La città come laboratorio di democrazia e coesione sociale. Intervista a Ada Colau
- 16 Gennaio 2025

La città come laboratorio di democrazia e coesione sociale. Intervista a Ada Colau

Scritto da Daniele Molteni

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Le città contemporanee sono quotidianamente alle prese con fenomeni trasformativi e difficili da governare: iperturismo, digitalizzazione, transizione ecologica, crisi abitative, marginalità e conflitti sociali. Poiché si prevede che sempre più persone nei prossimi anni si trasferiranno nei centri urbani, questi fenomeni richiedono oggi nuovi modelli di governance che bilancino i diversi interessi delle persone che vivono al loro interno.

In questa intervista, Ada Colau, già sindaca di Barcellona per due mandati e ospite di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nell’ambito del programma Feltrinelli Chair, riflette sul significato di “città di successo”, evidenziando la necessità di tutelare i diritti dei residenti, garantire alloggi accessibili e favorire una comunità fiorente fatta di relazioni reali, per prevenire l’insicurezza. Le città, secondo Colau, possono diventare laboratori di innovazione politica e sociale, capaci di promuovere obiettivi progressisti attraverso la partecipazione civica e la collaborazione internazionale, proteggere l’ambiente e la democrazia.


Quando si parla di che cos’è una città di successo, molti pensano a un luogo ipertecnologico, ricco, all’avanguardia e ordinato. Qual è la sua definizione di città di successo?

Ada Colau: Troppo spesso chiediamo ai politici di darci le risposte ma a volte è prima necessario trovare le domande giuste. Personalmente, credo che dovremmo interrogarci di più – come umanità in generale e come politica in particolare – sugli usi del linguaggio che, come ci ha spiegato bene il femminismo, rappresenta lo strumento che ci permette di plasmare la realtà. Se parliamo di città, ci dobbiamo chiedere prima di tutto cosa intendiamo con questo concetto. Città non significa strade, piazze, musei, o infrastrutture, che certamente sono molto importanti, ma soprattutto persone, senza le quali una città non può esistere. La definizione di città, dai tempi della Grecia antica, è quella di un luogo di condivisione di idee, sogni, desideri e prospettive di futuro, legato alla nascita della democrazia. I ranking internazionali sulle città riguardano però le più belle o le più visitate, ed è diffusa un’idea di città di successo legata agli interessi dei fondi di investimento, al turismo, alla tecnologia, spesso in contrasto con quella definizione di città come luogo democratico di condivisione. Una città di successo è dove si può vivere bene insieme, dove i bambini giocano in strada senza pericoli, si può passeggiare, fermarsi, chiacchierare con i vicini e trovare l’essenziale per la vita quotidiana. Al contrario, non lo è una città invasa da automobili, turisti e inquinamento, dove non si vedono bambini giocare o non è possibile comprare quello di cui si ha bisogno senza spostarsi per chilometri. Quindi serve prima di tutto ripensare il concetto di città di successo, così da concentrarsi sulle relazioni e sui bisogni della maggior parte delle persone, che spesso sono legati al vivere in una casa a un prezzo equo e alla socialità. A Barcellona abbiamo visto che uno dei problemi principali in città era la solitudine e abbiamo promosso delle iniziative per contrastarla e creare nuove relazioni tra le persone. Anche se può sembrare un paradosso, perché il concentramento umano più denso si ha nelle città, al loro interno sempre più persone si sentono sole: un tema di cui non si parla abbastanza.

 

Nei suoi mandati da sindaca di Barcellona, dal 2015 al 2023, la città è diventata un modello da seguire per la sua capacità di governare quei fenomeni che ora anche altre città e altri Paesi si trovano ad affrontare. Che tipo di contesto ha trovato all’inizio del suo mandato e quale approccio ha proposto? Ci sono iniziative che oggi avrebbe implementato diversamente o che non è riuscita a implementare come avrebbe voluto?

Ada Colau: Uno dei nostri ruoli è stato quello di cambiare l’agenda delle priorità e di portare nelle istituzioni i temi discussi in città, come il turismo senza limiti e la speculazione immobiliare, di cui la politica non si occupava abbastanza. Nel 2015 la sensazione era che il turismo fosse fuori controllo, che stava invadendo lo spazio, cancellando le relazioni di vicinato e mandando via i cittadini, soprattutto dai quartieri del centro storico. Al tempo c’erano molti più letti per turisti che per residenti e tanti negozi riguardanti la vita quotidiana erano costretti a chiudere per lasciare spazio a quelli legati al turismo. Questo fenomeno è emerso perché la gestione della città è stata lasciata alle logiche di mercato e agli interessi legati all’iperturismo. I greci antichi, di nuovo, sottolineavano come una delle difficoltà delle città sia trovare l’equilibrio tra i diversi interessi dei tanti cittadini concentrati in uno spazio ridotto. Così, una delle nostre prime proposte è stata quella di mettere ordine a un fenomeno fuori controllo, che seguiva gli interessi di pochi, con un piano regolatore che, nonostante le iniziali perplessità, è stato poi riconosciuto come necessario da tutti, compresi i grandi albergatori. Dopo questo cambiamento nel senso comune altre città hanno fatto lo stesso e persino l’Unione Europea ha studiato il caso di Barcellona come modello.

Sin da subito abbiamo promosso una politica di diritto alla casa senza precedenti: migliaia di case popolari di iniziativa diretta del Comune, la cessione d’uso del terreno di proprietà del Comune alle cooperative per costruire più di mille appartamenti e l’acquisito di case già costruite in centro, per far sì che le case popolari non fossero soltanto in periferia. Tramite un nuovo servizio di mediazione, inoltre, abbiamo fermato migliaia di sfratti di famiglie in difficoltà. Tuttavia, quando siamo arrivati al governo della città le case pubbliche erano solo l’1% e, anche se in otto anni la percentuale è più che raddoppiata, non siamo riusciti a risolvere il problema. In questi anni abbiamo chiesto più volte al governo statale una legge per regolare gli affitti che, nonostante le promesse, è arrivata solo un anno fa, ma nel frattempo i prezzi sono saliti. Sono orgogliosa di dire che abbiamo fatto tutto il possibile, però le competenze del Comune sono limitate e molto dipende dallo Stato, dalla Regione, o persino dall’Unione Europea, e questo a volte causa frustrazione.

 

Nella ricerca di questo equilibrio nella città è possibile far coincidere gli interessi dei piccoli proprietari, che integrano i loro redditi tramite le piattaforme legate al turismo, con una maggiore equità abitativa, permettendo al contempo ai cittadini di vivere la propria città e ai turisti di visitarla, evitando concezioni classiste per cui può viaggiare solo chi è disposto a spendere somme ingenti?

Ada Colau: Il tema è complesso e richiede l’ascolto dei diversi interessi coinvolti, ma ciò non significa che abbiano tutti la stessa legittimità o debbano essere considerati allo stesso livello. Barcellona è una città aperta e accogliente, e siamo felici che tante persone vogliano visitarla, ma esistono dei limiti fisici di spazio e risorse abitative: le case sono destinate ai residenti o ai turisti. La priorità deve essere sempre quella di garantire il diritto alla casa e alla città, che sono diritti riconosciuti internazionalmente e hanno la priorità sul diritto del turista a dormire in centro. Questo è un caso concreto del conflitto di interessi, su cui abbiamo lavorato per riequilibrare questo fenomeno, perché per decenni erano stati ascoltati solo gli albergatori, le compagnie di navigazione che organizzano le crociere e le grandi imprese del turismo. La voce dei cittadini era del tutto marginalizzata e noi abbiamo deciso di dare maggiore peso a questi interessi trascurati. È importante chiarire che il problema non sono i turisti in sé ma l’iperturismo, che spesso non è legato tanto ai piccoli proprietari quanto agli interessi economici dei grandi capitali, che generano inoltre lavori precari, sottopagati e senza valore aggiunto. È un modello economico che non è né sostenibile né vantaggioso per il benessere generale della città. Barcellona, al contrario, deve puntare su un’economia diversificata, sostenibile e giusta, che crei valore aggiunto, lavori dignitosi, di qualità e ben retribuiti. È preferibile investire in ricerca e cultura anziché dipendere esclusivamente dal turismo, anche perché una città che punta solo sul turismo è più vulnerabile e rischia di perdere la propria identità. Serve una visione a medio e lungo termine che non sia limitata al profitto immediato, perché non tutte le attività economiche sono un bene per un modello di città che valorizzi la qualità della vita, la sostenibilità e la diversificazione economica. In un sondaggio condotto su oltre 6.000 turisti a Barcellona il giudizio sulla città è stato eccellente. Tuttavia, alla domanda su cosa non fosse piaciuto, molti hanno risposto: «i troppi turisti». Questo evidenzia come lo stesso turista desideri visitare una città autentica e vitale.

 

Gentrificazione e privatizzazioni stanno rendendo le città meno accessibili ai loro stessi abitanti. La sua esperienza politica è iniziata proprio nell’ambito dei movimenti per la casa e il diritto all’abitare, contro questo tipo di dinamiche. Perché sembra così difficile governare tali questioni strutturali e che tipo di interlocuzione c’è stata, dal punto di vista istituzionale, con i movimenti sociali e con i privati? Le partnership pubblico-privato possono funzionare?

Ada Colau: Venendo dai movimenti sociali, sapevamo quanto fosse importante mantenere l’indipendenza di queste realtà, che abbiamo sempre trattato con rispetto e attenzione, senza aspettarci che sostenessero automaticamente l’amministrazione. I movimenti sociali rappresentano una forma di contropotere fondamentale in una città, soprattutto in un contesto in cui alcuni attori economici esercitano un’influenza sproporzionata. Quando sono diventata sindaca, ho constatato di persona come i piccoli contribuenti rispettassero gli obblighi fiscali, mentre alcune grandi aziende non lo facevano. Questo e altri privilegi andavano smantellati anche con l’ascolto dei movimenti sociali con cui abbiamo creato spazi di dialogo, come il Consiglio municipale per le politiche abitative, per un confronto tra diversi attori. Ribadisco che non tutti gli interessi hanno la stessa legittimità: un movimento sociale o una cooperativa che agisce per il bene comune non possono essere equiparati a un miliardario il cui unico obiettivo è aumentare i propri profitti. Questo è l’approccio che ci ha permesso di ripensare il rapporto tra pubblico e privato, che per decenni è stato presentato come fulcro del “modello Barcellona”. Dal 1992, con le Olimpiadi, il modello pubblico-privato esaltato come l’unico possibile si basava sul pubblico che offriva soldi e terreni e il privato che incassava i guadagni, senza alcun ritorno per la città. Noi ci siamo chiesti se ci fossero altre modalità di collaborazione e abbiamo dimostrato che esistono. Un esempio concreto è stata la creazione di un’azienda pubblico-privata per la costruzione di case, con il 51% della proprietà in mano al pubblico e i terreni concessi in uso tramite concorsi senza cedere la proprietà. In questo modello, i privati partecipano, costruiscono le abitazioni e gestiscono gli affitti con prezzi regolati dal Comune. Si tratta di una soluzione intermedia tra il sistema delle case popolari e il libero mercato, che limita i guadagni dei privati ma li incentiva comunque a partecipare. Questo approccio ci ha permesso di recuperare il controllo su uno degli strumenti chiave delle amministrazioni locali: la gestione del valore aggiunto urbano, o plusvalore. In passato, si era rinunciato a questo potere lasciando che i privati fissassero i prezzi senza alcun limite, con conseguenze devastanti per l’accessibilità abitativa. Riprendere il controllo è stato essenziale per contrastare le disuguaglianze e i beni comuni.

 

Un tema diffuso ormai da molti anni è il concetto di smart city, ovvero tutto ciò che concerne la digitalizzazione e l’innovazione delle città. Insieme a quello di “smart”, sta emergendo però anche il concetto meno positivo di “dataveillance” city, in riferimento alla proliferazione della raccolta dati su cui spesso i cittadini non hanno controllo, e ad alcune strategie di sorveglianza diffusa che producono effetti psicologici su coloro che attraversano la città. Quale è stata l’esperienza di Barcellona e come può essere affrontata questa sfida più in generale?

Ada Colau: Il tema è strettamente legato al rapporto pubblico-privato. Nel 2015 Barcellona ospitava già lo Smart City Expo World Congress, un’iniziativa nata per promuovere l’uso della tecnologia per migliorare i servizi urbani. Quest’ultimo è un obiettivo su cui possiamo essere tutti d’accordo, ma negli anni il Congresso si era trasformato in una vetrina per le grandi aziende tecnologiche, che sfruttavano l’evento per proporre i loro prodotti senza una vera direzione pubblica. Una delle nostre iniziative più significative per cambiare questo approccio è stata la creazione di un’infrastruttura pubblica chiamata Canòdrom, situata in un quartiere periferico: uno spazio concepito come un laboratorio di ricerca tecnologica basato su principi di open data, sicurezza e sovranità digitale dei cittadini. Da questa esperienza è nata una delle piattaforme più innovative e rappresentative del nostro approccio: Decidim Barcelona, una piattaforma open source e open data che abbiamo utilizzato per tutti i processi partecipativi delle politiche pubbliche di Barcellona. La piattaforma è stata progettata per essere condivisa con altri enti pubblici, e oggi è utilizzata da piccoli comuni che spesso non hanno le risorse per sviluppare strumenti simili, ma anche dal Parlamento Europeo e da altre istituzioni. Un esempio concreto di come le risorse pubbliche possano essere impiegate per creare beni comuni a disposizione della collettività, andando contro la logica di affidare gli strumenti di partecipazione ad aziende private, che controllano i dati a scopo commerciale con poca trasparenza ed equità.

 

Le città oggi ospitano buona parte della popolazione globale e in futuro saranno sempre più abitate. Di conseguenza, aumenta la loro rilevanza anche rispetto al cambiamento climatico e alla necessità di pensarle in funzione dei suoi effetti evidenti, come è stato il caso delle alluvioni a Bologna e a Valencia. Quali opportunità esistono per le città di guidare la transizione ecologica e promuovere la sostenibilità, integrando anche le aree limitrofe e le persone che vivono ai loro margini, al contempo contrastando le narrazioni populiste contro l’ecologismo?

Ada Colau: Questo è senza dubbio uno dei temi centrali del nostro tempo. Le città non solo possono, ma devono trovare risposte, perché sono parte del problema di una crisi climatica che mette a rischio la nostra sopravvivenza. Le aree metropolitane contribuiscono in modo significativo alle emissioni di gas serra con il traffico, il consumo di energia e tutto ciò che è legato ai sistemi di produzione. Una città di successo, per tornare a questo concetto, non è quella dove le persone trascorrono ore bloccate nel traffico, ma una dove il lavoro è vicino a casa, raggiungibile a piedi o in bicicletta, e dove esiste una vita di quartiere vibrante. A Barcellona abbiamo adottato il modello delle superilles (super-aree): strade pedonalizzate e rese più verdi, con spazi per camminare e socializzare. Questo modello promuove la vicinanza dei servizi essenziali, riduce l’inquinamento e migliora la salute pubblica e la qualità della vita mitigando gli effetti del cambiamento climatico, come le ondate di calore sempre più intense.  Nonostante le polemiche e le accuse di fare ideologia astratta, una volta completata la trasformazione nessuno voleva più tornare indietro perché tutta la città ne ha guadagnato.

Nella produzione energetica la logica è la stessa: a Barcellona abbiamo creato un’azienda pubblica metropolitana, Barcelona Energia, che non potendo produrre energia direttamente si è concentrata sulla distribuzione, garantendo che fosse al 100% rinnovabile e acquistata a prezzi competitivi sul mercato. Questa azienda pubblica non mira al profitto, ma a fornire un servizio efficiente e sostenibile. Abbiamo iniziato con la fornitura di tutti gli edifici e i servizi pubblici per risparmiare risorse e ridurre le emissioni, poi abbiamo esteso l’offerta ai cittadini e alle imprese private, fornendo anche consulenze per scegliere le tariffe più vantaggiose. La transizione ecologica non è solo un imperativo per evitare disastri come quelli di Bologna e Valencia, ma rappresenta anche una straordinaria opportunità per innovare e promuovere tecnologie sostenibili con un approccio orientato al bene comune. Investire nella transizione migliora la qualità della vita ma genera anche un’economia più forte, con posti di lavoro di qualità e nuovi settori con grandi possibilità di crescita. La chiave è far comprendere che questo cambiamento è positivo per tutti, contrastando le narrazioni, spesso provenienti dalla destra negazionista, che dipingono le politiche ecologiche come moralistiche o penalizzanti per la vita quotidiana dei cittadini.

 

Da novembre 2024 a febbraio 2025, è ospite presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nell’ambito del programma Feltrinelli Chair, per supportare le attività di ricerca con uno sguardo comparativo a livello globale e promuovere iniziative internazionali. Milano è una città percepita spesso come insicura, in particolare da donne e minoranze di genere. Recentemente, il caso della morte di Ramy Elgaml ha riacceso il dibattito sulla marginalizzazione sociale, spesso legata al multiculturalismo e alla povertà, verso cui cresce l’intolleranza. Come spiega questo fenomeno e come potrebbe essere governato evitando dinamiche securitarie o di gentrificazione?

Ada Colau: La sicurezza è un tema cruciale che riguarda tutti anche se spesso viene limitata alla gestione dell’ordine pubblico, trascurando altre dimensioni fondamentali. La principale minaccia alla sicurezza urbana non è la criminalità ma la disuguaglianza: quando crescono le disuguaglianze, alcune comunità si sentono escluse, senza opportunità o prospettive, e il rischio di conflitto aumenta e riguarda l’intera città. Una famiglia che perde la propria casa o fatica a portare il cibo in tavola vive una condizione di insicurezza profonda che non può essere ignorata: sicurezza significa anche garantire l’accesso al cibo, alla casa, ai servizi essenziali.  Occuparsi del tema della coesione sociale e della riduzione delle disuguaglianze è un investimento per il futuro, perché una città coesa è una città più forte. Le tensioni esplose recentemente anche a Parigi, con violenti scontri e saccheggi, mostrano chiaramente cosa accade quando la segregazione e l’esclusione si protraggono troppo a lungo. Servono politiche sociali che diano una risposta concreta per evitare che situazioni simili degenerino altrove ma è altrettanto importante contrastare le narrazioni che puntano il dito contro il multiculturalismo o la povertà come fonti di insicurezza. È incredibile, ad esempio, come si ignorino i problemi legati al turismo di massa: un flusso elevato di turisti genera un aumento di furti e altri piccoli crimini, ma nessuno identifica i turisti come una minaccia per la sicurezza, nonostante i costi – dalla polizia ai servizi pubblici – ricadano sui cittadini.

 

Come si può coniugare il rafforzamento della sicurezza con la promozione di un modello urbano inclusivo?

Ada Colau: Un elemento centrale è promuovere quartieri dal tessuto sociale forte, con comunità coese, associazioni attive e una vita di quartiere viva. La prevenzione dei problemi legati alla sicurezza parte dalla costruzione di relazioni e dalla promozione di un senso di appartenenza, ma purtroppo le destre monopolizzano il discorso riducendolo a un problema di controllo del territorio o di presenza delle forze dell’ordine. La sinistra, d’altro canto, ha faticato a proporre una narrazione alternativa, rimanendo troppo spesso legata a un approccio razionale e moralistico. Ciò che davvero trasforma una città – e il modo in cui viene percepita – sono le esperienze concrete. Dopo il momento critico dell’attentato terroristico sulla Rambla a Barcellona, invece di cedere alla paura e militarizzare la città abbiamo risposto in modo diverso dichiarando dal primo giorno che il problema non era legato alla religione, alla cultura o all’immigrazione, ma al fanatismo. La città ha risposto unita con migliaia di persone che sono scese in piazza a dimostrare di non avere paura e sono stati organizzati eventi con tutte le comunità religiose e culturali per ribadire i valori di pace e inclusione. Questa risposta ha rafforzato il senso di sicurezza collettiva, molto più di quanto avrebbe fatto la presenza dell’esercito. Dobbiamo ripensare il concetto di sicurezza, che non è solo assenza di crimini ma presenza di opportunità e diritti per tutti, che si costruisce insieme attraverso la coesione e la solidarietà.

 

Nella sua militanza e nel suo lavoro è da tempo impegnata nella causa palestinese e nel supporto ai movimenti progressisti in Europa. Esistono delle istanze che dalla piazza potrebbero arrivare nell’agenda dell’amministrazione della cosa pubblica e influenzarla, come accaduto con l’esperienza di Barcelona en Comú? Come possono le città promuovere cambiamenti a livello internazionale e come si inserisce in questa prospettiva il suo lavoro a Milano?

Ada Colau: Nonostante io sia da sempre un’internazionalista convinta, per otto anni di mandato da sindaca a ogni intervista i media spagnoli mi chiedevano se avessi intenzione di presentarmi alla presidenza della Regione o dello Stato, come se il governo locale fosse solo un trampolino verso la “vera” politica nazionale. Questa visione gerarchica la ritengo superata, soprattutto perché viviamo in un mondo globalizzato dove il potere reale è sempre più concentrato nei grandi capitali globali, mentre gli Stati hanno perso terreno. Le città, al contrario, sono spazi di base democratica e di partecipazione diretta dei cittadini con un grande potenziale. Certo, non dispongono delle risorse di uno Stato, ma sono il luogo in cui le persone vivono, si organizzano e sperimentano concretamente soluzioni collettive. Durante i primi anni della mia militanza contro gli sfratti affrontavamo una crisi sociale devastante: migliaia di persone avevano perso lavoro e casa, erano sommerse dai debiti e ridotte all’invisibilità. Inizialmente eravamo solo cinque attivisti a denunciare questa situazione, ma tramite la creazione di uno spazio di comunità le persone colpite hanno compreso che il problema non era individuale, bensì sistemico. Attraverso l’organizzazione collettiva siamo riusciti a costringere le banche a negoziare alternative agli sfratti e a costruire un movimento cittadino abbastanza forte da portare le nostre proposte direttamente al Congresso dei Deputati spagnolo.

Quando i cittadini si uniscono e credono nella possibilità di cambiare le cose il loro potenziale diventa enorme. Le città possono essere spazi di sperimentazione di nuove politiche, come nel caso del confronto di Barcelona en Comú con le piattaforme globali come Airbnb, una multinazionale con enormi risorse e un modello operativo che spesso sfugge alle normative locali, eludendo tasse e regole. A Barcellona abbiamo obbligato Airbnb a rimuovere migliaia di annunci illegali grazie alla pressione politica, esercitata collaborando a livello internazionale con altre città come Amsterdam. Insieme, abbiamo creato una sorta di sindacalismo municipalista, dimostrando che le città unite possono sfidare i poteri globali. Questo tipo di cooperazione tra città – che io chiamo municipalismo internazionale – ha un enorme potenziale e sono convinta che Milano, con la sua storia e il suo dinamismo, possa giocare un ruolo importante in questo scenario. Le città hanno il potere di proporre visioni innovative e di guidare il cambiamento, dal locale al globale, e se posso contribuire a questo progetto sono sempre pronta a farlo.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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