Scritto da Anna Napoletano
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L’ascesa dell’ultradestra sta rimodellando il panorama politico e culturale a livello globale, sollevando interrogativi cruciali sulla tenuta della democrazia in Europa e non solo. In questa intervista, Andrea Pirro esplora le peculiarità e le dinamiche che alimentano questi movimenti, soprattutto in Europa, evidenziando le radici del loro consenso nel contesto della crisi della rappresentanza politica e della normalizzazione di discorsi identitari e nativisti nel dibattito politico, con la complicità dei media. Una prospettiva che suggerisce di andare oltre le semplificazioni ideologiche per identificare i rischi reali e riflettere sulle possibili strategie per rafforzare lo status quo democratico.
Andrea Pirro è docente di Scienza politica presso l’Università di Bologna. È direttore della rivista scientifica «East European Politics» e della collana Routledge Studies in Extremism and Democracy. Ha pubblicato due monografie sull’ultradestra: Movement Parties of the Far Right (con Pietro Castelli Gattinara, Oxford University Press 2024) e The Populist Radical Right in Central and Eastern Europe (Routledge 2015).
Che differenza intercorre tra i movimenti/partiti dell’ultradestra e il populismo di destra?
Andrea Pirro: Seppur apparentemente banale per i non addetti ai lavori, la distinzione è in realtà illuminante per comprendere l’impatto che questi attori hanno sulla qualità della democrazia. L’ultradestra comprende l’insieme di attori che sottoscrivono una forma radicale ed escludente di nazionalismo (il “nativismo”) – che divide quindi il mondo in “amici” e “nemici” della nazione – e abbracciano tradizione e disciplina. Per l’ultradestra, la diversità – che derivi da minoranze etniche o religiose, persone LGBTQI+, opponenti politici e opinioni critiche, o da fenomeni come l’immigrazione o il multiculturalismo – è vista come una minaccia. Il populismo di destra, o più precisamente la destra radicale e populista, rappresenta una variante, o un sottoinsieme, dell’ultradestra. Questa variante può esser definita “illiberale” poiché si contrappone ai precetti del costituzionalismo liberale che garantisce libertà e diritti per tutte le persone, ivi incluse quelle appartenenti a minoranze; predilige, in buona sostanza, una visione maggioritaria definita in termini etno-nazionali. Ciononostante, la destra radicale e populista opera, seppur con una certa riluttanza, all’interno delle regole del gioco democratico, considerando le elezioni ricorrenti, libere e competitive come strumento di legittimazione popolare e accesso alle istituzioni rappresentative. In Europa, l’appellativo “illiberale” e la qualifica di “destra radicale e populista” connota la maggior parte dei partiti rappresentati nei vari parlamenti nazionali: Fratelli d’Italia (FdI) e Lega in Italia, Rassemblement National in Francia, il Partito della Libertà d’Austria (FPÖ), il Partito per la Libertà (PVV) nei Paesi Bassi, VOX in Spagna, i Democratici Svedesi, eccetera.
La porzione di ultradestra che non cade nella categoria di destra radicale è l’estrema destra: antidemocratica, nostalgica di un passato autocratico e che ricorre alla violenza per risolvere conflitti politici e ideologici. L’estrema destra è quella di Alba Dorata in Grecia, partito neonazista rappresentato nel parlamento ellenico tra il 2012 e il 2019, e i cui dirigenti sono stati condannati per essere a capo di un’organizzazione criminale responsabile di omicidio, tentato omicidio e vari casi di violenza. L’estrema destra è più frequentemente relegata a livello extra-parlamentare, come nel caso di alcune organizzazioni neofasciste del nostro Paese – CasaPound Italia e Forza Nuova – che sono infatti molto attive nell’arena di protesta, ma hanno sempre riscosso percentuali risibili a livello elettorale. Questa differenza tra “radicalismo” ed “estremismo” può sembrare di poco conto, ma di mezzo c’è, appunto, la democrazia.
Che tipo di relazioni intercorrono tra questo tipo di ultradestre e la democrazia?
Andrea Pirro: Partendo da queste premesse, ci sono due questioni cruciali che riguardano l’ultradestra, il populismo e la democrazia. La prima questione è che le distinzioni tra “destra radicale e populista” ed “estrema destra” – valide e opportune a livello concettuale – diventano sempre più difficili da operare nella realtà concreta. In buona sostanza, i confini tra queste due varianti sono sempre più labili. Questo riguarda tanto le possibili degenerazioni antidemocratiche di attori illiberali, quanto i contatti che attori di destra radicale e populista (appunto, illiberali) intrattengono con attori di estrema destra (appunto, antidemocratici). In merito al primo aspetto, si pensi all’epilogo del primo mandato di Donald Trump negli Stati Uniti o alla traiettoria intrapresa dal governo del Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria. Sulla carta, entrambi potrebbero essere qualificati come attori di destra radicale e populista; entrambi hanno però messo in discussione la loro adesione a princìpi democratici minimali. L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump è probabilmente l’esempio più eclatante di negazione – per giunta tramite il ricorso all’uso della violenza – del principio cardine della democrazia, ovvero il riconoscere le elezioni come strumento di selezione della classe governante tramite procedure libere e competitive. La tenuta della democrazia statunitense è quindi di fronte a una prova fondamentale col secondo mandato di Trump. Il regime di Orbán in Ungheria ci dimostra invece che, una volta intrapresa una traiettoria illiberale, non sono erose solo libertà e stato di diritto (i princìpi del costituzionalismo liberale), ma che le regole del gioco vengono alterate per favorire il partito di governo e assicurarne la rielezione. Le elezioni del 2010 sono state, di fatto, le ultime libere e corrette tenute in Ungheria. Il secondo aspetto, come dicevo, riguarda i contatti che la destra radicale e populista intrattiene con l’estrema destra. Non è infrequente che alcuni partiti di destra radicale e populista includano tra le proprie fila militanti o ex-militanti neofascisti o neonazisti, o cooperino a livello extraparlamentare con organizzazioni e movimenti di estrema destra. Ricordiamo il progetto “Sovranità” che ha portato la Lega di Salvini a collaborare con CasaPound Italia, o i frequenti contatti tra i partiti nelle istituzioni e i movimenti estremisti nell’arena di protesta, che avvengono lontano dall’attenzione e dallo scrutinio del pubblico più ampio. Si pensi poi ad Alternative für Deutschland (AfD), sotto osservazione da parte dell’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione per la presenza di elementi estremisti al proprio interno. Quando le linee di demarcazione tra destra “radicale” ed “estremista” vengono meno, è quindi più opportuno parlare di un unico fenomeno di ultradestra con numerosi punti di connessione e scambio al proprio interno. Parlare di ultradestra ci aiuta anche a comprendere che nelle istituzioni rappresentative siedono attori che non minacciano solo la qualità della democrazia liberale, ma potenzialmente anche la democrazia nel suo complesso. Diversi casi di erosione democratica a livello globale suggeriscono che non esistono Paesi immuni e che democrazia, diritti e libertà vadano preservati in modo attivo.
La seconda questione che anticipavo è legata al populismo. La contrapposizione tra una “élite corrotta” e un “popolo virtuoso” tipica del populismo è soltanto un riquadro all’interno del quale viene articolato il nativismo, l’ideologia cardine dei partiti di ultradestra. Per certi versi, potremmo considerare il populismo lo strumento, mentre il nativismo il fine. La postura “anti-establishment” dei partiti di destra radicale e populista è senz’altro un importante fattore per il loro accesso alle istituzioni rappresentative; è grazie al populismo che questi attori riescono a presentarsi come “outsider” e riscuotere consensi in un contesto di crescente disaffezione politica. Dare tuttavia prominenza alla componente populista, accantonando quella nativista (ovvero, la qualifica di “destra radicale”), rischia di far passare in secondo piano il cuore ideologico illiberale di questi attori. La loro visione del “popolo” è escludente perché considera degno/puro soltanto il popolo nativo (definito in termini etnici e culturali), chiaramente alle spese di gruppi “estranei” o posizioni “non conformi”. È importante definire questi attori sulla base della loro ideologia dominante, e quindi parlare di “ultradestra” piuttosto che “populismo”.
Guardando all’ultradestra e alle sue manifestazioni oggi, secondo lei stiamo assistendo ad una “normalizzazione” di questo fenomeno in Europa? Se sì, in quali Paesi sta accadendo e perché secondo lei?
Andrea Pirro: La retorica e le politiche nativiste e illiberali sono entrate prepotentemente nel dibattito pubblico e nelle agende di governo nel corso degli ultimi anni. Proclami e proposte anti-immigrazione, o politiche regressive su aborto e diritti LGBTQI+, sono al centro di una battaglia culturale alimentata dall’ultradestra, ma che la destra “mainstream” – e non solo – ha deciso di abbracciare pressoché in toto. In un’epoca di crescenti diseguaglianze sociali, l’ultradestra è quindi riuscita a spostare l’attenzione dalle questioni economiche che hanno definito lo scontro politico dal dopoguerra in poi e a demonizzare “la diversità”. L’elettorato che percepisce il proprio status sociale minacciato dai cambiamenti in corso, ad esempio, tende a considerare l’immigrazione come una minaccia e finisce a sostenere partiti che forniscano risposte restrittive e securitarie.
Adattandosi a questa retorica, i partiti conservatori hanno contribuito alla normalizzazione di queste tematiche e legittimato i partiti di ultradestra, senza però considerare che, specialmente su questioni come l’immigrazione, l’elettorato tende a preferire l’originale (l’ultradestra) alla copia (la destra mainstream). Di fatto, la politicizzazione di tematiche come l’immigrazione favorisce prevalentemente l’ultradestra. Di ritorno, linguaggio e politiche che una volta erano considerate inammissibili e relegate a frange minoritarie sono oggi ampiamente sdoganate. Questo ha spostato il baricentro politico marcatamente più a destra pressoché ovunque in Europa.
Un’altra fonte di normalizzazione deriva poi dal ridurre questo fenomeno a mero “populismo”, soprattutto tramite i mezzi di comunicazione di massa. Il populismo è un fenomeno molto variegato – di destra, di sinistra e in tutto lo spazio ideologico che intercorre nel mezzo – e utilizzare l’appellativo “populista” al posto di “ultradestra” banalizza la spinta escludente e illiberale di questi attori politici, li legittima e li rende dunque maggiormente accettabili. L’appellativo “populista” è ormai utilizzato in modo indiscriminato per designare tutto ciò che è inviso dalla politica mainstream; finisce a esaltare le connotazioni “anti-establishment”, senza tuttavia svelarne e problematizzarne la reale essenza ideologica – appunto, il nativismo.
Guardando ai temi, è noto che l’ultradestra tiene particolarmente al raggiungimento di una politica migratoria escludente. Secondo lei, insieme all’immigrazione, quali sono i temi che questi partiti e movimenti hanno più a cuore in Europa e su quali stanno effettivamente esercitando un impatto di maggior rilievo?
Andrea Pirro: L’ultradestra non è un fenomeno legato a una singola battaglia o a un singolo tema, perché la sua visione di “nazione” non è mai stata limitata alla sola questione dell’immigrazione. L’appartenenza alla comunità nazionale, la sovranità, le nozioni di tradizione e disciplina, abbracciano diverse sfere culturali e variano a seconda del contesto. Ad esempio, il PVV di Geert Wilders è liberale su questioni come aborto e diritti LGBTQI+, poiché parte integrante della cultura olandese; si pone infatti come paladino di queste libertà contro la sedicente intolleranza dell’Islam. Fino al picco della cosiddetta crisi dei migranti nell’estate del 2015, potremmo perfino dire che l’agenda anti-immigrazione sia stata a quasi totale appannaggio dei partiti dell’Europa occidentale. Fino ad allora, l’ultradestra in Europa Centro-Orientale ha prevalentemente mosso attacchi alle minoranze etniche indigene, quindi presenti all’interno dei propri confini e parte della cittadinanza. Il 2015 è stato lo spartiacque che ha portato alla convergenza politica dell’ultradestra europea sulle questioni migratorie.
Un minimo comune denominatore tra i partiti di ultradestra può essere identificato nell’euroscetticismo, ovvero l’avversione al processo di integrazione europea e al riquadro fornito dall’appartenenza all’Unione Europea. Il dialogo instaurato tra il Partito Popolare Europeo e porzioni dell’ultradestra (in particolare, i membri dell’ECR – i Conservatori e Riformisti Europei) non deve essere interpretato come una svolta europeista da parte di forze come quella di Giorgia Meloni, ma ricondotto a quello spostamento a destra del baricentro politico di cui parlavo poc’anzi. Dopo l’esperienza disastrosa della Brexit, la stragrande maggioranza dei partiti di ultradestra ha abbandonato la prospettiva di una fuoriuscita dei rispettivi Paesi dall’Unione. La “exit” non è più una carta remunerativa e spendibile elettoralmente. L’ultradestra si ripropone quindi di scardinare l’Unione Europea dall’interno, aumentando, ora che è al governo in diversi Paesi, i punti di veto e ostacolandone dunque i processi decisionali. Come esempio, basti pensare all’ostruzionismo di Orbán riguardo al sostegno finanziario e militare all’Ucraina, parzialmente culmine di un più ampio scontro sulle infrazioni dello stato di diritto in Ungheria. Il caso ungherese, paradigmatico, dimostra che le forze nativiste vogliono riconfigurare gli equilibri interni nazionali in direzione illiberale e l’assetto europeo in favore di un’Europa da loro definita “dei popoli e degli Stati nazione”, di fatto esautorando l’Unione fino a renderla un’istituzione superflua.
Nel complesso, l’ultradestra sta portando avanti una battaglia culturale a tutto tondo. Il suo agire politico si inserisce in una sistematica lotta ai precetti liberali e alle cause progressiste, passando da spinte regressive in termini di politiche di genere – fatte salve, come abbiamo visto, alcune rare eccezioni – o di lotta al cambiamento climatico. L’ultradestra abbraccia una spinta “antimoderna” e in questo senso si può definire come un movimento “di reazione” al cambiamento sociale e culturale. Nella sua spinta tradizionalista e conformista, l’ultradestra impone che le trasgressioni alle convenzioni sociali e culturali siano stigmatizzate e perseguite.
Proprio in virtù delle singole specificità nazionali, nonché delle origini dei singoli attori di ultradestra, la declinazione della loro vocazione “antimoderna” varia di caso in caso. Ci sono partiti come il Rassemblement National di Marine Le Pen che sono fondamentalmente frutto del contesto secolarizzato e laico all’interno di cui operano; il loro riferimento alle presunte “radici giudaico-cristiane” dell’Europa è chiaramente impiegato in modo strumentale. Ci sono poi altri partiti come Fidesz in Ungheria, PiS in Polonia, FdI in Italia o VOX in Spagna che pongono maggiore enfasi su una visione ultraconservatrice a livello sociale e culturale; da qui deriva la loro avversione alla cosiddetta “ideologia gender”, cioè a quei modelli non tradizionali e non etero-normativi. Questa componente ultraconservatrice differenzia tra loro anche partiti ideologicamente affini che operano all’interno di uno stesso contesto nazionale: è il caso di FdI e Lega, perché il partito di Matteo Salvini non dà la stessa attenzione programmatica di FdI a “famiglia naturale” e aborto.
Che differenze ci sono tra l’ondata di ultradestra degli anni Novanta e quella attuale?
Andrea Pirro: Non ci sono differenze sostanziali, almeno a livello ideologico; il fenomeno è pressoché immutato. Ciò che è cambiato è il contesto, perché tante delle proposte avanzate da questi partiti sono state recepite dal mainstream politico. Parlare di immigrazione non è più a esclusivo appannaggio dell’ultradestra, ad esempio. Inoltre, l’ultradestra nel suo complesso – tanto i partiti quanto le idee – ha assunto un ruolo centrale nel proscenio politico; la sua performance elettorale ne è testimonianza. Sono cambiati certamente i toni del dibattito politico: sempre più radicali quelli dei partiti di ultradestra e sempre più escludenti quelli dei partiti tradizionali che decidono di emularli. C’è da aggiungere anche il diverso panorama mediatico all’interno di cui opera l’ultradestra oggigiorno. La disinformazione è dilagante e la mancanza di contraddittorio, nella maggior parte delle occasioni, permette all’ultradestra di governo di continuare a comportarsi come partito di opposizione, additando “nemici” interni ed esterni e avanzando una visione della realtà spesso non conforme ai fatti.
La maggior parte dei partiti di ultradestra “storici” si sono poi professionalizzati e istituzionalizzati. Parliamo di attori che sono stati spesso al governo e sono quindi ben radicati nelle rispettive istituzioni rappresentative. Dove questo non è ancora successo, come in Francia, l’ultradestra è una credibile contendente al potere. Ad ogni modo, vediamo come molte delle formazioni attive durante gli anni Novanta siano ancora in circolazione. Pensiamo al FPÖ, che è riuscito a superare diverse crisi interne legate prima alla fuoriuscita di Jörg Haider nel 2005 (poi deceduto nel 2008) e poi allo scandalo “Ibiza-gate” che ha coinvolto Heinz-Christian Strache nel 2019. Similmente, La Lega è riuscita a rimettersi in piedi nonostante la truffa da 49 milioni di euro che ha coinvolto il leader storico, Umberto Bossi. Matteo Salvini è riuscito a distogliere l’attenzione da questi scandali, ridare appeal al partito e a indirizzarlo in direzione “lepenista”. I Democratici Svedesi nascono a fine anni Ottanta dall’area di movimento neonazista e, a culmine di un processo di moderazione di lungo corso, sono oggi la seconda forza in parlamento e forniscono appoggio esterno alla coalizione di governo guidata dal Partito Moderato.
Rispetto agli anni Novanta, sono poi crollati i tradizionali argini che hanno reso Paesi come la Germania o la Spagna immuni dalle avanzate elettorali dell’ultradestra. L’AfD nel primo caso e VOX nel secondo viaggiano su percentuali tra il 15% e il 20%, e sono ora il secondo o terzo partito in ordine di preferenze a livello nazionale.
Qual è la sua chiave di interpretazione alla luce di quanto emerso nelle ultime elezioni europee?
Andrea Pirro: Come ampiamente anticipato, l’ultradestra ha consolidato la propria performance elettorale ma non ha sfondato. Nel complesso, il suo impatto sull’attività parlamentare europea continua a essere limitato, anche perché il suo più grande ostacolo continua a essere una cronica incapacità di serrare le file e cooperare per la costituzione di una “internazionale nera”. Nel post-elezioni, Orbán ha lanciato un nuovo soggetto politico di cui potesse reclamare paternità: i Patrioti per l’Europa, naturale successore di Identità e Democrazia (ID). A buona parte dei partiti confluiti da ID si sono aggiunti gli spagnoli di VOX, fuoriusciti dall’ECR di Meloni. Oltre a un sommario rimescolamento delle carte, a livello numerico, la situazione resta pressoché immutata nel blocco di ultradestra – una famiglia partitica che continua a esser contraddistinta da una certa frammentazione interna. Infatti, da altri reduci dell’ID (AfD sopra tutti) e da altri non-iscritti è nato persino un terzo gruppo, quello dei Sovranisti.
In tutto questo, l’ECR rappresenta l’ultradestra euroscettica che rivendica rispettabilità e affidabilità al governo. La presenza del PiS polacco – il partito responsabile di numerose violazioni dello stato di diritto e di una drammatica erosione democratica nell’arco dei suoi due mandati al governo, tra il 2015 e il 2023 – svela in buona sostanza le aspirazioni illiberali di questa parte di ultradestra, che figura solo nominalmente come “conservatrice e riformista”. Ma è proprio con questa ultradestra che Ursula von der Leyen ha voluto tessere rapporti nella parte finale del suo primo mandato da presidente della Commissione Europea, e su cui ha voluto puntare per il lancio del suo secondo mandato. Questa intesa è stata possibile grazie alla vocazione atlantista di FdI e PiS – che la distingue dall’ultradestra russofila di Patrioti e Sovranisti – e quindi dal loro supporto all’Ucraina per quanto riguarda la politica estera europea. La moneta di scambio è stata porre al centro della nuova legislatura la questione dell’immigrazione, replicando, a livello sovranazionale, l’affiatato tango tra destra mainstream e ultradestra su questioni come sbarchi, flussi e sicurezza. La nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione (precedentemente ministro per gli affari europei, le politiche di coesione e il PNRR nel Governo Meloni) testimonia l’affinità d’intenti tra le destre e la conseguente normalizzazione dell’ultradestra.
Qual è, invece, il rapporto tra ultradestra e fascismo? Tutta l’ultradestra è fascista?
Andrea Pirro: No, assolutamente, non tutta l’ultradestra è fascista o neofascista. Soffermarci – come è stato fatto prima delle ultime elezioni politiche in Italia – su un possibile ritorno del fascismo al potere è privo di fondamento storico e politico, e distoglie dalla novità delle derive illiberali contemporanee. Questo non deve far passare in secondo piano l’eredità che FdI incarna e rivendica. È infatti giusto considerare il partito come “postfascista” alla luce della continuità nei suoi quadri; esperienze di militanza che partono dal neofascismo del Movimento Sociale Italiano e proseguono col postfascismo di Alleanza Nazionale. Tuttavia, per quanto concerne ad esempio Fratelli d’Italia, non c’è una prospettiva di ritorno del fascismo come si è manifestato un secolo fa. L’attenzione deve invece andare ai modelli di riferimento dell’ultradestra contemporanea: il PiS di Kaczyński, che si rifà al Fidesz di Orbán (ormai paladino dell’ultradestra globale), che a sua volta si ispira all’operato di Putin in Russia. Stiamo assistendo a un fenomeno di “apprendimento autocratico” su scala globale.
Dagli illiberali al potere apprendiamo che i processi di erosione democratica non avvengono più tramite colpi di Stato, ma attraverso l’accrescimento dei poteri dell’esecutivo, l’esautoramento del potere giudiziario, la repressione del dissenso, la colonizzazione del panorama mediatico, la distorsione delle regole elettorali. Si tratta di cambi graduali, che sfruttano strumenti apparentemente legittimi per fini illiberali. Sono cambi quindi impercettibili ai più, che evitano gli strappi eclatanti del passato e che, pur preservando una facciata democratica, svuotano i regimi democratici del loro contenuto liberale. Soprattutto, non è necessario uno sconfinamento in territori autocratici per sperimentare una erosione della qualità della democrazia. Questa erosione può avvenire all’interno dell’alveo proceduralmente democratico, in cui continuano ad aver luogo elezioni ricorrenti e relativamente libere. I nostri sistemi politici sono poco preparati a questo tipo di insidie ed è quindi fondamentale rimanere attenti a queste avvisaglie. Le varie esperienze a livello globale confermano che nessun tipo di regime è esente da rischi – compresi anche quelli democratici avanzati. Allo stesso tempo, non è possibile riporre sulle sole istituzioni di controllo indipendenti – quali magistratura o corti costituzionali – l’onere di preservare lo status quo democratico.