La fine del progresso: un estratto dal libro di Amy Allen
- 04 Aprile 2025

La fine del progresso: un estratto dal libro di Amy Allen

Scritto da Amy Allen

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«L’idea di progresso è indissolubilmente legata all’eredità coloniale dell’Occidente?»

In La fine del progresso. Decolonizzare i fondamenti normativi della teoria critica, Amy Allen – Professoressa di Filosofia alla Pennsylvania State University e tra le più note studiose statunitensi di teoria critica e filosofia sociale – riprende alcune intuizioni di Foucault e Adorno per provare a ridefinire in modo radicale il rapporto tra potere, normatività e storia, evidenziando i presupposti eurocentrici dell’idea di progresso.

La fine del progresso è il primo libro di Amy Allen tradotto in italiano ed è uscito nel 2025 per Castelvecchi Editore, tradotto da Elena Agatensi e curato da Marco Solinas. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore e del curatore, un estratto tratto dal primo capitolo del libro.


La teoria critica e l’idea di progresso

Nel 1993, nel sequel del suo libro pionieristico e poi di riferimento, Orientalismo, Edward Said formula il seguente atto d’accusa: «La teoria critica della Scuola di Francoforte, nonostante le feconde intuizioni sui rapporti che intercorrono tra dominazione, società moderna e possibilità di redenzione attraverso l’arte come critica, tace incredibilmente a proposito delle teorie razziste, la resistenza antimperialista e la pratica dell’opposizione nell’impero». Inoltre, sostiene Said, non si tratta di una semplice svista, ma di un silenzio motivato. La teoria critica della Scuola di Francoforte, come altre versioni della teoria europea in generale, sposa quello che Said chiama un meschino e falso universalismo, un “bieco universalismo” che «assume e incorpora l’ineguaglianza delle razze, la subordinazione delle culture inferiori, l’acquiescenza di coloro che, secondo le parole di Marx, non possono rappresentare sé stessi e devono pertanto essere rappresentati da altri». Tale “universalismo” ha svolto, per Said, un ruolo fondamentale nel tenere avvinti per secoli la cultura (europea) e l’imperialismo (europeo), poiché quest’ultimo come progetto politico non può sostenersi senza l’idea di impero, e l’idea di impero, a sua volta, è alimentata da un immaginario filosofico e culturale che giustifica l’assoggettamento politico di territori lontani e delle loro popolazioni autoctone, sostenendo che esse sono meno avanzate, cognitivamente inferiori e, quindi, naturalmente subordinate.

Sono trascorsi due decenni dall’accusa lanciata da Said e non è cambiato abbastanza. La teoria critica contemporanea della Scuola di Francoforte rimane infatti, per la maggior parte, ancora silente sul problema dell’imperialismo. Nessuno dei due maggiori teorici contemporanei più strettamente associati all’eredità della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas e Axel Honneth, ha posto al centro del suo lavoro di teoria critica la riflessione sistematica sui paradossi e le sfide prodotte dalle ondate di decolonizzazione che hanno caratterizzato la seconda metà del Ventesimo secolo, né si è confrontato seriamente con l’ormai consistente letteratura di teoria o studi postcoloniali. Nel caso di Habermas, questa mancanza di attenzione è ancor più vistosa, dato il suo crescente interesse, negli ultimi anni, per la globalizzazione, il cosmopolitismo e il ventaglio delle forme giuridiche e politiche post- e sovranazionali. Inoltre, con poche eccezioni di rilievo, i teorici critici che si rifanno alla tradizione della Scuola di Francoforte hanno seguito l’esempio di Habermas e Honneth. Sebbene negli ultimi anni i temi della giustizia globale e dei diritti umani abbiano occupato un posto di rilievo nell’agenda della Scuola di Francoforte, questi argomenti tendono a essere trattati evitando la rivalutazione globale dei legami tra universalismo morale-politico e imperialismo europeo, additata da Said. I rari appelli alla decolonizzazione della teoria critica provenienti dall’interno della Scuola di Francoforte sono stati accolti con un’espansione del raggio della teoria critica, che ha incluso pensatori come Frantz Fanon, Enrique Dussel, Frederick Douglass e Toni Morrison. Per quanto benvenuta sia quest’espansione del raggio della teoria critica, e per quanto fruttuosi e innovativi siano i suoi risultati, questa strategia di risposta al silenzio dei teorici critici mainstream sulle questioni dell’imperialismo e del colonialismo significa che la cruciale sfida posta dalla situazione postcoloniale all’approccio distintivo della Scuola di Francoforte alla teorizzazione sociale non solo non è stata ancora affrontata, ma non è stata nemmeno pienamente compresa dai suoi esponenti.

Questo libro costituisce un tentativo di articolare e accogliere tale sfida. Come Said, credo ci sia una ragione per cui la Scuola di Francoforte incontri delle difficoltà a rispondere adeguatamente alle problematiche del nostro mondo post- e neocoloniale, e che questa sia legata a principi filosofici profondamente radicati nel lavoro dei suoi esponenti contemporanei. Il problema, a mio avviso, nasce dal ruolo particolare che le idee di progresso storico, sviluppo, evoluzione sociale e apprendimento socioculturale giocano nel giustificare e fondare la prospettiva normativa di teorici critici come Habermas e Honneth. Come argomenterò meglio in seguito, per fondare o giustificare la normatività della teoria critica sia Habermas sia Honneth si affidano a una strategia, che deriva dalla sinistra hegeliana in senso lato, in cui si afferma che le nostre attuali pratiche comunicative o di riconoscimento rappresentano il risultato di un processo di apprendimento cumulativo e progressivo, e quindi sono meritevoli della nostra fiducia e del nostro sostegno. Entrambi sono profondamente legati all’idea che la modernità europea, illuminista (o almeno alcuni suoi aspetti o caratteristiche che devono ancora essere precisati), rappresenti un progresso nello sviluppo rispetto alle forme di vita premoderne, non moderne o tradizionali e, soprattutto, quest’idea gioca sempre un ruolo importante nel fondare la normatività della teoria critica. In altre parole, sia Habermas sia Honneth ritengono che la teoria critica debba difendere un’idea di progresso storico per fondare il suo approccio distintivo alla normatività e, quindi, per essere veramente critica. Ma è proprio questo vincolo a rivelarsi il più grande ostacolo al fine di decolonizzare i loro approcci alla teoria critica. Perché, forse, la lezione più importante degli studi postcoloniali degli ultimi trentacinque anni è stata che la lettura evoluzionista e progressista della storia – in cui l’Europa o “l’Occidente” sono giudicati più illuminati o più sviluppati di Asia, Africa, America Latina, Medio Oriente e così via – e la cosiddetta missione civilizzatrice dell’Occidente, che è servita a giustificare il colonialismo e l’imperialismo e continua a sostenere l’imperialismo informale o il neocolonialismo dell’attuale ordine economico, giuridico e politico mondiale, sono profondamente intrecciate. In altre parole, come ha osservato acutamente James Tully, il linguaggio del progresso e dello sviluppo è il linguaggio dell’oppressione e del dominio per due terzi della popolazione mondiale.

La fondazione della normatività adottata da Habermas e Honneth a partire da una concezione della storia progressista incentrata sullo sviluppo pone, quindi, una sfida ardua e impegnativa per il loro approccio: come può la teoria critica essere veramente critica se rimane vincolata a una meta-narrazione imperialista, cioè se non è ancora stata decolonizzata? D’altra parte, come può essere veramente critica se rinuncia alla sua strategia distintiva per fondare la normatività? Se accettiamo la definizione di teoria critica di Nancy Fraser, ispirata a Marx, quale «auto-chiarificazione delle lotte e dei desideri dell’epoca», e se assumiamo, inoltre, che le lotte per la decolonizzazione e le politiche postcoloniali siano tra le lotte e le istanze più significative della nostra epoca, allora la richiesta di una decolonizzazione della teoria critica deriva direttamente dalla definizione stessa di teoria critica. Se vuole essere veramente critica, la teoria critica contemporanea deve inquadrare il suo programma di ricerca e il suo quadro concettuale includendo nella prospettiva le lotte e le preoccupazioni decoloniali e antimperialiste. Tuttavia, se, come ho suggerito, la teoria critica contemporanea della Scuola di Francoforte si basa sulle idee di sviluppo storico, apprendimento e progresso per fondare la sua concezione di normatività, allora (come) questo progetto può essere decolonizzato senza ripensare radicalmente il suo approccio alla normatività?

In risposta a quest’ultima domanda, sosterrò che l’approccio della teoria critica alla fondazione della normatività deve essere radicalmente trasformato se essa vuole decolonizzarsi e, quindi, essere veramente critica. Come ho già scritto, l’enfasi di Habermas e Honneth sulle idee di progresso, sotto forma di nozioni di sviluppo socioculturale e di processi di apprendimento storico, può essere intesa come parte del generale hegelianismo di sinistra o del marxismo hegeliano della Scuola di Francoforte, anche se vale la pena notare fin dal principio che questa concezione della storia distingue la seconda e la terza generazione della Scuola di Francoforte dalla prima, i cui membri principali erano, almeno dopo la Seconda Guerra Mondiale, molto meno entusiasti dell’idea di progresso. La catastrofe di Auschwitz, ha osservato Adorno nelle sue lezioni di filosofia della storia, «fa sembrare ridicolo il progresso verso la libertà» e fa sì che la «mentalità affermativa» che si impegna in questo tipo di discorsi sembri «la semplice affermazione di una coscienza incapace di guardare in faccia l’orrore e quindi lo perpetua». Adorno evoca la nona tesi di Benjamin sulla filosofia della storia, nella quale il progresso è notoriamente rappresentato come la tempesta che soffia dal paradiso e spinge irresistibilmente l’angelo della storia verso il futuro. Con le spalle al futuro, l’angelo della storia guarda il passato e «vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi». Fondamentalmente, tuttavia, Adorno e Benjamin non rifiutano del tutto l’idea di progresso, ma cercano piuttosto di scomporla e di riconcepirla dialetticamente. In particolare, Adorno e Benjamin non dubitano che il progresso nel futuro sia possibile o auspicabile, ma che si possa dare un senso all’idea secondo cui il progresso è già avvenuto. Anzi, secondo Adorno, le letture progressiste della storia funzionano come impedimenti ideologici che bloccano il progresso nel futuro. Come asserisce Max Pensky, glossando Benjamin, «il primo passo del progresso è la distruzione furiosa del discorso del progresso». O, come si esprime Adorno nella frase che funge da ispirazione per il titolo di questo libro, «il progresso si attua veramente proprio là dove finisce». Ciò che distingue Habermas e Honneth dall’approccio dei precedenti pensatori della Scuola di Francoforte non è l’impegno verso il progresso come obiettivo morale-politico orientato al futuro – un impegno che tutti questi pensatori condividono –, quanto piuttosto il loro vincolo nei confronti di quello che Pensky definisce discorso del progresso come storia empirica. Inoltre, questi due aspetti del progresso sono profondamente intrecciati nella teoria critica di Habermas e Honneth, ed è proprio tale sovrapposizione a rendere la loro impostazione così bisognosa di essere decolonizzata.

Gli obiettivi generali di questo libro sono la valutazione critica del ruolo svolto dalle idee di sviluppo, di processi di apprendimento socioculturale e di progresso storico nel fondare e giustificare la normatività della teoria critica nella corrente principale della Scuola di Francoforte, e lo sviluppo di un quadro alternativo per pensare la storia e la questione del fondamento normativo in modo più adatto all’urgente compito di decolonizzare la teoria critica. In questo progetto, attingo alle risorse teoriche che si possono trovare nella tradizione della Scuola di Francoforte o nelle sue vicinanze, in particolare nel pensiero di Adorno e di Michel Foucault. Questo libro segue, quindi, le orme del lavoro di Robert Young, e potrebbe essere inteso come un tentativo di fare per la teoria sociale critica di Francoforte quello che ha fatto Mitologie bianche di Young per la critica letteraria marxista: esporre quanto tale progetto sia implicato a livello teorico, a causa della sua compromissione con una certa idea di storia, con l’imperialismo stesso che condanna politicamente. Il mio obiettivo è duplice: decolonizzare la teoria critica aprendola dall’interno al tipo di teorizzazione post- e decoloniale che essa deve accogliere per essere veramente critica e, viceversa, mostrare, attraverso un ripensamento della questione della normatività nella tradizione della Scuola di Francoforte, come la teoria post- e decoloniale possa essere criticata, cioè come potrebbe rispondere alle accuse di relativismo che da tempo le vengono rivolte e alle domande sullo status normativo della sua critica.

In questo capitolo, inizio a delineare le principali questioni concettuali che riguardano l’appello alle idee di apprendimento storico, sviluppo e progresso come strategia per garantire la normatività. In primo luogo, discuto cosa si intenda – e non si intenda! – per progresso nel contesto della teoria critica contemporanea, e considero le principali ragioni che sono state avanzate a favore dell’affermazione secondo cui l’idea di progresso è indispensabile per la teoria critica. In secondo luogo, considero le critiche epistemologiche e politiche, profondamente intrecciate tra loro, al discorso del progresso che hanno acquisito importanza nella teoria post- e decoloniale. Questa discussione mira non solo a stabilire perché la teoria critica abbia bisogno di decolonizzarsi, nella misura in cui è legata a una certa versione del discorso sul progresso, ma anche a motivare la particolare strategia di decolonizzazione che adotterò in questo libro. Infine, discuto il recente tentativo di Thomas McCarthy di rispondere alle critiche postcoloniali e postsviluppiste del discorso del progresso e suggerisco che le carenze dell’approccio di McCarthy ci forniscono alcuni suggerimenti preliminari circa la forma che dovrà assumere una decolonizzazione della teoria critica. Queste indicazioni saranno riprese e sviluppate ulteriormente nei capitoli successivi.

 

Il progresso e la normatività della teoria critica 

Prima di esplorare il ruolo che l’idea di progresso svolge nella teoria critica contemporanea, permettetemi innanzitutto di dire qualche parola su cosa si intende esattamente con il termine “progresso”. Nella sua accezione più ampia, l’idea di progresso storico non si riferisce soltanto al progresso verso qualche obiettivo specifico, ma piuttosto al progresso o allo sviluppo umano in generale, überhaupt. Come ha sostenuto Reinhart Koselleck, questa idea di progresso storico è un concetto strettamente moderno che emerge nel Diciottesimo secolo. Sebbene i Greci e i Romani avessero dei termini per «caratterizzare una progressione relativa in particolari ambiti di fatto e di esperienza» – prokopē, epidōsis, progressus, perfectus –, questi concetti, secondo Koselleck, riguardavano sempre il volgersi al passato e non erano legati all’idea di un futuro migliore. Inoltre, cosa forse più importante, erano sempre parziali, locali; il termine “progresso” non si riferiva, per i Greci, a «un processo sociale complessivo, come quello che oggi colleghiamo ad esempio alla tecnicizzazione e all’industrializzazione». La nozione cristiana di progresso, al contrario, si riferiva a un progresso spirituale che doveva culminare in un punto al di fuori del tempo; il cristianesimo ha, quindi, aperto l’orizzonte del futuro, ma il futuro migliore che esso prospettava sarebbe stato realizzato solo dopo la fine della storia. Per quanto riguarda la storia, per il Medioevo come per l’antichità, «il mondo nel suo complesso invecchia e si approssima alla sua fine. Il progresso dello spirito e la decadenza del mondo erano perciò concetti correlativi che impedivano di rappresentare in termini progressivi il futuro del mondo terreno».

La nozione moderna di progresso ha trasformato la «fine sempre attesa del mondo in un futuro aperto»; il profectus spirituale è diventato progressus mondano. Secondo l’analisi di Koselleck, il concetto moderno di progresso, che si accompagnava a una nuova esperienza del tempo, presentava diverse caratteristiche. In primo luogo, l’idea del futuro come orizzonte infinito snaturò l’idea che l’età del mondo fosse analoga alla vecchiaia di un individuo; questo, a sua volta, ha portato a una rottura tra l’età del mondo e l’idea di decadenza o declino: «Il progresso infinito dischiude un futuro che si sottrae alla metaforica dell’invecchiamento naturale. Per quanto il mondo come natura possa invecchiare nel corso del tempo, per l’umanità nel suo complesso ciò non comporta alcun declino». Quest’ultimo, nella modernità, non è più considerato il puro opposto del progresso, che diventa «una categoria mondana, il cui significato sta nell’interpretare tutti i passi indietro come provvisori, anzi, in ultima analisi, come stimoli per nuovi progressi». In secondo luogo, nel concetto moderno di progresso, la ricerca della perfezione che aveva caratterizzato anche il pensiero cristiano è stata secolarizzata, calata nella storia umana. Di conseguenza, il progresso diventa un processo dinamico, continuo, un compito infinito. Infine, il concetto moderno di progresso si riferiva sia al progresso tecnico-scientifico sia a quello morale-politico, cioè al progresso in generale (überhaupt). Cito ancora Koselleck: «Il termine Fortschritt [progresso], che si trova per la prima volta in Kant, era una parola che in modo conciso ed efficace riportava a un concetto comune la varietà delle accezioni del progresso: scientifiche, tecniche, industriali e infine anche quelle social-morali o sociali, in generale». La nozione moderna di progresso ha trovato la sua espressione più chiara nelle filosofie classiche della storia di Kant, Hegel e anche di Marx, dove è intesa nei termini più forti possibili, come un processo necessario, inevitabile e unificato. Sia che operassero attraverso il meccanismo di una natura che usa il male per produrre il bene, o dell’astuzia della ragione che, alle spalle e sopra le teste degli uomini, razionalizza la realtà esistente, o dello sviluppo delle forze e dei rapporti di produzione – che sparge i semi della rivoluzione comunista –, queste filosofie classiche della storia intendevano il progresso come necessario (anche se avevano visioni diverse su quanto significativo fosse il ruolo che gli individui dovessero o potessero giocare nel portare avanti questo sviluppo necessario) e unificato (come se si verificasse più o meno simultaneamente in tutta la società). Inoltre, queste teorie poggiavano su concezioni metafisiche dell’obiettivo o del telos verso il quale il progresso mirava, sia che fosse inteso come realizzazione del regno dei fini sulla Terra, che come raggiungimento del punto di vista del sapere assoluto o utopia comunista. Per essere chiari: nessuno degli attuali difensori dell’idea di progresso nella tradizione della teoria critica della Scuola di Francoforte fa affermazioni così forti. Pertanto, voglio sottolineare fin dal principio che, a mio avviso, né Habermas né Honneth ricorrono a una filosofia della storia tradizionale o alla forte nozione di progresso storico che ne deriva. Già il fallimento dell’ascesa del proletariato e del rovesciamento della borghesia in Europa e negli Stati Uniti all’inizio del Ventesimo secolo ha messo in crisi la versione marxista della filosofia classica della storia, mentre la barbarie regressiva e le catastrofi morali e politiche dell’Olocausto e dei gulag hanno ulteriormente minato le forti teodicee hegeliane e kantiane della storia.

Per la teoria critica contemporanea, il progresso è, quindi, inteso in modo contingente piuttosto che necessario, disaggregato piuttosto che totale, e postmetafisico piuttosto che metafisico. Dire che il progresso è contingente significa reputare una questione di circostanze storiche contingenti il fatto che una particolare cultura o società progredisca o meno, e considerare le regressioni sempre possibili. Dire che è disaggregato significa sostenere che il progresso in un dominio – per esempio quello economico o tecnologico- scientifico – può verificarsi contemporaneamente a un regresso in un altro, ad esempio nella sfera culturale o politica. Dire che il progresso è inteso in termini postmetafisici significa che la concezione del fine verso il quale mira è intesa in modo deflazionistico, fallibilistico e de-trascendentalizzato, come un’ipotesi su alcune caratteristiche fondamentali della vita socioculturale umana – il ruolo che la comprensione reciproca gioca nel linguaggio, o il riconoscimento reciproco nella formazione dell’identità – che necessita di una conferma empirica. Tuttavia, voglio sostenere che un certo residuo della filosofia della storia tradizionale permane nella teoria critica della Scuola di Francoforte contemporanea, e che si presenta sotto forma delle nozioni di sviluppo socioculturale, di apprendimento storico e di progresso morale e politico che informano le concezioni della modernità di Habermas e Honneth. Entrambi, dunque, formulano una concezione comune del progresso sociale, in base alla quale si può dichiarare che una società è progredita quando ha seguito un certo sviluppo unidirezionale e un cumulativo processo di apprendimento morale e politico. Certo, come sottolinea Habermas, questa nozione di progresso non implica alcun giudizio semplicistico sulla «superiorità del comportamento morale effettivo o delle forme di vita etica delle generazioni successive». Il punto cruciale, per Habermas, è quello moral-cognitivo in base al quale «c’è un progresso nel decentramento delle nostre prospettive quando si tratta di vedere il mondo nel suo insieme o di esprimere giudizi ponderati su questioni di giustizia» e che questo tipo di progresso, incarnato dall’Illuminismo, è «diventato così naturale per le generazioni successive» da essere «assunto come irreversibile». Habermas va oltre Honneth, in quanto difende anche la nozione di progresso tecnico-scientifico sebbene, in linea con la filosofia della storia non tradizionale tratteggiata in precedenza, egli lo consideri del tutto distinto e disaggregato dal progresso morale e politico. In effetti, segue Max Weber nell’intendere proprio la separazione e disaggregazione dei discorsi e delle istituzioni morali-politici da quelli tecnico-scientifici come un tratto distintivo della modernità e, quindi, come indice esso stesso di un tipo di progresso o di apprendimento socioculturale. Da questo punto di vista, la capacità di separare la validità della verità dalle pretese di validità normativa è uno dei tratti distintivi dell’autonomia postconvenzionale che diventa possibile nelle società post-tradizionali; è, dunque, una delle caratteristiche chiave che distingue la modernità dal mito.

Poiché questo libro vuole, innanzitutto, analizzare il rapporto tra le idee di progresso storico e il problema della normatività e l’ostacolo che questa relazione pone al progetto di decolonizzazione della teoria critica, mi concentrerò sull’idea di progresso normativo o morale-politico. Di conseguenza, tralascerò le domande sul progresso tecnico-scientifico. In difesa di tale scelta mi limito a sottolineare che le questioni che affronto in quest’opera sono già abbastanza difficili senza approfondire i complessi dibattiti sul progresso o sulle mancanze della scienza, per affrontare i quali non ho la necessaria competenza in storia e filosofia della scienza. A dire il vero, c’è dell’ironia in questa situazione in quanto, accettando la separazione delle questioni morali politiche da quelle tecnico-scientifiche, potrebbe sembrare che stia tacitamente sostenendo la concezione di modernità habermasiana nello stesso momento in cui la critico. Ammetto che ci sono buone ragioni per dubitare della concezione della storia weberiana di Habermas. Penso, ad esempio, all’argomento di Bruno Latour secondo cui non siamo mai stati veramente moderni, nel senso che non abbiamo mai compiuto la purificazione degli ambiti della verità e della validità normativa che, secondo questa visione, sono il segno distintivo della modernità. Non siamo mai stati moderni, sostiene Latour, perché la cosiddetta modernità è piena degli ibridi natura-cultura, fatto-valore, oggetto-soggetto che i modernizzatori come Habermas vedono – e giudicano inferiori – nelle visioni del mondo delle cosiddette culture primitive. Inoltre, come suggerisce questo esempio e come sostiene anche Latour, sembra plausibile affermare che la separazione della scienza, della tecnologia e della natura dalla politica, dalla società e dalla cultura, vada di pari passo con la radicale separazione di “noi” (i moderni) da “loro” (i premoderni) che è alla base dell’imperialismo. Come afferma Latour: «La Grande Divisione interna [cioè, il divario tra Natura e Società] spiega così quella esterna [cioè, il divario tra società moderne e premoderne]: noi siamo gli unici che fanno una distinzione assoluta tra la natura e la cultura, tra la scienza e la società, mentre tutti gli altri, che siano cinesi o amerindi, zandesi o baruya, non possono separare davvero quello che è conoscenza da quello che è società, il segno dalla cosa, ciò che viene dalla natura così com’è da quello che richiedono le loro culture. […] La partizione interna tra umani e non-umani ne definisce una seconda, esterna, grazie alla quale i moderni diventano a sé stanti rispetto ai premoderni».

Tenendo presente l’argomentazione di Latour, il mio focus su questioni normative o politico morali piuttosto che sul progresso o sull’apprendimento scientifico deve essere inteso come una parentesi provvisoria e non come una separazione rigida e sbrigativa. La mia speranza è che questa messa tra parentesi mi permetta di inquadrare e chiarire un filone particolare del più ampio complesso di dibattiti sul progresso che ha importanti implicazioni per la spinosa questione della normatività della teoria critica e le sue prospettive di decolonizzazione. La questione della validità dell’interpretazione weberiana di Habermas circa la superiorità della modernità sul mito sarà affrontata, anche se incidentalmente, nel capitolo 2. Per quanto riguarda l’idea di progresso politico-morale, ci sono in realtà due concezioni distinte, ma strettamente interconnesse, del progresso normativo nella teoria critica contemporanea. Queste due concezioni sono collegate, a loro volta, a due argomenti distinti che vengono offerti per sostenere che la teoria critica ha bisogno di un’idea di progresso per essere veramente critica. La prima concezione è prospettica, orientata al futuro. Da questa prospettiva, il progresso è un imperativo politico-morale, un obiettivo normativo che ci sforziamo di raggiungere, un obiettivo che si può racchiudere nell’idea di bene o almeno di una società più giusta. La seconda concezione è retrospettiva, orientata al passato. In questa prospettiva, il progresso è un giudizio sul processo di sviluppo o di apprendimento che ha portato a “noi”, un giudizio che considera la “nostra” concezione della ragione, le “nostre” istituzioni politico-morali, le “nostre” pratiche sociali, la “nostra” forma di vita come il risultato di un processo di sviluppo socioculturale o di apprendimento storico. Chiamerò la concezione prospettica del progresso “progresso come imperativo” e quella retrospettiva “progresso come ‘fatto’ ”. Come ho già scritto, ciascuna corrisponde a una diversa argomentazione a favore dell’affermazione secondo cui la teoria critica necessita dell’idea di progresso per essere autenticamente critica. Il primo argomento sostiene che abbiamo bisogno dell’idea di progresso verso qualche obiettivo futuro per lottare politicamente, per rendere la nostra politica genuinamente progressista. Thomas McCarthy esprime questo punto in modo eloquente quando scrive: «Non c’è dubbio che la testimonianza storica giustifichi la malinconia che Walter Benjamin provava nel contemplarla; né si può negare la disillusione delle speranze di progresso causata dagli eventi del XX secolo. Ma anche se questi aspetti devono rimanere centrali per la nostra sensibilità “postmoderna”, una politica basata unicamente sulla malinconia o sulla delusione – o su qualche altra forma di pessimismo storico, cioè sull’abbandono della speranza in un futuro significativamente migliore – non sarebbe una politica progressista».

Il progresso inteso in questo senso è un imperativo morale-politico che impone di migliorare la condizione umana, ed è collegato alla famosa terza domanda di Kant, che cosa posso sperare? Per essere critica una teoria deve essere connessa alla speranza di una società significativamente migliore – più giusta o almeno meno oppressiva. Tali speranze servono a orientare i nostri sforzi politici e, per essere considerate autentiche, devono essere fondate su una convinzione o una speranza nella possibilità di progresso. La seconda ragione per cui si pensa che la teoria critica esiga un’idea di progresso storico è legata alla concezione retrospettiva del progresso come “fatto” storico. Il termine “fatto” è tra virgolette perché non si tratta di un giudizio meramente empirico, ma necessariamente anche normativo. Asserire che il progresso è un “fatto” significa tipicamente affermare che gli ideali normativi, la concezione della razionalità pratica e le istituzioni sociali e politiche che sono emerse nella modernità europea – in particolare, nell’Illuminismo – sono il risultato di un processo cumulativo e progressivo di sviluppo o di un processo di apprendimento storico. Un argomento centrale di questo libro è che tale concezione retrospettiva del progresso come “fatto” giochi un ruolo cruciale, anche se spesso non riconosciuto, nel fondare la normatività della teoria critica sia per Habermas sia per Honneth. Ciò deriva, più o meno direttamente, dalla combinazione di due vincoli: in primo luogo, il desiderio di evitare i due mali gemelli del fondazionalismo e del relativismo; in secondo luogo, l’idea che la prospettiva normativa della teoria critica debba fondarsi immanentemente, nel mondo sociale reale. Il desiderio di evitare il fondazionalismo nasce dalla posizione decisamente postmetafisica della teoria critica contemporanea; come scrive Habermas, quest’ultima deve chiarire «che nella ragione comunicativa non risorge il purismo della ragion pura».

Il tentativo di evitare il fondazionalismo porta alla risoluzione di fondare la prospettiva normativa della teoria critica in modo immanente, all’interno del mondo sociale esistente. Ma questo impegno, a sua volta, solleva inevitabilmente preoccupazioni per il convenzionalismo e il relativismo. Se la nostra prospettiva normativa è fondata all’interno del mondo sociale, come può la teoria critica evitare l’accusa di ridurre la normatività all’approvazione di qualsiasi standard normativo accettato in un determinato momento e luogo? In altre parole, come possiamo giustificare gli standard normativi che la teoria critica trova nella realtà sociale esistente senza ricorrere a premesse fondazionaliste? La strategia hegeliana in senso lato di Habermas e Honneth costituisce un tentativo di rispondere a queste domande evitando le due insidie del fondazionalismo e del relativismo. L’idea di base è che i principi normativi che troviamo all’interno del nostro mondo sociale – in quanto eredità del progetto dell’Illuminismo europeo o del retaggio della modernità europea, che ha al suo centro una certa concezione dell’autonomia razionale (Habermas) o della libertà sociale (Honneth) – sono essi stessi giustificati nella misura in cui possono essere intesi come il risultato di un processo di progressiva evoluzione sociale o di apprendimento socioculturale. La scelta di fondare i principi normativi all’interno del mondo sociale permette alla teoria critica di evitare l’accusa di fondazionalismo, eppure, per evitare di cadere nel relativismo, la teoria critica si affida alla concezione retrospettiva del progresso storico come “fatto”. Quest’ultima permette di leggere gli standard normativi rinvenuti nel mondo sociale esistente – cioè all’interno del proprio mondo, il mondo dell’Europa moderna – non solo come standard normativi contingenti o arbitrari, ma piuttosto come risultati di un processo di sviluppo sociale e di apprendimento storico. Se, tuttavia, il fondamento immanente dei principi normativi della teoria critica all’interno del mondo sociale si basa in ultima analisi su un’affermazione relativa ai processi di apprendimento socioculturale, allora ciò significa che gli standard normativi che ci permettono di immaginare una società buona o più giusta – il principio del discorso, ad esempio, o l’idea di libertà sociale – sono essi stessi giustificati nella misura in cui sono il risultato di un processo progressivo di sviluppo o di apprendimento socio-culturale. In altre parole, le due concezioni del progresso sopra delineate sono correlate in quanto il progresso come imperativo politico-morale è, per Habermas e Honneth, fondato sull’orientamento normativo di base sostenuto dalla concezione del progresso come “fatto” storico – o almeno questa è la mia interpretazione di Habermas e Honneth, un’affermazione che sarà sviluppata e difesa nei capitoli successivi. La prospettiva normativa che orienta la concezione rivolta al futuro del progresso è giustificata dalla storia retrospettiva di come il “nostro” vocabolario morale moderno, europeo e illuminista e i nostri ideali politici siano il risultato di un processo di apprendimento e, quindi, non siano né puramente convenzionali né fondati su qualche concezione a priori e trascendentale della pura ragione. Questo orientamento normativo, a sua volta, ci fornisce una concezione della società “buona” o “più giusta” che costituisce la base per il nostro impegno morale e politico. Ciò suggerisce che, almeno per quanto riguarda l’uso dell’idea di progresso di Habermas e di Honneth, queste due concezioni di progresso – la nozione prospettica di progresso come imperativo morale-politico e la nozione retrospettiva di progresso come “fatto” sui processi di apprendimento storico e di evoluzione socioculturale che hanno portato a “noi” – non possano essere facilmente separate. In altre parole, non è possibile per questa versione della teoria critica tener ferma l’idea di progresso come imperativo politico-morale senza credere nel progresso come “fatto”, fintanto che la normatività della teoria critica è garantita dalla storia progressiva dello sviluppo socioculturale o dell’apprendimento storico. Ciò significa che la teoria critica contemporanea, così come la concepiscono Habermas e Honneth, potrebbe essere svincolata dal suo attaccamento al progresso solo ripensando anche la sua concezione della normatività.

Come illustrerò nella prossima sezione, è il vincolo di Habermas e Honneth nei confronti della storia come “fatto” a rendere il loro approccio alla teoria critica bisognoso di essere decolonizzato e a rivelarsi anche il più serio ostacolo a tale decolonizzazione. Certo, è concettualmente possibile conservare l’idea del progresso come imperativo morale-politico senza radicare questa concezione del progresso in una versione storico-evolutiva del progresso come “fatto”. Per esempio, la strategia kantiano-costruttiva per fondare la normatività della teoria critica, portata avanti recentemente da Rainer Forst, articola uno standard morale-politico universale – il diritto fondamentale alla giustificazione – che non si fonda su una nozione di progresso storico, ma piuttosto su ciò che Forst caratterizza come un profilo indipendente della ragione pratica. Forst sostiene, inoltre, che il progresso sia un concetto normativamente dipendente, nel senso che dipende da uno standard normativo universale, il quale, a sua volta, fornisce un chiaro parametro di riferimento per misurare le affermazioni del progresso storico. Questo modo alternativo di intendere il rapporto tra normatività e affermazioni sul progresso storico evita le preoccupazioni per il convenzionalismo e l’affidamento alla nozione di progresso come “fatto” che affliggono le tesi di Habermas e Honneth. Tuttavia, come discuterò ulteriormente nel capitolo 4, la concezione fortemente universalistica della morale di Forst e la sua concezione “indipendente” di ragione pratica rimangono vulnerabili alla critica postcoloniale, in particolare alle preoccupazioni che la sua concezione asseritamente indipendente e universale della ragione pratica sia una nozione mascherata, in realtà forte, particolare ed eurocentrica. Inoltre, cercando di evitare il convenzionalismo e il relativismo, l’approccio neokantiano di Forst finisce per sfociare nel fondazionalismo. Ciò lo porta a adottare un tipo di filosofia politica intesa come etica applicata, approccio che sacrifica la distintività metodologica della teoria critica. Di conseguenza, i teorici critici che mirano a disgiungere il progresso come imperativo politico-morale dal progresso come “fatto” dovranno trovare altri modi per raggiungere quest’obiettivo. Alla fine, sosterrò che la strada migliore per la teoria critica sia tornare indietro, cioè recuperare le intuizioni di uno dei membri più importanti della prima generazione della Scuola di Francoforte – Adorno – e del filosofo che chiamerò l’altro “altro figlio” di Adorno, Michel Foucault.

Scritto da
Amy Allen

Professoressa di Filosofia alla Pennsylvania State University, dove dirige il Dipartimento di Filosofia, è tra le più note studiose statunitensi di teoria critica, filosofia sociale e femminismo. Cura la collana “New Directions in Critical Theory” della Columbia University Press. Tra le sue numerose pubblicazioni: “La fine del progresso. Decolonizzare i fondamenti normativi della teoria critica” (Castelvecchi 2025), Critique on the Couch. Why Critical Theory Needs Psychoanalysis” (Columbia University Press 2020) e “The Politics of Our Selves. Power, Autonomy, and Gender in Contemporary Critical Theory” (Columbia University Press 2008).

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