La cooperazione alla Costituente e il futuro dell’economia sociale. Intervista a Mattia Granata
- 24 Gennaio 2025

La cooperazione alla Costituente e il futuro dell’economia sociale. Intervista a Mattia Granata

Scritto da Daniele Molteni

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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale.

Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Mattia Granata – Presidente dell’Area Studi Legacoop, Amministratore della Fondazione Ivano Barberini e Professore di Storia contemporanea all’Università Mercatorum di Roma – a partire dal suo libro Quarantacinque. Il dibattito sulla Cooperazione alla Costituente (Rubbettino Editore 2023), presentato nell’ambito della Biennale.

A questo link una pagina del nostro sito che approfondisce i temi trattati nella Biennale dell’Economia Cooperativa, che verrà progressivamente aggiornata con i link ai contributi e alle interviste che dedicheremo all’evento.


Uno dei temi centrali della Biennale dell’Economia Cooperativa è stato il focus sull’identità della cooperazione. Nel suo libro – Quarantacinque. Il dibattito sulla Cooperazione alla Costituente – ripercorre il dibattito che ha portato alla formulazione, appunto, dell’articolo 45. L’identità del movimento cooperativo era più chiara nel Dopoguerra rispetto a oggi? Cosa emerge da quel dibattito e quanto di quelle visioni sopravvive ancora oggi?

Mattia Granata: Certamente in quel periodo l’identità della Cooperazione era molto chiara. Nel libro, però, propongo una specie di inversione del punto di vista, che va a ritroso, perché noi contemporanei siamo abituati a vedere l’articolo 45 come l’inizio di questa identità: inizia la Repubblica, si scrive la Costituzione e da lì parte la storia radiosa e progressiva del movimento cooperativo italiano. In realtà, una parola molto importante all’interno dell’articolo, citata anche da Sergio Mattarella nel discorso della mattinata della Biennale, afferma che la Repubblica riconosce la Cooperazione. La riconosce nel senso che non la vede per la prima volta, ma che è consapevole di tutto quello che è già successo prima. Quel dibattito, oltre a essere l’inizio, è anche in qualche modo il punto di arrivo di una storia di un secolo che ha preceduto quel momento. È la storia della Cooperazione all’interno dei movimenti sociali ottocenteschi, di emancipazione delle classi subalterne, di reazione alle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali di tutto l’Ottocento. Ma anche della crescita progressiva di questi movimenti in sistemi organizzati, quindi in organizzazioni a livello internazionale, che riguardano il radicamento territoriale e la rappresentanza politica di queste esperienze economiche. L’approvazione dell’articolo 45 è il momento in cui tutta questa storia crescente entra nelle istituzioni e la Cooperazione viene appunto riconosciuta. Poiché la Costituzione italiana è di stampo lavorista, come ha sottolineato Mattarella nel suo intervento, la Cooperazione era considerata uno degli strumenti attraverso cui i lavoratori, che poi diventano concittadini e consumatori, potevano migliorare la propria condizione. La Costituzione offre un’idea molto precisa di quale sia l’identità cooperativa, che è quella di un sistema fondato sulla cooperativa come strumento attraverso cui i ceti subalterni, nel corso di un secolo, hanno costruito la propria cittadinanza nella società economica contemporanea.

 

Nei numerosi interventi riportati emerge la tensione tra visioni diverse della società, tra socialisti, comunisti, liberali, repubblicani; cooperativa laica e scuola sociale cristiana. Si discute, specie negli interventi di Palmiro Togliatti e Luigi Einaudi, ma non solo, di impresa e proprietà privata e di controllo sociale dell’attività economica, per arrivare ai compromessi dell’articolo 45, ma anche dell’articolo 9, sul diritto di proprietà, e dell’articolo 11, sull’impresa. Più volte è stato evidenziato, sia nel testo che in sede di presentazione del libro durante la Biennale, come il dibattito alla Costituente fosse a volte aspro ma comunque rappresentativo di una caratura culturale e intellettuale considerevole. Quanto manca oggi la possibilità di un confronto, anche acceso, tra culture politiche, che possano davvero considerarsi tali, anche differenti?

Mattia Granata: In questo dibattito emergono chiaramente tutte le differenze interne della cultura e della Cooperazione. Restando al movimento cooperativo, ci sono delle rispettabilissime e profonde differenze, come del resto avveniva parallelamente per il movimento sindacale, nell’interpretare la Cooperazione sulla base delle esperienze di queste diverse culture che l’hanno approcciata nel secolo precedente: la cultura socialcomunista laica aveva un’idea di Cooperazione che poteva diventare di più grandi dimensioni, mentre la Cooperazione di matrice confessionale era più basata su una tipologia più piccola di impresa, più radicata e diffusa. Da un lato le cooperative di consumo, dall’altro le cooperative di produzione di più piccole dimensioni. Il punto di frizione più evidente è stato però quello riguardante la vigilanza, dove le differenti visioni, tutte legittime, derivavano dalle diverse esperienze, in una analogia con il caso dei sindacalisti cattolici, socialisti, comunisti, che presentavano diverse culture sindacali. Queste diversità probabilmente potevano coesistere nel tempo e, anche se non per tantissimo tempo, sono coesistite all’interno delle stesse organizzazioni senza avvicinarsi dal punto di vista organizzativo generale. Questo perché, a differenza della CGIL unitaria, da subito nella Cooperazione nascono diverse organizzazioni che rappresentano le varie culture, trovando poi una sintesi nell’essere tutti dei cooperatori. Ciò che ha impedito una vera sintesi in quel momento storico, nell’Italia del 1946, 1947 e 1948, è che i partiti iniziano ad allontanarsi per l’avvio della Guerra Fredda e la Cooperazione viene trascinata all’interno di questo conflitto. Tuttavia, anche laddove la difficoltà sembrava enorme, le diverse posizioni trovano un compromesso. L’affermazione che la Costituzione è il compromesso delle varie culture politiche antifasciste dell’Italia di quegli anni non è retorica; e la formulazione dell’articolo 45, così come di altri, ne è la prova. Inoltre, quello che cerco di mettere in luce attraverso le biografie dei protagonisti dell’epoca è che il dibattito alla Costituente avviene fra persone che, innanzitutto, potremmo definire dei competenti, e non solo in modo astratto: sono i vertici delle organizzazioni dei corpi intermedi, il Presidente della Lega delle Cooperative, il Segretario Generale di Confcooperative, il Vicepresidente delle ACLI, alti dirigenti della CGIL. Il dibattito che ne scaturisce è quindi composto da personalità che non svolgono attività di lobbying ma che stanno decidendo le sorti del settore in cui lavorano e hanno lavorato per moltissimo tempo. Questo aspetto, nel prosieguo della storia repubblicana, ha prodotto anche tutti i problemi legati al conflitto di interessi tra mondo economico e politica. Quella è stata una patologia, l’acqua sporca, per usare una metafora, ma il bambino, ovvero la fisiologia di questo sistema, era sano: sia la Costituente che il Parlamento erano dei luoghi di mediazione, in cui fare sintesi nell’interesse generale del Paese. L’aver sottratto i corpi intermedi, che erano e sono le organizzazioni con un forte radicamento nella società, alla partecipazione politica, per paura delle patologie, nel tempo ha prodotto quella che anche Anna Finocchiaro nella prefazione al libro considera un indebolimento e un assottigliamento delle competenze e dei valori della classe politica, cioè della capacità di radicare gli interessi politici all’interno del Paese. La situazione oggi è diversa e la politica è in questa condizione perché, tagliando tutti i suoi legami con gli interessi materiali del Paese, è diventata comunicazione e narrazione, cioè solo un tentativo di incontrare l’opinione, senza l’ambizione di costruire un vero consenso.

 

Dopo decenni di grande rilevanza dei corpi intermedi, appunto, negli anni successivi all’approvazione della Carta costituzionale, ne abbiamo vissuti altri di disintermediazione, di rottura delle cinghie di trasmissione e di perdita di senso dei partiti e dei sindacati, che sono una forza vitale di rilevanza sociale e politica considerevole per la democrazia rappresentativa. Come ne ha risentito la Cooperazione e come definirebbe oggi il rapporto tra politica e movimento cooperativo? La Cooperazione è ancora “politicizzata”?

Mattia Granata: Quella delle cinghie di trasmissione era la patologia per l’appunto, e non solo del movimento cooperativo ma della Repubblica italiana in generale, perché tutti i gruppi avevano una rappresentanza politica e una rappresentanza economica. Era il modo di organizzarsi della società nel dopoguerra. Corrette però le patologie, alla fine si è andati oltre, come afferma Giuliano Amato in un articolo su Vita[1] che cito nel libro e che ha dato il via a un importante dibattito. Nel decennio scorso c’è stata questa retorica della disintermediazione ma la fisiologia del sistema di cui parlavo non riguarda solo la Cooperazione ma il funzionamento della democrazia. La democrazia, quando funziona, tra i cittadini e il potere, cioè il legislatore o lo Stato, ha in mezzo tutta una serie di soggetti: organizzazioni economiche e sociali, corpi intermedi, corpi funzionali, e vari livelli istituzionali e territoriali. Questo armamentario non si può eliminare per efficienza e per andare diretti a un rapporto cittadino-Stato, perché togliere questi soggetti è come smontare un motore e poi rimontarlo con dei pezzi che avanzano e dire “si vede che non servivano”, e invece servivano. La democrazia ci ha messo più di due secoli a organizzarsi in quel modo e nel momento in cui sono stati smantellati i corpi intermedi per “efficienza” è crollata la partecipazione alla vita democratica e alla vita delle istituzioni. Il calo della reputazione stessa delle istituzioni democratiche a tutti i livelli è dovuto pure al fatto che i cittadini non hanno più quel processo di produzione del consenso che attraverso i passaggi intermedi li faceva sentire parte della comunità nazionale. La Cooperazione era uno dei pezzi di questo fenomeno, che rappresentava i valori e gli interessi di un certo segmento della società, inizialmente subalterno e di lavoratori, che poi nel corso del dopoguerra è diventato piccola borghesia, con il raggiungimento di un proprio benessere, che si rivedeva in alcuni partiti, così come altre organizzazioni avevano altre basi e altre altezze. Quello che è stato smontato è il congegno nel suo complesso, non solo la cinghia di trasmissione Cooperazione rossa-Partito Comunista-Partito Socialista e Cooperazione bianca-Democrazia Cristiana, ma proprio il sistema della rappresentanza, di cui la società a mio avviso avrebbe ancora bisogno.

 

Il termine cinghia di trasmissione, in questo caso, è visto quindi esclusivamente in un’accezione negativa e patologica?

Mattia Granata: La cinghia di trasmissione, per definizione, era quando i partiti stavano in Parlamento e avevano delle cosiddette “salmerie”, cioè delle riserve di consenso da cui ottenevano voti e a cui davano altro, come le risorse dello Stato. Sostanzialmente questa era la Prima Repubblica. A darne una visione un po’ più positiva e attualizzata, se a questo termine cinghia di trasmissione si toglie tutto il connotato negativo che ha avuto nel secondo dopoguerra, potrebbe essere un modo per identificare una costruzione dal basso verso l’alto, non più un trasferimento di risorse di scambio, ma una costruzione del consenso e della partecipazione democratica. Non userei più quel termine perché è troppo fraintendibile, ma le organizzazioni possono essere un veicolo di questa costruzione perché è evidente che mentre diminuisce la partecipazione al voto o alla politica, aumenta il volontariato nel Terzo Settore. La voglia di partecipazione positiva alla società è ancora molta e in questo senso la Cooperazione, a mio avviso, è un terreno che lo dimostra perché i valori di mutualismo e collaborazione, sia in ambito economico che sociale, sono crescenti in particolare tra le nuove generazioni.

 

Uno dei temi più discussi nel dibattito alla Costituente è quello della vigilanza e del controllo a cui si accennava prima, specie nel confronto che si legge nel libro tra le posizioni di Fiorenzo Cimenti, democristiano e già Segretario Generale e Presidente di Confcooperative, ed Emilio Canevari, socialista e Presidente della Lega delle Cooperative. Quali erano le diverse posizioni e come si è trovato il compromesso? Che valutazione è possibile fare della sua efficacia alla luce della Cooperazione sviluppatasi nei decenni successivi?

Mattia Granata: È il momento più acceso perché dobbiamo pensare che per la prima volta la Cooperazione viene inserita in Costituzione e lì si afferma che lo Stato la deve addirittura promuovere e favorire. Se una mano dello Stato è orientata a dare, è necessario che questo abbia anche il potere di verificare che sia vera Cooperazione, perché il rischio è quello di creare un cortocircuito per cui la richiesta diventa un abuso. La Democrazia Cristiana aveva una visione sussidiaria della vigilanza, cioè favorevole a una impostazione di vigilanza autonoma, mentre i socialisti e i comunisti avevano una visione più statalista. Su questo tema gli animi si accendono quando il mondo si separa prima delle elezioni del 1948, e si ha l’impressione che potrebbero davvero vincere i comunisti e prendere il potere avendo contemporaneamente degli strumenti di controllo interno alle imprese, o almeno quella è la paura della Cooperazione cattolica e più in generale delle forze moderate in riferimento anche al timore dell’Unione Sovietica. Questa argomentazione è un po’ vera e un po’ pretestuosa, ma questo è il contesto politico in cui si apre una lacerazione interna alla Cooperazione. Aladino Bibolotti, padre costituente membro della CGIL, dice la frase che, secondo me, è quella più attuale di quel dibattito: «È vero che in Italia ci sono molte false cooperative? È vero o non è vero che quando si va nei Ministeri per chiedere qualche cosa di giusto per le cooperative ci si sente dire: Oh, la Cooperazione, noi sappiamo che cos’è la Cooperazione. C’è effettivamente una burocrazia anticooperativistica che si avvale dell’esistenza delle cooperative non sane per mettersi contro le cooperative sane, e noi vogliamo togliere a questa burocrazia un’arma insidiosa che ci colpisce ingiustamente». Tutti i cooperatori sono consapevoli di questo fenomeno, che riguarda un tema molto attuale perché creare un meccanismo efficace di vigilanza della Cooperazione permette di punire ed escludere le false cooperative false, che abusano di quella forma giuridica, e quindi tutelare la reputazione delle cooperative vere, che sono la stragrande maggioranza, nei confronti dello Stato. La vigilanza fatta dalle organizzazioni è una vigilanza che ha lo scopo di tutelare le cooperative che sono nella stragrande maggioranza vere, ed evidenziare quali sono le aree di Cooperazione in cui c’è un abuso di quella forma giuridica. Su questo, in realtà, la sintesi si trova più nella legge che nella Costituzione, ma quest’ultima costruisce l’assetto che poi andrà sviluppato. Quello della vigilanza è dunque un tema cruciale sia in quel momento che lungo tutta la storia successiva della Cooperazione, fino a oggi.

 

Prima si parlava di come al tempo cambiò il dibattito a causa dell’avvio della Guerra Fredda; oggi, invece, come influisce il contesto internazionale? Qual è il ruolo specifico che le imprese cooperative possono svolgere rispetto alle crisi contemporanee? Possono diventare un modello per affrontare le difficoltà, anche in relazione al fatto che, come scrive, potrebbero pensarsi come centro di formazione di classe dirigente?

Mattia Granata: Io penso di sì, che potrebbero avere questo ruolo. So che la mia posizione è fraintendibile, nel senso che potrebbe sembrare che io dica che la Cooperazione è un modello virtuoso per il futuro proprio perché lavoro nella Cooperazione. Invece è il contrario, io lavoro nella Cooperazione proprio perché penso che possa essere un modello virtuoso per il futuro. Quello che è avvenuto in questi anni conferma che il modello estrattivo che ha caratterizzato una lunga storia del capitalismo internazionale è profondamente in discussione. Non penso che il capitalismo stia morendo o che sia particolarmente in crisi e quindi stia per affermarsi il modello cooperativo, ma sicuramente viene messo più in discussione il sistema che ha provocato l’aumento delle disuguaglianze e le crisi ripetute degli ultimi trent’anni. Sta aumentando la consapevolezza che un modello puramente estrattivo e basato sulla massimizzazione del lucro, in particolare quando riguarda il sistema finanziario, non innesca circoli virtuosi di redistribuzione nella società, ma spoglia la società delle risorse che ha prodotto. Negli ultimi quindici o vent’anni l’idea che l’economia debba essere uno strumento a servizio delle persone è rientrata nel dibattito in modo diffuso, pensiamo anche alle encicliche papali. La Cooperazione è nata proprio da questa idea, cioè dall’affrontare delle situazioni di subalternità che derivavano dall’esclusione dai mercati e dal tentativo di reinserirsi nei mercati, usando degli strumenti del mercato stesso per aumentare il proprio benessere e quello della cittadinanza. Questo modello, che nasce per questo motivo, di fatto non ha solo al suo interno i valori e le teorie, ma ha anche dimostrato, in un secolo e mezzo di storia, di mettere in pratica quei valori per farli funzionare nel mercato, a differenza di altri modelli, come le economie di piattaforma che hanno illuso di essere innovative e si sono sovente dimostrate strumenti al servizio del capitalismo finanziario. Tutti questi valori sono proprio all’interno della Costituzione: se leggiamo la parte economica, dall’articolo 40 al 47, che viene discussa nelle relazioni alla fine del libro, come quella di Amintore Fanfani, vediamo che il perimetro che delimita è quello che oggi chiamiamo “economia sociale”, che in realtà lì è concepita come l’unica economia possibile. Questa parte allarga lo schema: ci deve essere lo Stato, quindi il pubblico; ci deve essere il privato; e ci deve essere il privato sociale. Inoltre, dice anche che questi tre soggetti devono concorrere al benessere delle persone e che se il privato inizia a lavorare esclusivamente per sé stesso deve intervenire lo Stato, inteso come interesse generale, a rimetterlo sui giusti binari. Letta anche alla luce del dibattito sull’economia sociale dell’Unione Europea o di organizzazioni come l’OCSE, a mio avviso la riflessione è molto più raffinata perché afferma che questi tre attori devono lavorare non per il lucro, ma in modo funzionale all’aumento del benessere delle comunità e delle persone, non di un qualsiasi monopolista, non di Elon Musk. Questa è la dimostrazione che nel dibattito in Costituente tracciavano una via dicendo anche qual era la via sbagliata; questo significa che recentemente abbiamo seguito la via sbagliata, ma la via giusta esiste.

 

A proposito di questo, è curioso come da un certo punto in poi alcuni discorsi siano diventati tabù, come appunto parlare di controllo sociale sull’economia, a causa di posizioni politiche e culturali diffuse secondo cui non potevano esserci alternative alla sovranità del mercato, che affermavano che la società non esiste ma esiste solo l’individuo. Al contrario, la società e le alternative sono molto presenti sia nella Costituzione che nel dibattito alla Costituente nelle parole di esponenti di diverse ideologie politiche: socialisti, comunisti, democristiani, liberali. Sembra esserci un accordo diffuso su questa sintesi dei tre ruoli che poi concorrono al bene comune.

Mattia Granata: Esattamente. Leggere quel passaggio mi ha rincuorato, perché credo che offra una prospettiva chiara su alcuni temi che ho sempre considerato fondamentali. Questo è significativo anche alla luce dell’attuale dibattito sull’economia sociale e sulla necessità di un nuovo modello economico, specialmente considerando le recenti crisi. Non si tratta di affermazioni isolate o personali, ma di riflessioni che trovano un riscontro oggettivo persino nella nostra Costituzione. Ad esempio, nella relazione sul controllo sociale delle attività economiche su cui si basarono i lavori costituenti, Fanfani sottolineava la necessità di integrare pubblico e privato, ponendo limiti alla funzione di quest’ultimo. La funzione sociale dell’economia, in quella visione, ha un ruolo primario e orienta tutte le attività economiche. Se questo non è un modello di economia sociale, allora non so cosa possa esserlo. È importante notare che nel 1946 si parlava esplicitamente di “controllo sociale dell’economia”, un’espressione che oggi potrebbe sembrare inusuale o persino minacciosa. Ma il concetto di fondo rimane lo stesso: la Costituzione italiana propone un modello in cui l’interesse economico della società nel suo complesso, viene prima dell’interesse individuale. Mi sembra che tutto questo rappresenti chiaramente, come direbbero i giuristi, il dettato costituzionale.


È possibile trovare nuovi strumenti, e utilizzare nuove/vecchie parole, per mitigare l’aumento delle disuguaglianze e risolvere quelle degenerazioni economiche e politiche del capitalismo di cui si parlava nella Costituente e che sono tutt’oggi sempre più evidenti?

Mattia Granata: Con la pandemia l’Unione Europea sembrava aver modificato il pensiero che aveva applicato in maniera adamantina nel decennio dell’austerità. Sembrava emergere una nuova consapevolezza, ovvero che per affrontare i cambiamenti di questi anni, profondissimi da tutti i punti di vista, serviva una grande accelerazione verso la costruzione dell’Unione e, contemporaneamente, sul piano economico, una grande fase di investimenti, in netto contrasto con la precedente enfasi sui bilanci in pareggio. Tuttavia, in questo momento sembra si stia tornando a una logica pre-pandemica. È altrettanto vero, però, che ci sono stati degli interventi molto precisi, tra cui le varie direttive nell’ambito dell’economia sociale, che mostrano come l’Unione Europea abbia individuato l’importanza strategica di quello che noi chiamiamo Terzo Settore e Cooperazione. Questi ambiti sono stati individuati come fondamentali per lo sviluppo dell’economia e della società europea dei prossimi anni, tanto da essere inseriti nel quadro delle politiche industriali, e quindi di sostegno, orientamento e investimento. Questo è un aspetto estremamente positivo, che sta iniziando a riflettersi nelle legislazioni nazionali e che deve diventare parte integrante anche dei nostri dibattiti. Da questo punto di vista, l’incontro tra questa nuova posizione dell’Unione Europea, le posizioni espresse nella nostra Costituzione e nella nostra storia, di cui abbiamo parlato, può generare risultati molto significativi e positivi per il futuro.


[1] Giuliano Amato, La responsabilità politica del Terzo settore, «Vita», 11 maggio 2021.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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