“La cultura della sorveglianza” di David Lyon
- 12 Aprile 2021

“La cultura della sorveglianza” di David Lyon

Recensione a: David Lyon, La cultura della sorveglianza. Perché la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Introduzione di Gabriele Balbi e Philip Di Salvo, LUISS University Press, Roma 2020, pp. 232, 20 euro (scheda libro)

Scritto da Francesco Nasi

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Il concetto di sorveglianza è ormai imprescindibile per comprendere la contemporaneità. Se la sua pregnanza era già stata colta dalla sociologia del secolo scorso con l’emergere di un ramo di studi appositi, i surveillance studies, è oggi che il tema si pone con ancora maggior vigore al centro del dibattito pubblico, politico e accademico. La sorveglianza è infatti passata da essere una pratica presente ma relativamente marginale (i controlli in aeroporto, le telecamere a circuito chiuso per strada, i controlli delle agenzie di sicurezza nazionali) a divenire un elemento centrale nella vita della quasi totalità degli individui, grazie alla presenza capillare e onnipresente di smartphone, Internet delle cose (IOT, Internet of things) e sistemi di sicurezza sempre più avanzati. Parafrasando Hegel, il cambiamento in termini di sorveglianza è stato quantitativamente così significativo da diventare anche qualitativo. Ed è di questo passaggio qualitativo che David Lyon vuole rendere conto ne La cultura della sorveglianza (LUISS University Press 2020). Professore di sociologia alla Queen’s University di Kingston, in Canada, Lyon è uno dei massimi esperti mondiali di studi sulla sorveglianza, tema che fin dagli anni Novanta è stato al centro della sua ricerca. Proprio la lunga attenzione dedicata a questi temi gli permette di avere una prospettiva più ampia e meno schiacciata sul presente dei fenomeni legati alla sorveglianza, potendo in questo modo scorgere con maggior facilità le continuità e le discontinuità rispetto al passato.

Per Lyon, la pervasività e la reciprocità della sorveglianza contemporanea si traducono in una vera e propria “cultura della sorveglianza”. Questo concetto può essere compreso solo superando i modelli che per decenni hanno riempito gli immaginari e gli studi sul tema, ovvero il panopticon di Bentham e il Grande Fratello di Orwell. Se questi modelli prevedevano una minoranza di sorveglianti e una moltitudine di sorvegliati, oggi le pratiche di sorveglianza vengono esercitate dalla grande maggioranza dei cittadini, trasformando questi atteggiamenti in una vera e propria pratica quotidiana: dal cercare la destinazione di un viaggio con Google Maps al contare i passi mentre si va a camminare con l’app apposita, fino alle conversazioni con gli amici e al riconoscimento facciale nei filtri di Instagram. In questo modo la sorveglianza penetra in profondità negli «usi, costumi, abitudini e modalità di lettura e interpretazione del mondo» (p. 20)[1] andando a costruire una società in cui ognuno è, più o meno consciamente, sia controllato che controllore.

Nello studio di Lyon la cultura della sorveglianza si compone degli “immaginari della sorveglianza” e delle “pratiche della sorveglianza”. I primi corrispondono al modo in cui viene immaginato il mondo sociale, andando a costituire «un’interpretazione comune che rende possibile pratiche comuni e un senso di legittimazione diffuso» (p. 57). I componenti di questi immaginari possono essere idee come l’esigenza di maggior sicurezza, la necessità di procurarsi un numero crescente dei dati, la bontà intrinseca dei concetti di trasparenza e visibilità oppure una scarsa attenzione per le questioni legate alla privacy. Parallelamente agli immaginari agiscono le pratiche della sorveglianza, ovvero tutte le attività concrete esercitate dai singoli o da altri enti e che prevedono l’istituzione di un rapporto controllato-controllore. Osservare ed essere osservati diventa così uno stile di vita, una normalità che legittima o tende a legittimare politiche e posizioni presentate come neutrali ma che sono in realtà profondamente determinate da uno specifico tipo di cultura. Ne sono un esempio l’accettazione di misure sempre più pervasive di sorveglianza negli aeroporti o nella navigazione online, ma anche la non discussione sul tema delle smart city e dell’Internet delle cose. La cultura della sorveglianza si rivela così pervasiva da legittimare persino l’“autosorveglianza”: essa ha infatti un impatto significativo anche sulla percezione del sé individuale, che sente l’esigenza di migliorarsi costantemente tenendo sotto controllo i parametri quantitativi che gli vengono forniti dalle nuove tecnologie, rispondendo a domande come quanti passi riesco a fare in una corsa, quanto ore riesco a dormire e quante ore di fila riesco a lavorare. Questa auto-sorveglianza produce dei quantified-self (p. 31) sottomessi alla dimensione della performance teorizzata da Byung-Chul Han: secondo Lyon, quest’ultima è uno degli elementi cruciali di quella modernità digitale che ha funzionato da retroterra socioculturale per la diffusione della cultura della sorveglianza[2].

La cultura della sorveglianza ingloba e supera le teorizzazioni proposte dagli studi precedenti, come lo Stato di sorveglianza o la società della sorveglianza. Il primo si riferisce al ruolo di controllore dello Stato: sicuramente esso è ancora presente, come testimoniato dalle rivelazioni di Snowden sulla sorveglianza esercitata dagli apparati di Stato americani, ma questa categorizzazione tralascia le complesse relazioni che il nuovo modello di sorveglianza liquida va a creare tra enti pubblici e privati, tra apparati di sicurezza statali e aziende hi-tech. Il concetto di società della sorveglianza, invece, coglie positivamente l’espansione delle pratiche di sorveglianza in sfere della vita dove prima non erano presenti, come ad esempio il mondo commerciale. Il limite di questa concettualizzazione sta però nel presentare una differenza categorica tra chi sorveglia e chi è sorvegliato, ponendo il cittadino comune in balia di chi esercita il potere. La cultura della sorveglianza fa invece un passo avanti, poiché al suo interno l’individuo non è solo controllato ma anche controllore, non è solo soggetto al potere, ma anche soggetto di potere, avendo la capacità di utilizzare le pratiche della sorveglianza per i propri scopi o addirittura contro la sorveglianza stessa (p. 192).

L’idea di reciprocità del potere è ben spiegata nell’analisi che l’autore propone delle pratiche e degli immaginari di sorveglianza sui social network. Spesso la navigazione online avviene en passant, con superficialità, senza un’adeguata problematizzazione di ciò che si sta facendo. Nei social media e in generale in tutto il mondo online e onlife (quello che più di tutti compone le pratiche e gli immaginari della sorveglianza contemporanea) volenti o nolenti gli utenti si trovano però impegnati in relazioni di potere o micro-potere dove la sorveglianza gioca un ruolo fondamentale: il capo che controlla se l’utente ha condiviso i post promozionali dell’azienda, il ragazzo geloso che scruta minuziosamente i like messi dal proprio o dalla propria partner, o ancora i sistemi utilizzati da Facebook per profilare gli utenti, vendere i loro dati alle aziende partner e influenzare il loro comportamento (attraverso quello che Zuboff ha abilmente definito “potere strumentalizzante”[3]). Ciò che Lyon vuole sottolineare è che quello della sorveglianza non è soltanto un potere che viene subito, a cui si è sottoposti, ma anche e soprattutto un potere che viene esercitato attivamente. La sorveglianza diventa così una pratica orizzontalmente diffusa, esercitata dal cittadino comune così come dalla grande azienda hi-tech, anche se con mezzi, capacità e consapevolezze diverse. Ciò comporta una situazione liquida, ma non per questo piatta. La diffusione capillare delle pratiche di sorveglianza non si traduce in una democratizzazione della stessa, ma piuttosto in una complessa riconfigurazione dei poteri che crea nuove gerarchie e nuove disuguaglianze fluide, difficili da leggere e da scorgere a causa dell’incessante mutare delle dinamiche sociali. Questo vale sia a livello macro (il potere comunicativo e strumentalizzante dei giganti dell’hi-tech e dei governi) che al livello micro di sorveglianza sociale. Come scrive l’autore: «…sebbene la gerarchia si sia apparentemente appiattita grazie all’uso di categorie comuni – come gli amici di Facebook – le gerarchie ricompaiono all’interno dei rapporti locali, dimostrando che il potere è ancora presente. Anzi, le pratiche stesse della sorveglianza sociale sono orientate a una ricerca di potere…» (p. 162).

La prospettiva dei social network e la problematizzazione dei rapporti di potere ci permette di uscire definitivamente dai modelli novecenteschi: la sorveglianza contemporanea non si presenta in modo autoritario o come un insieme centralizzato di meccanismi di sorveglianza nelle mani di un potere distopico. Per Lyon è qualcosa di molto più complesso, sia dal punto di vista delle tecniche utilizzate che delle sue implicazioni politiche. Come scrive lo stesso autore: «La società della sorveglianza è arrivata e non indossa gli stivali della brutale repressione, ma i vestiti eleganti dell’efficienza hi-tech» (p. 20) Soprattutto, la sorveglianza contemporanea non esercita un potere esclusivamente negativo, di repressione e negazione della volontà individuale, ma anche positivo, di empowerment e di stimolo del desiderio (pp. 126-128).

A causa del complesso e spesso invisibile insieme di relazioni di potere e attraverso la diffusione di pratiche ed immaginari sempre più egemonici, la cultura della sorveglianza produce un’acritica accettazione della sorveglianza stessa che sfocia nell’adiaforizzazione, ovvero nella sospensione dei dibattiti etici sul tema. È questa passiva accettazione del presente che l’autore porta sul banco degli imputati. Il problema non sta solo nella sistematica rinuncia alla privacy, quanto nella mancanza di consapevolezza di quanto sta avvenendo. Dall’altra parte, l’autore è perfettamente consapevole che difficilmente si può tornare indietro. Per questo, nell’ultimo capitolo, tenta di aprire una strada alternativa: riprendendo una definizione di Stoddart, l’autore propone una sorveglianza che non sia sorveglianza di ma sorveglianza per, ovvero sempre finalizzata al benessere della persona e attenta al rispetto della libertà e della dignità di ognuno. È lo “sguardo positivo” ovvero «la possibilità concreta che gli immaginari di sorveglianza siano permeati da un’etica della cura collegata alla prosperità umana» (p. 182). Secondo l’autore, un tale cambio di paradigma permetterebbe l’affermazione di una «giustizia dei dati» (p. 188) e la nascita di una cittadinanza digitale più consapevole.

La cultura della sorveglianza è estremamente denso di contenuti, e sarebbe impossibile affrontare tutti i temi sollevati nell’analisi del sociologo canadese. Come sottolineato dai curatori dell’edizione italiana nell’introduzione, ha le carte in regola per diventare un volume essenziale per la comprensione del presente, se non addirittura un classico delle scienze sociali e dei surveillance studies. Grazie all’attenta disamina della letteratura esistente sulla sorveglianza e ad uno stile espositivo che sa alternare pagine di spiegazione analitica a momenti più distesi (si pensi ai riferimenti tratti dalla cultura popolare, dal romanzo The Circle alla serie Black Mirror) l’autore veicola messaggi complessi in una forma fruibile anche per un pubblico non avvezzo agli studi sociologici. Così il libro riesce ad unire divulgazione, contestazione dell’esistente ed analisi scientifica del reale. Svelando rapporti di potere spesso nascosti e fornendo nuove categorie concettuali, il lavoro di Lyon permette di fare chiarezza su tanti dei molti fenomeni legati alla sorveglianza che, altrimenti, rimarrebbero innominabili e perciò incomprensibili, con l’inevitabile conseguenza di limitare le possibilità di immaginare un’alternativa e inaugurare processi di cambiamento sociale.


[1] Tutte i numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine del volume oggetto di recensione: David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.

[2] Per approfondire, si veda: Byung-Chul Han, La società della stanchezza, nottetempo, Milano 2010.

[3] Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS University Press, Roma 2019.

Scritto da
Francesco Nasi

Dottorando in Sociologia della cultura e dei processi comunicativi all’Università di Bologna. Ha lavorato presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il Centro Studi di Politica Internazionale (CESPI). I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’impatto politico e sociale delle nuove tecnologie, in particolare per quanto riguarda l’IA e l’innovazione democratica.

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