario esecutivo dell’UNFCCC. Nel discorso d’apertura della COP29, Stiell ha proiettato una foto che lo mostra abbracciato a Florence, sua vicina ottantacinquenne a Grenada, la cui casa è stata spazzata via da uno dei tanti uragani che hanno caratterizzato il 2024: Beryl, Boris, Helene, Milton.

Oltre al fiore in testa, i rappresentanti delle isole portano solitamente la spilla degli 1.5ºC, la soglia critica di aumento della temperatura da non superare. Oltrepassarla per loro significherebbe vedere i propri Paesi sommersi, diventare migranti climatici. Secondo l’IPCC, la migliore scienza sul clima, possiamo rimanere sotto l’1.5, «la finestra è ancora aperta, ma si sta chiudendo rapidamente». La COP29 aveva il compito di trovare un accordo che tenesse viva questa speranza.

 

Da Rio a Belém, passando per Baku

La prima metà della seconda settimana di COP è stata caratterizzata dall’attesa degli esiti di due vertici lontani dall’Azerbaijan, l’incontro dell’OCSE sui sussidi fossili a Parigi e soprattutto il G20 di Rio de Janeiro, dove erano presenti tutti i leader che hanno disertato la COP di Baku. Da Rio, il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto che «se non limitiamo l’aumento della temperatura globale a 1,5°C, disastri vertiginosi devasteranno ogni economia. Le politiche attuali ci porterebbero oltre i 3°C e questo significa catastrofe». Guterres ha avvertito che il fallimento a Baku sarebbe stato sinonimo di fallimento alla COP30 del prossimo anno, che sarà ospitata proprio dal Brasile. Grazie alla sua spinta, nella dichiarazione finale del G20 è stata inserita una lunga parte che si chiama “Sustainable Development, Energy Transitions and Climate Action”, che ha messo la COP sulla strada verso un accordo sulla finanza climatica, pur non indicando una chiara direzione.

«Il G20 è il G20 e l’UNFCCC è l’UNFCCC», ha comunque ricordato il segretario Stiell affermando che, per quanto quei venti Paesi rappresentino da soli l’80% delle emissioni e l’85% del PIL globale, la sintesi doveva essere trovata a Baku. Le Parti hanno quindi deciso di avviare consultazioni informali. I Paesi in via di sviluppo, guidati negozialmente dalla Cina nel gruppo G77+Cina, chiedevano un obiettivo annuale tra 1.000 e 1.300 miliardi di dollari, in finanza mobilitata possibilmente in forma di sovvenzioni e non di prestiti, che era la cifra proposta da tre economisti di fama mondiale, a fronte di perdite e danni dovuti al cambiamento climatico che si stimano siano già di cinque volte superiori. Dall’altra parte, Stati Uniti, Unione Europea, Paesi OCSE e il resto del Nord Globale chiedevano un allargamento della base dei contribuenti che potesse includere i Paesi formalmente in via di sviluppo secondo i termini del Protocollo di Kyoto e dell’Accordo di Parigi, ma che nei fatti sono già sviluppati e climalteranti (a partire proprio dalla Cina).

Quando durante una conferenza stampa, poco dopo l’uscita di una nuova bozza, un giornalista ha chiesto ai portavoce dei Paesi in via di sviluppo cosa ne pensassero della cifra di 200 miliardi per l’NCQG, l’ugandese Adobia Ayebare ha risposto: «È uno scherzo?». La frattura si è acuita quando nel corso del sabato pomeriggio, 24 ore dopo la chiusura prevista della Conferenza, i delegati dei Paesi del G77 hanno lasciato il negoziato in segno di protesta. La cifra su cui, in extremis, si è trovato un accordo nella notte tra sabato 23 e domenica 24 corrisponde ad “almeno 300 miliardi l’anno” entro il 2035. Il precedente obiettivo finanziario di 100 miliardi all’anno viene quindi triplicato, ma mancano 1.000 miliardi rispetto a quello che chiedevano i Paesi più colpiti. I 1.300 miliardi sono citati, e una “roadmap” che porterà da Baku a Belém dovrebbe verificare come poterli raggiungere. Di questa cifra, che è al momento una vaga aspirazione senza valore legale, sono quindi solo 300 i miliardi con un impegno giuridicamente vincolante. Bisogna poi vedere come questi soldi saranno erogati: secondo i Paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto essere solo pubblici ed erogati a fondo perduto, mentre alla fine si tratterà di “un’ampia varietà di fonti”, che includono fondi pubblici e privati, bilaterali e multilaterali, concessioni e prestiti.

L’accordo sulla finanza raggiunto a Baku inciderà sull’ambizione dei piani nazionali di riduzione delle emissioni, che tutti i Paesi dovranno consegnare entro la primavera dell’anno prossimo (l’Unione Europea lo fa per tutti i 27 Stati membri) e che segneranno il risultato della COP30 di Belém. La strategia europea era accettare di mettere sul piatto più soldi di quanto i budget nazionali permetterebbero, ma in cambio di due cose: l’allargamento della base di donatori e nuovi sforzi globali per la riduzione delle emissioni. Sul primo fronte, le formulazioni usate lasciano la possibilità di includere e incoraggiano i contributi di Paesi con elevate emissioni o capacità contributiva (Cina, Corea del Sud, Singapore, Paesi del Golfo), ufficialmente non inseriti tra quelli sviluppati nella Convenzione UN sul clima. Per la prima volta i funzionari cinesi hanno rivelato che Pechino ha finanziato progetti climatici in altri Paesi in via di sviluppo per 24 miliardi. Rispetto al rafforzamento del linguaggio sulla riduzione delle emissioni, i Paesi esportatori di petrolio – aiutati dalla presidenza (il 92% dell’export azerbaigiano sono idrocarburi) che ha condotto una negoziazione caotica – sono riusciti a rimandare tutto a Belém.

I soldi che i Paesi vulnerabili riceveranno sono pochi rispetto ai bisogni, arriveranno da fornitori incerti e nella loro interezza solo a metà del prossimo decennio, quando la crisi climatica – e l’inflazione, come ha sottolineato la Nigeria – saranno ancora più gravi. Secondo l’India, questo accordo è una “illusione ottica”. Non è certo una vittoria, ma nemmeno un completo fallimento. È un pareggio, frutto dell’attuale contesto internazionale. Solo che, se a essere in gioco è la vita di persone vulnerabili in Paesi poveri, non possiamo accontentarci di un pareggio.

Scritto da
Giorgio Brizio

Attivista e collaboratore di varie testate nazionali. Ha vissuto a Berlino, Istanbul e Torino, dove si è laureato in Scienze internazionali dello sviluppo e della cooperazione. Si occupa di crisi climatica e migrazioni. Tra i fondatori del “Kontiki” di Torino, i suoi articoli e commenti sono apparsi su «La Stampa», «Domani», «TPI» e «Repubblica». Ha curato “Per molti anni da domani. Ventisette attivisti europei scrivono di clima, pace e diritti” (Bollati Boringhieri 2024) ed è autore di “Non siamo tutti sulla stessa barca. Le sfide del nostro tempo agli occhi di un ragazzo” (Slow Food Editore 2021).

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