Scritto da Giacomo Bottos
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Dal 20 al 22 giugno a Bologna si è tenuta la XV Convention del Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale Gino Mattarelli (CGM), con il titolo “Direzioni. Intelligenze collettive per una nuova economia sociale”, di cui Pandora Rivista è media partner. Il tema di questa convention sono state le direzioni che è necessario intraprendere per fronteggiare le transizioni ambientale, digitale, demografica e culturale. Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Pierluigi Sacco, Professore ordinario di biobehavioural economics all’Università di Chieti. Durante la convention, Sacco è intervenuto nel panel “Spazi urbani, nuove geografie dei territori e vitalità dei luoghi” a cui hanno partecipato anche: Tommaso Vitale, Rachele Furfaro, Beniamino Ferroni e Giacomo Bottos. In questa intervista Sacco riflette sull’importanza della cultura per gli esseri umani soffermandosi sulla prospettiva offerta dalle neuroscienze, sul rapporto tra cultura ed economia, sul il concetto di welfare culturale e sulle le potenzialità che si aprono per la cooperazione e l’impresa sociale.
L’insegnamento di cui lei è titolare all’Università di Chieti è quello di biobehavioral economics, nel dipartimento di neuroscienze. Si tratta di un punto di vista che non è frequente incontrare nelle discussioni sulla cultura. Perché è utile adottare questa prospettiva?
Pierluigi Sacco: Per comprendere veramente l’importanza della cultura per gli esseri umani, la prospettiva biologica e neuroscientifica è fondamentale perché, sebbene diamo per scontato che la cultura sia attraente e significativa, raramente ci chiediamo quali siano le ragioni profonde. Una delle prospettive emergenti in letteratura, che ha catturato il mio interesse, è proprio il valore della cultura come risorsa di sopravvivenza per gli esseri umani, che emerge quando caratterizziamo il suo valore adattivo dal punto di vista neurobiologico. Gli esseri umani sono riusciti a colonizzare quasi tutti gli ambienti terrestri proprio grazie alla straordinaria flessibilità cognitiva e alla capacità di adattamento, a differenza della maggior parte degli animali che faticano a adattarsi ai cambiamenti ambientali improvvisi, a causa di risposte comportamentali standardizzate e in parte geneticamente determinate. Questa eccezionale flessibilità umana deriva dallo sviluppo di abilità sia geneticamente che culturalmente determinate per rispondere a sfide ambientali molto diverse, tramite cui abbiamo sviluppato una forma di cultura che tipicamente corrisponde alla definizione socio-antropologica e che comprende istituzioni e costrutti umani come norme sociali, tradizioni e leggi, che ci permettono di vivere in modo socialmente organizzato. Ma la nostra capacità e necessità di adattamento hanno dato origine anche a un altro tipo di cultura che è quella del tempo festivo, uno spazio sospeso in cui le persone possono fare scelte, esplorare possibilità e prendere dei rischi senza subire delle conseguenze importanti.
La cultura si è sviluppata soprattutto così, come uno straordinario mondo simulativo e una sorta di allucinazione collettiva. La musica allena le nostre capacità predittive, che diventano indispensabili per riconoscere e apprezzare pattern e sequenze sonore con effetti neurobiologici significativi, che la rendono capace di operare come un antidolorifico o una sostanza psicoattiva in determinate circostanze. La fiction ci permette di simulare mondi sociali possibili, complessi e spesso lontani dalla nostra esperienza diretta, estendendo così la nostra capacità esperienziale, come scriveva Umberto Eco nella famosa e citatissima Bustina di Minerva sull’Espresso in cui diceva che chi ha letto mille libri è come se avesse vissuto mille vite. Quasi tutte le forme espressive umane possono essere ricondotte a questa visione apparentemente anticonvenzionale della cultura, che però è profondamente radicata in una tradizione antica. L’idea della cultura come passatempo colto è infatti un’invenzione del Settecento, che alimenta la nostra visione moderna fortemente situata culturalmente, socialmente e geograficamente, perché sviluppatasi nell’Occidente industrializzato per poi diventare una specie di norma collettiva che molte altre culture hanno accettato ma nella sostanza non pienamente condiviso. Proprio per queste ragioni, per me è stato abbastanza naturale e inevitabile approfondire questo tema da un punto di vista neuroscientifico.
Nella sua prospettiva alla cultura vengono associati ruoli fondamentali, sia nella dimensione relativa alla formazione di codici, norme e orientamenti sociali, che in quella immaginativa di simulazione di scenari possibili. Entrambe rappresentano funzioni cruciali per la civiltà umana. Oggi, tuttavia, tendono a essere molto diffuse visioni limitative della funzione della cultura. Come si sono determinate storicamente tali visioni limitative?
Pierluigi Sacco: La cultura, specialmente quella legata al tempo festivo e all’immaginazione, ha storicamente svolto un ruolo cruciale nel risolvere problemi specifici. Nella Grecia classica, soprattutto il teatro e in generale tutte le arti hanno contribuito a sviluppare le attitudini cognitive fondamentali per il funzionamento della democrazia; nella Roma imperiale, le arti erano uno strumento di segnalazione di quelle virtù civili che poi facilitavano carriere politiche onorevoli; durante il Medioevo, la Chiesa Cattolica le utilizzava per l’alfabetizzazione collettiva, soprattutto per quanto riguarda i misteri religiosi. La cultura assume poi un ruolo di strumento di soft power funzionale ad affrontare in modo originale e quasi rivoluzionario il tema della diplomazia culturale nel Rinascimento, soprattutto da parte dei piccoli staterelli italiani, che dal punto di vista militare non avevano alcuna possibilità di confronto con le grandi potenze europee. Dopo la rivoluzione industriale, la cultura assume un’altra veste, cioè quella di rafforzare lo status sociale della nuova classe borghese, diventando a tutti gli effetti uno strumento di distinzione sociale. In epoca preborghese non esisteva una netta separazione tra cultura alta e bassa, perché di fatto è una distinzione emersa con la formazione degli Stati-nazione moderni e la creazione di burocrazie che selezionavano quali forme artistiche sostenere e quali no. Se pensiamo ad esempio al teatro elisabettiano, Shakespeare parlava a tutte le fasce della popolazione, dai colti ai più illetterati; così come la grande arte rinascimentale si configurava come strumento di comunicazione diffusa e apprezzata e non era rivolta solo alle élite del tempo.
Con l’avvento delle rivoluzioni borghesi, dunque, nascono delle forme di cultura, e soprattutto delle istituzioni che la trasmettono, realmente accessibili soltanto a chi possiede determinate caratteristiche socioeconomiche e educative. La cultura si associa quindi sempre più alla differenza sociale, che assume un valore di selezione ed esclusione e diventa sinonimo di divertimento colto elitario. Spesso è nella sintesi comica che si colgono gli effetti più paradossali di questo processo di distinzione sociale, come nella famosa scena di Fantozzi de La corazzata Potëmkin (o meglio, Cotionkin) che esprime sinteticamente tutta l’incomprensione e l’insofferenza verso la cultura “alta” da parte degli esclusi, e il paternalismo insito nel voler imporre questi modelli culturali in modo di fatto autoritario. Nell’Italia di oggi questa distinzione assume poi forme a volte ridicole, come dimostrano le polemiche su un cantante come Geolier il cui uso del dialetto napoletano viene passato al setaccio, mettendolo addirittura in discussione filologicamente, per rimarcare l’incompatibilità tra il suo mondo culturale e quello socialmente legittimato nel quale il dialetto ha una cittadinanza ma soltanto se si conforma a un canone deciso da qualcun altro. L’idea che esista una cultura d’élite, che poi non necessariamente l’élite apprezza, serve soprattutto a stabilire una distanza sociale che però può essere messa in discussione, come oggi accade sempre più di frequente. Ovviamente le forme culturali complesse non sono solo meccanismi di distinzione sociale e il vero problema risiede nel modo in cui i contenuti culturali sono stati proposti e trasmessi negli ultimi secoli, spesso attraverso istituzioni la cui logica sociale rifletteva e amplificava questa distinzione, soprattutto in Occidente. La diffusione geografica del modello culturale occidentale, attraverso la colonizzazione e la globalizzazione – pensiamo al fenomeno delle spoliazioni che hanno approvvigionato le collezioni delle grandi istituzioni culturali europee come il British Museum – ha di fatto associato a questa visione della cultura anche la violenza e l’ingiustizia sociale delle prevaricazioni colonialistiche, e questo è uno stato di cose con il quale è inevitabile fare i conti oggi.
Negli anni recenti si è molto discusso del rapporto tra cultura ed economia. Qual è a suo avviso un modo produttivo di impostare la discussione sul rapporto tra cultura ed economia e sul valore economico della cultura, per evitare banalizzazioni ed eccessi?
Pierluigi Sacco: È indubbio che la cultura comprenda anche settori industriali con importanti capacità produttive. Tuttavia, è fondamentale fare una distinzione, poiché spesso si ragiona in modo manicheo, considerando la cultura come estranea all’industria o riducendola solo alla produzione culturale. In realtà è entrambe le cose, perché ci sono delle forme di produzione culturale che non sono industriali e non lo possono diventare, che sono essenzialmente quelle che hanno mantenuto delle condizioni istituzionali e produttive preindustriali: le arti visive, lo spettacolo dal vivo e in generale le performing arts, i musei e il patrimonio culturale. Questi settori non hanno una produzione di massa e offrono esperienze uniche e limitate fruibili solo nel qui e ora, come nel caso delle performing arts, oppure in un numero ristretto di esemplari, se pensiamo alle arti visive. Queste forme d’arte possono anche avere una dimensione economica importante ma non sono industrie e le relative istituzioni non possono funzionare come aziende che mirano al profitto, motivo per cui spesso hanno bisogno di sussidi. Il museo non è un’azienda e non è progettato per avere degli attivi di bilancio, perché la sua missione principale non è vendere beni e servizi. Ci sono molti aspetti della creazione umana che non sono immediatamente spendibili sul mercato, ma sono indispensabili per dare luogo a delle vere e proprie catene di produzione di idee creative che poi possono avere impatti economici importanti. L’innovazione culturale, così come l’innovazione scientifica, ha bisogno di sussidi e i settori dove fondamentalmente si concentra di più questa innovazione sono quelli non industriali, perché non hanno la necessità di ricercare il profitto e possono essere più innovativi. D’altro canto, esistono però anche settori culturali che sono vere e proprie industrie, come è il caso del cinema, soprattutto quello americano, nonché la radio-televisione, l’editoria, i videogiochi e l’industria musicale. Questi settori producono profitti significativi e contribuiscono all’economia dei Paesi in cui operano, così come ci sono settori creativi, come il design, la moda, la pubblicità e l’architettura, dove la componente puramente culturale si mescola con altre componenti e finalità seguendo comunque una logica totalmente industriale.
Le implicazioni economiche degli ecosistemi di produzione culturale industriale sono rilevanti, ma non sono l’unico aspetto significativo della cultura, che anche quando è gratuita e non produce un impatto economico immediato genera comunque impatti indiretti ancor più significativi: ad esempio, migliora la salute mentale e fisica, aumenta la capacità di metabolizzare atteggiamenti innovativi, migliora l’accettazione della diversità culturale e permette la nascita di società multiculturali con una più alta coesione sociale e con minori conflitti, permettendo al contempo l’adozione di comportamenti più sostenibili da un punto di vista ambientale. Esistono evidenze scientifiche che dimostrano come la partecipazione culturale produca cambiamenti attitudinali e comportamentali positivi, con conseguenze economiche importanti che passano appunto attraverso canali indiretti, ma non meno importanti e impattanti di quelli diretti: nel momento in cui la cultura ci rende capaci di dare significato ai nostri comportamenti, come nel caso delle norme di responsabilità ambientale, ha un impatto macroeconomico; o nel momento in cui la cultura fa sì che intere coorti di persone della terza e quarta età non si chiudano dentro casa o si ospedalizzino quando ciò è evitabile, ma rimangano attive e motivate tramite la partecipazione culturale, questo ha un impatto sui sistemi di welfare. Il problema è che finora il dibattito si è concentrato sull’idea che la cultura debba generare profitti o quantomeno ricavi, ma in alcuni casi lo scopo deve essere diverso, perché l’ossessione di generare entrate può precludere il materializzarsi di quei benefici indiretti. Ad esempio, rendere costosi i biglietti dei musei esclude molte persone, esacerbando l’esclusione sociale e privando queste persone dei benefici culturali che ne derivano. Dunque, per ragionare in modo appropriato sull’economia della cultura è necessario comprendere come essa produca valore in senso ampio, includendo le sue dimensioni dirette e indirette, evitando visioni riduttive e di conseguenza errori clamorosi che ancora oggi caratterizzano molte politiche culturali, con risultati insoddisfacenti dal punto di vista sociale.
Rispetto a questo discorso, come si situa e si declina il concetto di welfare culturale?
Pierluigi Sacco: Per welfare culturale si intende il promuovere la qualità sociale attraverso la partecipazione culturale potenziando, in particolare, la salute, il benessere e l’inclusione sociale. Nei modelli di welfare si è attenti, di solito, principalmente a una dimensione socioassistenziale che comprende la salute e la cittadinanza attiva e i diritti legati alla cittadinanza. In questo senso, la partecipazione culturale, grazie ai meccanismi precedentemente discussi, produce effetti molto importanti quando integrata strategicamente nei sistemi di offerta di servizi socioassistenziali. Questo significa non solo riconoscere che questi effetti esistono, ma anche sviluppare competenze e professionalità specializzate, contabilizzare la produzione di valore e definire strutture economiche e contrattuali che li considerino. Ad esempio, è legittimo pensare che, se la partecipazione culturale riduce i costi del welfare legati alla medicalizzazione e all’ospedalizzazione dei soggetti fragili, parte di questo risparmio possa finanziare le stesse attività di partecipazione culturale. Tale logica è coerente nel momento in cui si interpretano le nuove interdipendenze in modo chiaro e lucido, ma ciò spesso non accade a causa dei limiti di interpretazione degli effetti indiretti della cultura. In Italia, il termine welfare culturale è diventato molto popolare, ma spesso viene usato in modo troppo vago portando a volte alla creazione di esperimenti privi di un solido fondamento scientifico, con il rischio di screditare l’idea stessa in caso di esperimenti inappropriati o mal gestiti. Perché i modelli di welfare culturale funzionino devono essere costruiti e progettati attentamente e non devono essere un insieme di iniziative casuali. In questo senso, è necessario definire standard di intervento chiari e logiche di interdipendenza strutturale rigorose, basate sull’evidenza e metodologicamente validate. Solo così questi interventi potranno essere valutati in base alle loro reali potenzialità e ai loro limiti, evitando la proliferazione incontrollata di attività estemporanee e potenzialmente dannose. Considerata l’importanza di questo tema per il futuro delle società complesse come le nostre è essenziale affrontarlo con cautela, rigore e competenza.
Nel quadro del discorso fatto finora, anche in riferimento alla discussione che si è svolta durante la Convention CGM, quali sono il ruolo, le specificità e le potenzialità dell’impresa sociale?
Pierluigi Sacco: L’impresa sociale può giocare un ruolo cruciale in questo contesto, proprio perché nei modelli di welfare culturale la partecipazione ha un valore intrinseco, cioè non è strumentale all’ottenimento di profitti ma è un’attività promossa non solo per i suoi benefici diretti ma anche per quelli indiretti. Concettualmente, l’impresa sociale è particolarmente adatta a promuovere queste iniziative, non perché le realtà for-profit non possano farlo, ma perché per definizione queste ultime hanno la tendenza seguire in primo luogo la logica della profittabilità. Nel campo dell’impresa sociale un focus eccessivo sulla profittabilità rischia, in molti casi, di limitare alcuni dei benefici indiretti già citati. Ad esempio, se ragionassimo sugli interventi destinati alla terza e quarta età con una prospettiva for-profit l’approccio sarebbe quello di raggiungere rapidamente un’economia di scala proponendo un intervento standardizzato a prescindere dalla sua efficacia e appropriatezza nei diversi contesti specifici. Questo tipo di strategia è fallimentare poiché non è possibile offrire lo stesso tipo di servizio a tutte le persone come se fosse una pillola, con un protocollo di intervento che dovrebbe magicamente funzionare sempre, comunque e per tutti. Ogni comunità e ogni categoria di soggetti fragili, legata a un determinato contesto culturale e geografico, ha bisogno di soluzioni specifiche che richiedono tempo, costi e attenzione. In un’ottica di impresa sociale si riconosce questo valore intrinseco di adattare i servizi alle specifiche esigenze delle comunità, nella consapevolezza di dover essere economicamente sostenibili ma con un focus diverso dalla profittabilità fine a sé stessa. Se l’impresa sociale italiana comprendesse questo punto scoprirebbe anche un vantaggio competitivo eccezionale nel settore. Se ciò si traducesse poi nella formazione di nuovi profili e competenze capaci di affrontare queste sfide con le abilità necessarie, potrebbe rappresentare una piccola grande rivoluzione, che permetterebbe all’impresa sociale di trovare un ulteriore ruolo propositivo e innovativo nelle nostre società complesse.
La cultura, come abbiamo visto, ha un ruolo cruciale nello sviluppo della civilizzazione umana e delle società. Possono già essere fatte delle valutazioni su come interviene in questo ambito l’insieme delle trasformazioni legate alla diffusione delle tecnologie di intelligenza artificiale? Quali nessi esistono tra produzione culturale e intelligenza artificiale?
Pierluigi Sacco: Nella storia culturale umana per molto tempo le forme di creazione sono state collettive più che individuali, basti pensare alle società dove la cultura è trasmessa oralmente e l’idea di autorialità individuale è fluida e difficile da fissare, poiché i contenuti cambiano continuamente. Con l’arrivo della scrittura e successivamente con le innovazioni della rivoluzione industriale come la fotografia, la radio, la televisione, il cinema e la stampa, la capacità produttiva umana è aumentata e insieme ad essa è emersa una maggiore enfasi sulla creatività individuale e sulla proprietà intellettuale. L’intelligenza artificiale nel mondo della produzione culturale rappresenta una sfida significativa e crea un’enorme discontinuità rispetto al passato, che non è portata esclusivamente da questa tecnologia ma anche dalle precedenti tecnologie di produzione digitale che hanno reso possibile una circolazione e una modificabilità dei contenuti impensabile nell’era predigitale. Queste tecnologie pongono delle sfide importanti all’autorialità, che però l’intelligenza artificiale porta a un livello superiore, perché qualunque suo utilizzo capitalizza una creatività collettiva che è servita per il training. Nel momento in cui questi contenuti vengono prodotti, anche se è un singolo individuo a produrli, l’idea che possano corrispondere a un’autorialità individuale è più che altro una convenzione, priva di basi logiche e fattuali.
L’aspetto importante dell’intelligenza artificiale è quello di riportarci ai concetti di autorialità collettiva e di intelligenza collettiva, avvicinandoci come in una spirale a nuove forme di creatività che richiamano quelle passate, di cui stiamo guardando soltanto i primissimi riflessi ancora difficili da comprendere perché troppo recenti. Le generazioni più giovani stanno già sperimentando nuove creatività collettive anonime che potrebbero cambiare radicalmente le logiche tradizionali della creazione culturale, perché attraverso l’intelligenza artificiale è possibile consentire a più persone di partecipare attivamente ai processi creativi, superando il modello tradizionale che prevede un creatore e un pubblico passivo e fruitore. L’intelligenza artificiale, quindi, non è la causa del cambiamento, ma piuttosto l’attualizzazione di una domanda di creatività collettiva esistente da decenni che necessitava della tecnologia adatta per emergere. Questo fenomeno è simile a quanto accaduto all’inizio del Novecento, quando tecnologie come il fonografo, la radio, la fotografia e il cinema hanno risposto al bisogno di creare e diffondere suoni e immagini facilmente riproducibili e accessibili a costi ragionevoli per un pubblico ampio. È fondamentale comprendere che l’intelligenza artificiale è il risultato di questo cambiamento sociale in atto che va verso una direzione enigmatica e affascinante, le cui implicazioni a lungo termine sono ancora difficili da prevedere.