Scritto da Daniele Molteni
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Gianluca Salvatori è Segretario generale di EURICSE – European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises.
L’economia sociale per anni è stata vista come un ambito di nicchia, nonostante la sua capacità di innovare e rispondere ai bisogni delle comunità. Con il Social Economy Action Plan dell’Unione Europea è stato rimarcato però un cambio di passo. Da cosa deriva questa evoluzione?
Gianluca Salvatori: La premessa da fare è che il Piano d’azione non nasce nel vuoto, ma si costruisce sui dieci anni precedenti della Social Business Initiative (SBI) del 2011: la prima volta che nelle politiche europee si inserisce una dimensione dell’impresa non capitalistica con finalità di interesse generale e sociale. Con la SBI l’attenzione è soprattutto sulle nuove imprese e la nuova imprenditorialità; dal punto di vista culturale, è una presa di posizione che deriva dalla constatazione che il mondo delle imprese tradizionali è stato trasformato dalle startup, dalle imprese innovative e dall’irruzione delle nuove tecnologie. Quindi, per analogia, lo stesso ragionamento si è sviluppato anche nel mondo dell’economia sociale, in particolare con le imprese con un contenuto di innovazione più pronunciato: startup sociali e social entrepreneurship di influenza anche anglosassone e nordamericana, che riprendono l’idea della disruption, secondo cui un imprenditore motivato socialmente e con una forte etica di impegno mette al servizio le proprie competenze manageriali e la propria capacità di fare impresa. Questa idea nasce nel contesto della reazione alla crisi del 2008-2009, che poi in Europa sarà 2011-2012 perché legata alla crisi dell’area euro e del debito sovrano.
Quel cambio di passo, come lo ha definito, è ancora però molto focalizzato soltanto sul sottoinsieme apparentemente più innovativo. Poi nel 2017 la Commissione approva il Pilastro dei diritti sociali, la prima sostanziale correzione delle politiche dopo Maastricht che bilancia l’orientamento fino a quel momento prevalente sul tema del mercato unico. L’Unione Europea stessa nasce con l’imprinting della realizzazione del mercato unico, nei suoi primi 20-25 anni pensato come popolato fondamentalmente da imprese tradizionali a scopo di profitto. Il tema sociale è sempre stato messo in secondo piano, ma nel periodo 2008-2012, la grande recessione americana e la crisi europea scuotono alla base questa convinzione, mettendo in discussione il fatto che i meccanismi di mercato e i suoi soggetti siano in grado di affrontare qualsiasi criticità, incluse quelle sociali. Così entra nel discorso pubblico europeo il tema del bilanciamento della dimensione economica con la coesione sociale. La dimensione economica resta centrale nelle politiche europee anche per questioni relative ai trattati, perché l’Unione nasce come entità economica, ma a quel punto l’idea è che all’interno di questo spazio possano agire anche soggetti che includono nel loro DNA la dimensione sociale. Si è fatta strada l’idea che l’economia di mercato basata su un solo tipo di impresa non è in grado di far fronte alle sfide poste dalla contemporaneità.
Come si arriva poi al Social Economy Action Plan?
Gianluca Salvatori: Le organizzazioni sul campo, gli studiosi e gli attori sociali si sono mobilitati per correggere questa visione troppo focalizzata sulle nuove imprese sociali e sulle startup, per allargare lo spettro e reclamare il ruolo svolto non soltanto nel passato, ma anche nel presente e potenzialmente nel futuro da tutto il mondo cooperativo, dall’associazionismo e dalle fondazioni. Queste sono le basi culturali che segnano il passaggio dalla SBI al Social Economy Action Plan, il Piano d’azione che incorpora tutte le forme organizzative che possono essere ricomprese nella “famiglia” dell’economia sociale, che hanno la caratteristica di porre la persona al centro anziché il profitto. Sono organizzazioni che destinano i propri proventi all’attività istituzionale e alla redistribuzione, e che hanno forme di governo di tipo democratico o partecipativo.
Dopo il 2011, si è assistito però anche al ritorno sulla scena dell’autorità pubblica dello Stato in varie forme: con la sua capacità di far debito per salvare i soggetti finanziari dal collasso, come autorità di sanità pubblica per affrontare la pandemia, e come soggetto di politica estera che deve prendere posizione rispetto a un conflitto scoppiato alle porte di casa. Tutte queste modalità diverse confluiscono nel riportare al centro della scena un soggetto che era stato invitato a farsi da parte, per trent’anni considerato una presenza troppo ingombrante e da ridimensionare rispetto ai meccanismi della globalizzazione dei mercati. Tornano così sulla scena i poteri pubblici, dimostrando di avere forza ma non l’appoggio della società. Una condizione molto diversa rispetto a quella dei trent’anni gloriosi del secondo dopoguerra, in cui le istituzioni pubbliche presidiavano la ricostruzione postbellica sostenute dal consenso sociale mediato dagli attori della società civile: i partiti, i sindacati, l’associazionismo, e tutto quel mondo di corpi mediani che facevano da snodo tra il singolo cittadino e il potere dello Stato. Tutta questa dimensione progressivamente è scomparsa e la condizione attuale è che abbiamo dei poteri che dimostrano la loro capacità di intervenire nella vita delle persone e delle imprese, ma non sono sostenuti da un tessuto sociale coeso. Questo è il contesto nel quale l’economia sociale si colloca, da un lato adottando la capacità risolutiva degli attori di mercato tradizionali; e dall’altro mitigando la solitudine dei poteri pubblici, che hanno grande forza decisionale ma scarso consenso. L’economia sociale nasce quindi come un progetto dal carattere politico forte, più o meno esplicito, e va a occuparsi di un problema altrettanto politico che è quello della costruzione del consenso attorno alle strategie di sviluppo.
Uno studio comparativo a livello europeo coordinato da EURICSE ha mostrato che l’economia sociale impiega circa 11,5 milioni di persone nell’Unione Europea e ha un impatto economico significativo. Tuttavia, la frammentazione tra i Paesi rende difficile il riconoscimento istituzionale del settore. A proposito anche del ritorno dello Stato e dei poteri pubblici, oggi assistiamo spesso a un discorso incentrato sul singolo Stato nazione e sulla tutela dei suoi interessi. Da un punto di vista sempre europeo, questa frammentazione rende più difficile il riconoscimento istituzionale del ruolo dell’economia sociale?
Gianluca Salvatori: Tutta la tensione alla quale stiamo assistendo tra visioni diverse rispetto a cosa debba essere l’Europa – una federazione o una confederazione, una somma di Stati o un potere sovraordinato autonomo – non riguarda specificamente l’economia sociale. Ma è chiaro che il modo in cui le istituzioni europee – Commissione, Parlamento e Consiglio – guardano all’economia sociale si colloca in una dimensione fortemente transnazionale, cioè di costruzione dell’Europa come federazione. L’economia sociale è vista come un attore di quel progetto perché si dedica non ad alzare i muri del nazionalismo tradizionale ma a creare relazioni, connessioni e reti di collaborazione che prescindono dalle frontiere tra gli Stati membri. Che la visione europea dell’economia sociale sia fortemente orientata in quella direzione, a far crescere una società europea dentro un mercato unico, lo testimonia anche la ripetuta convinzione con cui la Commissione si impegna su obiettivi ambiziosi, come nel caso di quelle forme di organizzazione che nascono direttamente europee come la SCE, la Società Cooperativa Europea. Una cooperativa in forma transnazionale all’interno del perimetro dell’Unione che si registra a livello nazionale ma può operare liberamente in tutti i Paesi, potendo spostare in altri Paesi membri la sede senza ostacoli e avendo la facoltà di associare membri di Paesi diversi. La Società Cooperativa Europea non ha avuto grande successo ma è simbolicamente molto importante perché afferma il principio che le cooperative sono parte dello spazio economico e possono avere una dimensione sovranazionale. Il passo successivo, oggetto della discussione in questo periodo, è la proposta di istituire un 28º regime, cioè l’idea di avere un regime ulteriore rispetto ai 27 regimi nazionali che nasca come costituzionalmente europeo per registrare una impresa o un’organizzazione direttamente a Bruxelles o dove l’Unione Europea decide che venga registrata, per poi valere su tutti i 27 Paesi. Il 28º regime è pienamente nella logica dell’ampliamento del mercato unico e della società europea su scala transnazionale. In una direzione analoga va anche citata la proposta di uno Statuto europeo delle associazioni, promossa dal Parlamento Europeo e portata avanti dalla Commissione, che è in una fase di elaborazione avanzata ma non è ancora stata approvata dal Consiglio; quindi, non ha ancora valore di norma.
Tutte queste iniziative vanno nella direzione di consentire la creazione di organizzazioni che nascano direttamente europee. L’economia sociale per l’Europa è anche questo. Sicuramente i singoli Paesi risentono del clima culturale e del contesto politico specifico, ma dal mio osservatorio vedo il mondo delle organizzazioni dell’economia sociale molto legato a una visione progressiva dell’idea europea. Quindi, non è influenzato, almeno per il momento, da una chiusura nazionalistica. Sia dal punto di vista culturale che da quello operativo è un mondo che tende a collocarsi all’interno di questa corrente di pensiero più aperta, e per questo motivo ha aderito con convinzione al processo messo in atto della Commissione. Non si troverà una rappresentanza delle cooperative e delle associazioni, in tutta Europa, che non sia soddisfatta dell’esistenza del Piano d’azione o della raccomandazione del Consiglio Europeo, proprio perché culturalmente è lo scenario verso il quale in larga parte guardano.
A proposito del tema dell’innovazione più in generale, un’altra ricerca dal titolo Cooperative di dati tra vecchi nuovi modelli evidenzia il potenziale delle cooperative di dati in settori come sanità e agricoltura, in un momento in cui si parla molto di innovazione tecnologica, di transizioni digitali, di intelligenza artificiale e così via. Rispetto a questa ricerca quali sono i risultati in questi settori?
Gianluca Salvatori: Forse non sono la persona più adatta a rispondere perché ho una posizione condizionata da diversi dubbi. Ciò che si sente ripetere più spesso è che le cooperative hanno un grande potenziale nel fornire una soluzione alternativa al problema della gestione dei dati, che sia di tipo democratico e quindi più rispettosa dei diritti delle persone. Uno degli esempi più citati è quello di una cooperativa svizzera, MIDATA, che nasce per la gestione dei dati clinici che volontariamente i cittadini decidono di rendere utilizzabili per scopi di ricerca. Si tratta di una cooperativa che risolve il problema, altrimenti inaggirabile, che un centro di ricerca medica incontra quando intende utilizzare dati personali, ma è impedito dalle norme relative alla privacy. Essendoci in questo caso un intermediario, una cooperativa che per uno scopo di interesse generale acquisisce il diritto dai singoli proprietari dei dati di farne un uso a scopi scientifici, il problema viene risolto in maniera equa e positiva.
Ho l’impressione però che si tratti di situazioni di nicchia. Se sul piano teorico è tutto vero e virtuoso, e le cooperative dei dati sono una magnifica invenzione che la Commissione Europea fa bene a prevedere e a sostenere, va detto che purtroppo arrivano tardi. La meccanica attraverso la quale l’industria tecnologica funziona oggi è “il primo prende tutto”, cioè l’intero mercato, e crea un monopolio. È il modo stesso in cui si evolvono queste tecnologie a non lasciare molto spazio. C’è una grande asimmetria in termini di capacità di mobilitare risorse, di attirare investimenti, di essere presenti sul mercato. Il mio timore è che queste realtà cooperative restino solo delle testimonianze, per quanto preziose, perché il tema – per essere efficaci – non può che essere affrontato anche a livello normativo, non soltanto organizzativo. Non basta costituire delle cooperative che si offrano di gestire i dati in modo democratico, bisogna che vi siano delle norme che impongano delle soluzioni di rispetto della proprietà dei dati da parte dei produttori delle tecnologie e che pongano limiti all’estrazione dei dati da parte dei grandi gruppi monopolistici. Senza un intervento legislativo, tutto il meccanismo è volontaristico e può funzionare solo in specifici contesti e su dimensioni molto piccole. Creando uno iato enorme tra poche grandi multinazionali e queste microsperimentazioni che faticano a sopravvivere. La mia, quindi, non è un’obiezione di principio, ma più che altro un’osservazione di come l’intervento debba essere accompagnato da una forte azione sul versante istituzionale. Il mondo dell’economia sociale dovrebbe spendersi perché il sistema venga normato in maniera da favorire il rispetto di un regime distribuito di proprietà dei dati. Vediamo però che le regole faticano a marciare allo stesso passo delle innovazioni tecnologiche. C’è un rischio costante di arrivare troppo tardi, quando i buoi sono già scappati dalla stalla. Il tema è come bilanciare in maniera più efficace la volontà di disciplinare e la necessità di innovare, in modo tale da influenzare il corso delle cose e non subirlo. Una risposta convincente però ancora non la vedo.
Rispetto all’industria tecnologica, questo scenario può far correre anche il rischio che si presenti, per queste cooperative di dati, un fenomeno di isomorfismo, cioè il rischio che le cooperative e le imprese sociali si adattino ai modelli competitivi tradizionali perché il contesto è quello che abbiamo delineato?
Gianluca Salvatori: Non vedrei questo rischio nel caso specifico delle cooperative di dati perché queste realtà hanno ben chiara la loro dimensione alternativa rispetto alle procedure e ai meccanismi messi in atto dalle Big Tech. Vale però in altri casi, ed è un atteggiamento che si vede crescere in funzione della dimensione. Quanto più un’organizzazione diventa grande, complessa, e presente sul mercato, tanto più tende poi ad assimilare modalità manageriali, operative e di personale dal mondo profit. La questione è quanto sia possibile disaccoppiare la crescita quantitativa rispetto alla deriva che porta ad assimilare tutte le imprese al modello capitalista. In EURICSE ormai da dieci anni siamo responsabili di un database, il World Cooperative Monitor, che censisce le 300 cooperative più grandi al mondo, in tutti i settori, dalla finanza, alle assicurazioni, all’agricoltura. Sono a tutti gli effetti imprese paragonabili, per dimensioni, alle grandi imprese quotate, anche multinazionali, con bilanci per nulla inferiori rispetto a quelli dei grandi gruppi. Quello che è interessante capire è se la crescita dimensionale che avviene in maniera verticale, cioè dentro un’organizzazione, sia il modo migliore per far crescere le entità dell’economia sociale, o se, al contrario, questo modello di crescita non le spinga inevitabilmente verso l’isomorfismo, al contrario di un’altra modalità di crescita di tipo reticolare. Quest’ultima è una crescita che non avviene nell’ambito della stessa organizzazione, ma coinvolge più organizzazioni che si associano, e rappresenta un modo per preservare la natura di questo modello, con le sue caratteristiche specifiche, rispetto a quanto nella maggior parte dei casi avviene con una singola grande organizzazione verticale.
Molto spesso in ambito europeo si enfatizza la necessità che l’economia sociale faccia scaling up, come priorità per affermarsi come organizzazione competitiva dal punto di vista commerciale. Si ripete alle organizzazioni: “dovete crescere, dovete operare in tutti i Paesi europei, dovete avere dimensioni tali da soddisfare un maggior numero possibile di bisogni”. Ma quando la conversazione insiste su questo punto è necessario tenere presente che il più delle volte lo scaling up di cui si parla conduce ad uno snaturamento del modello originario. Può esserci invece una crescita che è di natura consortile, reticolare, per patti, insomma per forme che mantengano una forte relazionalità a livello territoriale, e che proprio per questo preserva le radici che affondano in specifiche realtà. Questo è uno degli aspetti critici nel rapporto con le politiche europee: mentre prima ho descritto soprattutto l’aspetto positivo, cioè il fatto che le istituzioni europee siano arrivate finalmente a rendersi conto che la pluralità dei modelli di impresa è importante per lo sviluppo europeo, in quanto non si può far riferimento solo su di un unico modello di impresa. Per contro, è ancora molto forte l’idea che o la singola organizzazione cresce dimensionalmente, o perde rilevanza perché non soddisfa adeguatamente il bisogno al quale si rivolge, quasi che il modello di crescita fosse uno soltanto e uguale per tutti.
Sul piano della crescita e del radicamento, il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna riprende quello europeo per implementare sul territorio questo paradigma. Dal punto di vista del modello e della governance, la collaborazione tra cooperazione, privati e istituzioni è la via giusta da perseguire o ci sono anche altre possibilità? Questo modello potrebbe essere adottato in altri territori su scala nazionale?
Gianluca Salvatori: A Bologna ho visto in opera una cosa di cui tutti parlano ma che pochi realizzano, cioè la creazione di un ecosistema. Di fatto che cosa significa se non creare un sistema di relazioni funzionante? Questo non esclude che in queste relazioni possano esserci anche elementi conflittuali e disallineamenti, però se ci si concepisce all’interno di un sistema di relazioni è possibile gestire opportunità e criticità, convergenze e divergenze. Bologna sta provando a strutturare un sistema di relazioni in cui attori diversi, da quelli pubblici e di policy a quelli privati che agiscono nell’ambito economico, con dimensione sia profit sia non profit, sono chiamati a concepirsi come parte di un’architettura, e non come singoli individui che devono pensare al proprio futuro in maniera del tutto autonoma. L’idea di combinare questi pezzi, di creare un’architettura mobile e non statica, per far lavorare insieme tanti soggetti con un’idea di missione su un territorio è la messa in pratica del concetto di ecosistema, che ricorre tanto spesso nei documenti e nei convegni ma che poi deve anche essere realizzato in concreto. Seguo l’esperienza di Bologna con molta attenzione perché mi sembra che gli ingredienti giusti ci siano tutti. C’è un sistema cooperativo che ha accettato di misurarsi sul tema dell’economia sociale. Una cosa non banale, perché inizialmente c’è stata una resistenza del mondo cooperativo, e non mi riferisco ovviamente a Bologna ma ad altri territori, a mescolarsi con il non profit, con il Terzo settore, con il mondo delle fondazioni e degli altri attori dell’economia sociale. A Bologna vediamo l’autorità pubblica, con la Città Metropolitana, che su questo progetto ha investito e ha fatto da collante, svolgendo la sua funzione di mediazione tra le differenze. C’è il mondo della ricerca, con i produttori di conoscenza che hanno accompagnato e si sono affiancati a questo processo contribuendo con i contenuti. E naturalmente c’è il Terzo settore e c’è l’impresa privata. Quindi il Piano è particolarmente interessante perché riproduce la complessità che la realtà concreta propone. Gli ecosistemi costruiti a tavolino sono esercizi gratificanti dal punto di vista intellettuale, ma poi si scontrano col fatto che la realtà è diversa: a Bologna si fanno i conti con la dimensione della realtà. Ed è un buon esempio anche per altri territori. Oggi anche altrove qualcosa comincia a muoversi, ed è importante che i bolognesi facciano conoscere di più il loro lavoro.
La realtà di Bologna potrebbe rischiare di rimanere un unicum proprio per le contingenze del suo territorio? Cioè, per il fatto che non si possa prescindere da quelle che sono le condizioni materiali e culturali in cui si sviluppano queste reti?
Gianluca Salvatori: Come sappiamo è in fase di elaborazione un piano nazionale per l’economia sociale, che risponde alla raccomandazione del Consiglio Europeo e che vedrà la luce entro novembre di quest’anno. Ed è un piano al quale stanno contribuendo le varie entità che lavorano o esprimono interesse ai temi dell’economia sociale: il mondo della cooperazione, il Terzo settore, le fondazioni, le istituzioni finanziarie e quelle della ricerca, e altri attori ancora. Nel piano un’attenzione è dedicata anche alla governance multilivello e alla esigenza che il piano non resti solo nazionale, ma riesca ad incentivare la creazione di politiche di livello regionale e locale. Questo è quello che sta avvenendo in Europa ed è corretto che sia così perché l’economia sociale è innanzitutto economia dei territori. Il piano esprime un’istanza di carattere culturale, ma questa deve accompagnarsi anche a strumenti di incentivazione e a sostegni economici, per fare in modo che sempre più regioni ed enti locali prendano in considerazione questo tema nella definizione delle proprie politiche e attività.
Ad un’azione dall’alto è necessario che se ne affianchi una dal basso, capace di creare un effetto mimetico. Quando le cose dimostrano di funzionare, infatti, creano un interesse che si diffonde velocemente. Specie quando la pubblica amministrazione realizza che questo è un buon un modo per mettere in circolo energie che altrimenti resterebbero ai margini o sottovalutate. Anche in questo l’esperienza di Bologna può costituire un esempio positivo. E, pur con tutte le sue caratteristiche particolari – perché ogni ecosistema fa storia a sé – è un’esperienza in grado di stimolare anche altri territori ad aprirsi a processi simili. Nulla è deterministico, ovviamente; quello dell’economia sociale non è un ambito in cui esistano formule ripetibili meccanicamente. Ma quando si attivano processi che rispondono a bisogni reali – ed è evidente che questi bisogni oggi siano impellenti – pur con tutte le diversità, le risposte hanno molto da apprendere dalla circolazione delle conoscenze.