Recensione a: Marco Almagisti e Paolo Graziano (a cura di), La democrazia. Concetti, attori, istituzioni, Carocci, Roma 2024, pp. 440, 39 euro (scheda libro)
Scritto da Ludovica Taurisano
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Leggendo di “policrisi”, “megathreats”, “permacrisi”, si è tentati di relegare questi neologismi alla frenesia mediatica di trovare parole nuove per narrare di fenomeni antichi. Le ragioni dell’allerta, soprattutto dopo lo scossone dato dalla pandemia, sembrano confermare alcuni trend regressivi, per esempio circa il consolidamento e la stabilità dei governi democratici nel mondo, con annessi diritti civili e libertà che questi garantirebbero.
Il report 2024 del V-Dem Institute, il centro di ricerca mondiale più prestigioso per lo studio empirico delle democrazie, giustificherebbe queste palpitazioni: dal 2009 il numero delle autocrazie è in aumento, sono ben 88 (contro le 91 democrazie) e cioè il 71% della popolazione mondiale; 42 sono i Paesi che si stanno trasformando in autocrazie. Le analisi sono complesse e contengono 60 indici di misurazione e 500 indicatori, per far fronte alla complessa sfida di “misurare” la democrazia. Il nocciolo è la variante liberale della democrazia, e quindi il Liberal Democracy Index (LDI), attorno a cui gravitano altre componenti che fanno riferimento a principi di eguaglianza e partecipazione, per un modello idealtipico di democrazia che garantisca la presenza di elezioni realmente libere, il montesquieuiano sistema di divisione dei poteri e relativi contrappesi, e la presenza di uno stato di diritto e della protezione delle libertà civili. I colori del report sono eloquenti e appaiono normativamente prescrittivi: rosso malva, il segnale dell’allarme, quello delle autocrazie chiuse, contro il blu profondo delle democrazie liberali. In mezzo: le zone grigie di autocrazie elettorali e democrazie elettorali non liberali. Il punto è che il trend degli ultimi anni disegna uno scenario traballante, tra “bell-turn” e “u-turn” di Myanmar, Armenia, Indonesia o Afghanistan, che avevano mostrato segnali di democratizzazione, ma anche delle a noi più vicine Ungheria, Polonia, Grecia, Serbia; ancora, regrediscono democraticamente la popolosissima India, la ricchissima Hong Kong e i BRICS+, definiti un “club di autocrazie”, perché il mercato e l’economia non modellano i regimi.
Questi numeri impressi su carta possono spaventare o lasciare indifferenti a seconda che sul comodino vicino al letto voi abbiate Kay Dick o la biografia di Elon Musk. La loro lettura, comprensione e ricezione dipende dalla contezza che si ha dell’oggetto di analisi: le democrazie appunto, che in questa parte di mondo ci circondano. Eppure, respirare è un automatismo: siamo forse sempre consapevoli della qualità dell’aria che ci circonda?
Ecco, immaginarsi quella bolla di ossigeno come il sistema politico in cui siamo immersi, incoraggerebbe ad aggiungere alla pila di libri vicino al letto un manuale come La democrazia. Concetti, attori, istituzioni edito da Carocci e curato da Marco Almagisti e Paolo Graziano. Il volume andrebbe trattato come quelle raccolte di racconti brevi, o quei grandi classici a cui tornare in tempi di incertezza: lo si tiene lì, magari anche nelle aule delle scuole superiori, come si tenevano le guide per autostoppisti negli anni Ottanta. Di tanto in tanto si potrebbe guardare l’indice, cercare le risposte pescando nelle oltre 400 pagine del volume, a contenimento del senso di smarrimento quasi incorporeo, di quella cecità sbadata che in varia misura ci affligge in qualità di cittadini.
Pur essendo un saggio, non lo si deve pensare come destinato esclusivamente a professionisti della scienza politica: può invece essere un valido strumento per tracciare e seguire i rivoli con cui la sfera pubblica condiziona l’esistenza individuale, per addentare la materia della cosa pubblica e affinare il senso critico, cioè una pratica – che dovrebbe essere costante – di messa in questione e vigilanza della società che si abita e del suo ordinamento.
Ciò che emerge con nitidezza dal volume è la polisemia della parola “democrazia”, che non significa molto se non la si riempie di cultura politica, di consapevolezza storica e anche di postura morale. Il libro è suddiviso in tre parti: Definizione ed evoluzione storica; Attori e contesti; Istituzioni e processi, ed è apprezzabile il continuo gioco di referenze interne tra le sezioni e i contributi, raccolti convogliando le specialità di più di trenta autori e autrici[1].
L’oggetto di studio è nebuloso e porta con sé una storia concettuale millenaria, pertanto serve il metodo: questo riconoscimento è la precondizione per avvicinarsi a una lettura di questo tipo, e presuppone l’umiltà e la curiosità intellettuale di trattare il fenomeno politico come meritevole di analisi rigorosa, razionale, sistematica. Questo perché se le istituzioni sono vitali e mutano in quanto fenomeni storicamente situati (di nuovo, il nocciolo duro per ogni successiva argomentazione, e la condizione per rendersi conto che la democrazia non è un dato naturale), così anche gli approcci analitici si evolvono, per adeguarsi all’emersione di aggiustamenti imprevisti che recano tutti l’impronta delle umane volontà.
Allora cominciare da questo: dal sapere di quale democrazia stiamo parlando oggi per svincolarsi da manipolazioni ideologiche, è l’assunto delle prime pagine. Un invito storicamente situato a conoscere la variante liberale della democrazia, sapere quanto e come essa si debba basare sulla rappresentanza, capire la funzione dei soggetti intermedi, stabilire i confini tra i pubblici, i partiti, i leader, e guardare chiaramente al ruolo che hanno assolto nel nostro passato recente. Le procedure, si comprende con chiarezza dal testo, non sono neutrali: possono essere simili, comparabili nella struttura e nella forma, ma la loro qualità varia sensibilmente. Così come le costituzioni, che compaiono tra le parole chiave del libro, hanno una valenza formale e una materiale, altrettanto le democrazie non sono identiche tra loro o uguali a sé stesse nel tempo, ed è per questo che la vigilanza cognitiva è necessaria.
Quali sono le conseguenze di democrazie fondate su un consenso fragile? Si può dire democratico un Paese in cui, a discapito della presenza di libere elezioni, la cultura civica scarseggia e l’astensionismo dilaga? Su quali modelli valoriali, su quali reti interpersonali si poggia questa democrazia? Certo che c’è ancora domani per votare, finché c’è, ma qual è il valore della rappresentanza parlamentare e come misurarlo? Esistono altri indicatori per una solida democrazia: per esempio, il capitale sociale, lo spirito comunitario, un’idea di partecipazione non intermittente, la volontà di non guardare da spettatori l’ordine democratico nel suo sopravvivere goffo come un dinosauro intrappolato nel bitume, ma di irrobustirla con la presenza, con una chiara visione di co-responsabilità. Questa responsabilità è necessaria perché a ondate di democratizzazione se ne affiancano altre di rigurgiti autoritari, troppo spesso trattate con sdegno da parte dei fautori del libero pensiero. Invece, nel volume, diversi sono i momenti dedicati alle cosiddette “linee di frattura” che agitano la società postmoderna, potenzialmente foriere di conflitti non ideologici ma fondati sul fallimento prestazionale delle democrazie contemporanee. Il volume, che niente lascia al caso, affronta – quindi gestisce e rende comprensibile – anche la parola “ideologia”, altro lemma polisemico e retoricamente manipolato, per trattarlo con la neutralità – di nuovo, il rigore del pensiero – necessaria a capire anche il proprio di collocamento.
Ecco, collocarsi, sapersi rispetto all’assetto democratico del nostro Paese (e conseguentemente anche dell’Unione Europa) è una domanda, un esercizio di autopercezione che abbiamo smesso di compiere. Invece, la democrazia viene qui spiegata come sistema, fatta di regole, di presupposti, ed è una sensazione inebriante capire dove comincia la struttura e dove il processo, dove comincia la cittadinanza e dove (non) finisce. Questa solidità di pensiero è uno strumento preziosissimo non per legittimare aprioristicamente il sistema democratico, quanto per pungolarlo maggiormente e non derubricare i fenomeni populistici a una deriva esiziale della “pancia” affamata e arrabbiata del Paese. Al contrario: la democrazia deve essere valutata anche in base ai suoi risultati, agli output, agli impatti. A renderla desiderabile dovrebbe essere la sospensione dell’ordine hobbesiano certo, ma anche la cura che essa può offrire alla precarietà, alla debolezza, alla vulnerabilità, all’insicurezza che sono oggi fin troppo diffuse e incomprensibilmente compatibili con un ordine cosiddetto democratico.
Senza alcun compiacimento, il testo prende la democrazia e come in un quadro del miglior Dalì la scompone: dai parlamenti al conteggio elettorale, dal presidenzialismo alle politiche pubbliche, dall’amministrazione al rendimento istituzionale. Delle democrazie si comprende cosa sono state, cosa sono, cosa dovremmo aspettarci che fossero e quali misure adottare per valutarle e, auspicabilmente, per intervenire nel loro miglioramento.
Con taglio storico e comparato, il volume a cura di Marco Almagisti e Paolo Graziano non si basa su assunti normativi, ma restituisce chiaramente il senso ultimo degli apparati democratici, che è quello di convertire le domande del popolo in risultati per il popolo, per i popoli. Spaziando per le regioni e la magistratura, fino ad affondare anche nella inestricabile relazione tra i fenomeni evolutivi del digitale e della comunicazione e i loro effetti sull’istituzione democratica, nel testo ci sono tutte le parole chiave che attraversano i rumorosi e indigesti talk televisivi: il populismo e l’ideologia, il partito e l’opinione pubblica, l’accountability e il lobbying e così via, tutte spacchettate, decostruite e ricomposte con una chiarezza che non presuppone alcuna conoscenza pregressa e che rende il volume autenticamente accessibile.
E con onestà intellettuale, senza mai accomodarsi aprioristicamente o teleologicamente sulla preferibilità della democrazia liberale rispetto ad altre varianti di governo, il libro ribadisce quanto essa non sia facilmente praticabile. Del resto, di recente il New York Times ha pubblicato il rating di disapprovazione delle democrazie occidentali cosiddette sviluppate: la disaffezione è altissima in Germania, al 73%, e a seguire Francia, Corea del Sud, Giappone, Regno Unito, Canada, Stati Uniti e Belgio. I dati, tuttavia, non rispondono al giudizio sul sistema democratico, evidentemente preferibile in ognuno di questi Paesi, bensì sulla leadership: Scholz, Macron, Yeol, e anche Sunak, Biden e persino Trudeau, non se la passano bene, mentre per Giorgia Meloni la percentuale è al 54%. Questi attori politici, del resto, si trovano a dover gestire un mondo complesso affetto dalle quattro “big I issues”: inflazione, immigrazione, ineguaglianza, incumbency (cioè il vantaggio in termini di tasso di gradimento del candidato che si presenta come alternativa). Si tratta di sfide globali la cui risoluzione intreccia i destini dei continenti e il cui esito potrebbe determinare non soltanto la sostituzione di una classe politica con un’altra, ma minare la fiducia nei confronti della tenuta della democrazia. Nell’anno delle elezioni, 64 Paesi sono chiamati a un voto più o meno libero: la rabbia e la frustrazione possono essere dei modi per resistere alle crisi, non nuove ma con una fisionomia del tutto peculiare al tempo che stiamo vivendo, ma a questi comprensibili sentimenti va affiancata la speranza che sempre più persone possano, con lo studio, esercitare più consapevolmente i loro diritti di cittadinanza e di partecipazione.
[1] Oltre ai curatori Marco Almagisti e Paolo Graziano, hanno contribuito al volume: Damiano Palano, Luca Verzichelli, Matteo Zanellato, Licia Cianetti, Igor Guardiancich, Luca Tomini, Luigi Di Gregorio, Giovanni Moro, Giovanni Diamanti, Manuel Anselmi, Mattia Diletti, Marco Valbruzzi, Francesca Forno, Patrizia Messina, Pier Giorgio Ardeni, Paolo Gerbaudo, Luca Tentoni, Selena Grimaldi, Paola Degani, Lorenza Perini, Maria Stella Righettini, Ekaterina Domorenok, Laura Polverari, Carlo Guarnieri, Patrizia Pederzoli, Gaspare Nevola, Giorgia Nesti, Guido Panzano, Antonino Castaldo e Pietro de Perini.