La grande incertezza. Intervista a Nathalie Tocci
- 18 Dicembre 2024

La grande incertezza. Intervista a Nathalie Tocci

Scritto da Carlotta Mingardi, Virginia Volpi

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Negli ultimi anni, la globalizzazione e la cooperazione internazionale sono in declino, accelerate dalle crisi finanziaria, migratoria e pandemica e dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente. Questo ha portato molti Paesi a chiudersi in se stessi e ha alimentato le tensioni tra le principali potenze mondiali. In questa intervista, proviamo a indagare i mutamenti dello scenario internazionale a partire dal libro di Nathalie Tocci La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale, edito da Mondadori.

Nathalie Tocci è Direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), accademica e editorialista di importanti testate. È stata inoltre Consigliere speciale dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea.


Partiamo dal suo libro: La grande incertezza. Rispetto ai titoli immediatamente precedenti, come Fuori dal Tunnel o a A Green and Global Europe, in questo libro si nota un importante cambio di tono, che sottende anche ad una sua affermazione recente sulla fine dell’epoca del “mondo aperto”. Nel libro si individuano tre filoni dell’impianto ideologico propri di quell’epoca: la linearità dei processi di cambiamento, il binomio democrazia – capitalismo e l’interdipendenza. In sostanza, un generale predominio dell’economia sulla politica. Cos’era il “mondo aperto” e cosa si intende invece per “grande chiusura”?

Nathalie Tocci: Innanzitutto, A Green and Global Europe e Fuori dal Tunnel sono stati due libri profondamente europei. Raccontano di un’Europa che, dopo aver perso la rotta, riesce a ritrovarla attraverso una narrazione che è anche un atto politico. La grande incertezza, pur mantenendo questa vocazione europea, allarga lo sguardo oltre i confini del continente. La crisi che descrive, infatti, non nasce in Europa: è una crisi globale. Tuttavia, nella parte finale del volume, quella più costruttiva e orientata al futuro, torna al centro proprio l’Europa. Lo sottolineo perché, sebbene questa grande incertezza venga da fuori, non credo che il mondo aperto sia del tutto finito. Il suo tramonto è iniziato gradualmente con l’inizio del XXI secolo, non attraverso un singolo evento, ma tramite una catena di trasformazioni che hanno segnato un cambio di passo storico.

Il concetto di “mondo aperto” si reggeva su tre assunti fondamentali. Il primo era che dall’apertura economica sarebbe discesa un’apertura politica: l’idea, in sostanza, che il capitalismo avrebbe condotto – seppur lentamente – alla democrazia. Questo spiega scelte come l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. A distanza di venticinque anni, la Cina non può essere definita un regime né capitalistico in senso pieno né tantomeno democratico. Tuttavia, allora si pensava che incoraggiare l’apertura economica avrebbe messo in moto anche un’evoluzione politica, rendendo il sistema più aperto, se non propriamente liberale. Il secondo assunto riguardava la linearità dei processi: una volta intrapreso il percorso verso la modernizzazione, l’europeizzazione, la democratizzazione, si pensava che non ci sarebbe stato ritorno. Era un’idea fortemente influenzata dalla visione di Fukuyama, che – rileggendo Hegel in chiave antimarxista – vedeva la storia come orientata in modo irreversibile verso il progresso. Sommando questi due presupposti, si era portati a pensare che eventi come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia fossero inconcepibili: un atto del genere appariva irrazionale dal punto di vista economico e strategico. Tuttavia, questa visione trascurava l’esistenza di logiche differenti, di altre razionalità. Il terzo pilastro del mondo aperto era l’interdipendenza: un principio che l’intellighenzia europea ha a lungo celebrato come garanzia non solo di efficienza e prosperità, ma anche – seppur indirettamente – di stabilità e pace. Non si credeva in un automatismo, ma si pensava che l’interdipendenza potesse almeno contenere le forme più acute di conflitto. In fondo, il mondo aperto era un mondo pensato e costruito in Europa.

 

Cosa sono invece le “chiusure”?

Nathalie Tocci: Le chiusure – o meglio, le varie strette che hanno segnato questi ultimi venticinque anni – non arrivano tutte insieme, ma si sono succedute nel tempo. La prima è quella legata alla sicurezza, subito dopo l’11 settembre 2001. Con quell’attentato si è mostrato un volto diverso della globalizzazione: un lato oscuro, che ha messo in evidenza come un’apertura totale al mondo possa anche generare delle distorsioni profonde. Al-Qaeda, ad esempio, è stato un fenomeno pienamente globale; il jihadismo stesso si è mosso su scala internazionale. In quel momento, si è verificata una prima battuta d’arresto: la percezione che la globalizzazione non fosse solo opportunità, ma anche minaccia. Poi, qualche anno più tardi, è arrivata la crisi finanziaria del 2008, e con essa una seconda chiusura. Lì si è iniziato a mettere in discussione il modello economico su cui si basava la globalizzazione, un modello che aveva finito per amplificare le disuguaglianze, soprattutto nei Paesi più ricchi. Quella crisi ha generato un forte senso di insicurezza socioeconomica, alimentando la sfiducia nei confronti delle élite e delle istituzioni internazionali. La terza fase, invece, riguarda la chiusura della democrazia liberale. È un processo più recente, ma che ha preso forma con eventi molto chiari: la Brexit, la prima elezione di Donald Trump, la crisi migratoria. L’ascesa dei movimenti nazional-populisti ha messo in discussione proprio quei valori che fino ad allora erano stati considerati il cuore del “mondo aperto”.

Poi, naturalmente, c’è stata la pandemia. Anche quella ha rappresentato una nuova stretta. Ci siamo resi conto che la globalizzazione, per quanto efficiente, ci rendeva anche vulnerabili. Pensiamo al caso delle mascherine: quando servivano urgentemente, erano tutte prodotte in Cina. In un sistema troppo interdipendente, questo può diventare un problema enorme. Infine, siamo arrivati alle guerre – quella in Ucraina, e poi il nuovo conflitto in Medio Oriente. Anche qui, le conseguenze si riflettono direttamente su sicurezza energetica, alimentare, commerciale. Basti pensare al Mar Rosso, dove un attore non-statale come gli Houthi è riuscito a mettere a repentaglio il commercio globale. Insomma, tutte queste “strette” non ci hanno ancora portato a un mondo davvero chiuso, ma hanno sicuramente incrinato molte delle certezze su cui si reggeva l’idea di un mondo aperto.

 

“Sigilleremo i confini” è stato l’esordio del discorso del nuovo Presidente eletto degli Stati Uniti d’America e uno dei suoi primi atti dalla Casa Bianca. Anche a seguito del suo programma e delle sue prime decisioni, la vittoria di Donald Trump è l’emblema della Grande chiusura? Come si collocherà la sua amministrazione all’interno del sistema internazionale esistente e delle sue linee di faglia? 

Nathalie Tocci: Donald Trump incarna almeno quattro aspetti della Grande chiusura. Il primo, che è quello più evidente e di partenza, è il sistema del nazionalismo. Si pensi ad esempio agli slogan Make America Great Again (MAGA) e Take Back Control, e al messaggio che sottendono. Alla base vi è la massima che la cooperazione internazionale e il multilateralismo non siano un qualcosa di funzionale a promuovere l’interesse nazionale, ma che, al contrario, lo danneggino. Di conseguenza, si propugna l’idea che solo attraverso politiche unilaterali – libere dalle briglie delle regole internazionali e delle istituzioni – e spingendosi anche all’eventuale utilizzo della forza, si possa tutelare l’interesse di uno Stato. Trump incarna questa visione, e non è il solo leader ad essere di questo avviso, basti pensare ad alcune figure europee, come Viktor Orbàn.

Il secondo aspetto è l’immigrazione. Trump, durante la campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali statunitensi, ha – fra le altre cose – proposto “l’operazione Aurora”, ovvero la deportazione di oltre dieci milioni di persone, migranti irregolari. Sarebbe e, date le immagini che stiamo vedendo, con tutta probabilità sarà la più ampia deportazione dei nostri tempi, nonché la manifestazione più estrema della chiusura. Come per il primo aspetto, gli Stati Uniti non sono l’unico Paese a promuovere un simile approccio. Si pensi, ad esempio, ai centri di permanenza per migranti costruiti in Albania.

Il terzo aspetto è il protezionismo economico. L’ondata di protezionismo cui stiamo assistendo non inizia con Trump e non comincia ieri. Gli accordi commerciali di libero scambio sono passati di moda da un po’ e, soprattutto, raramente hanno funzionato a pieno regime. Emblematico è il caso dell’accordo commerciale tra l’Unione Europea e il MERCOSUR – il mercato comune di cui fanno parte Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay (più alcuni membri associati e osservatori). Le negoziazioni per raggiungere un accordo sono durate venticinque anni, e se è vero che la firma c’è stata a dicembre 2024, è comunque cosa ben diversa dalla ratifica e ancor più dall’implementazione. Un altro esempio è il CETA, l’accordo economico e commerciale tra l’Unione Europea e il Canada. Entrato in vigore provvisoriamente nel 2017, deve ancora essere ratificato da dieci Stati europei, tra cui l’Italia, la Francia e il Belgio. Ritornando all’America, Trump rappresenta il protezionismo ma bisogna ricordare che lo stesso Joe Biden, sulla scia del primo mandato di Trump, proseguì con politiche simili. Si pensi, ad esempio, all’Inflation Reduction Act, una legge federale degli Stati Uniti contenente una serie di misure volte principalmente a incentivare gli investimenti sulle energie rinnovabili. Alcune di queste misure che incentivavano il Buy American presentano un carattere protezionistico. È, in questo senso, importante sottolineare un punto: gli individui che ricoprono determinati ruoli istituzionali sono importanti; l’agency, cioè la capacità di agire o di scegliere quale azione intraprendere, è rilevante; ma cruciale è anche la struttura, ovvero l’insieme dei modelli ricorrenti che influenzano o limitano le scelte. La relazione tra l’agency e la struttura determina una tendenza e, nel caso in oggetto, Trump è importante nella misura in cui riflette, e a sua volta consolida e accelera, una determinata tendenza strutturale.

Infine, il quarto e forse più importante aspetto della Grande chiusura che riscontriamo nelle caratteristiche di Trump è l’illiberalismo: la volontà di eliminare le basi della liberal democrazia, intesa come la garanzia della separazione dei poteri, la necessaria libertà dei media e la protezione delle libertà civili, a cominciare dal diritto all’aborto. Nuovamente, è bene ribadire che non accade solo là, ma anche altrove. Si pensi alla minaccia di un’orbanizzazione dell’Europa, cioè di un complessivo arretramento in termini di diritti, libertà e valori. 

 

“Permacrisi” è un neologismo che ben riassume l’epoca attuale caratterizzata dal susseguirsi incessante di crisi, quali sono le crisi identificate che hanno condotto alla “grande chiusura”? 

Nathalie Tocci: Come detto, non ci siamo svegliati da un giorno all’altro in un mondo chiuso: è stato il concatenarsi di crisi che ha comportato, e tutt’oggi comporta, uno sconvolgimento del mondo che conoscevamo. La grande incertezza identifica almeno quattro crisi. La prima è quella della sicurezza, cominciata l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Da quel giorno, le frontiere del mondo vennero chiuse e iniziò la guerra al terrorismo su scala globale con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, sebbene soprattutto quest’ultimo non avesse niente a che fare con gli attacchi alle Torri gemelle. L’instabilità del Medio Oriente, acuita dalla guerra civile in Siria dieci anni più tardi, diventò terreno fertile per l’insediarsi di Da’esh. Sempre negli Stati Uniti, ebbe inizio la seconda crisi, quella economica: la bancarotta del colosso bancario Lehman Brothers nel 2008 e la sottostante crisi finanziaria, che culminò in Europa nella crisi dei debiti sovrani del 2010 e 2011 e colpì soprattutto Grecia, Irlanda e Portogallo. Si crearono così i prodromi per un’altra crisi: quella della democrazia liberale, che ha attraversato diverse fasi, dal referendum sulla Brexit per la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea all’autoritarismo strisciante di Viktor Orbàn in Ungheria o di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. La manifestazione più eclatante e contraddittoria della crisi della democrazia liberale è stata però proprio la prima elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Trump, che propugnava la fine delle forever wars in Afghanistan e Iraq, minacciava di uscire dalla NATO e si opponeva a ogni qualsivoglia istituzione multilaterale che – come dicevamo – dal suo punto di vista “ammanetta” gli Stati Uniti e il mondo. Tanti di questi obiettivi ritornano nell’agenda del suo secondo mandato.

Alla crisi della democrazia liberale e a quella economica si collega strettamente l’ultima crisi, quella pandemica. Infatti, se la pandemia – paradossalmente – ha chiuso il mondo fisicamente, lo ha anche aperto digitalmente, e la sua gestione ha messo in luce due modelli, economici e politici, nettamente differenti e in competizione fra loro. Avrebbero funzionato meglio le rigide chiusure di un sistema autoritario e illiberale come quello cinese, o quelle più soft dei Paesi democratici, che vedevano però aumentare i contagi vertiginosamente? Ma, soprattutto, la vera battaglia si giocò sui vaccini: scoprire la formula giusta e produrla. E lì, il mondo aperto e la condivisione scientifica furono decisamente più efficaci. Al tempo stesso, l’interdipendenza fra i Paesi – fatta di catene del valore lunghe per ridurre i costi e aumentare la scelta – che fino ad allora era stata fonte di pace e prosperità diventò causa di estrema insicurezza e fonte di strumentalizzazione. L’Europa non produceva né mascherine né ventilatori polmonari, mentre Paesi autoritari come la Cina e la Russia non mancarono di spedirli, ma non per bontà d’animo, bensì per competizione fra modelli economici e democratici differenti. Era lo scontro/incontro fra mondo aperto e mondo chiuso.

 

La prima Commissione von der Leyen si era prefissata degli obiettivi ambiziosi. L’agenda di un’Europa verde, ma anche di un’Europa che cercava la propria via e, per diversi aspetti, la propria autonomia a livello internazionale. Quali prospettive si aprono con gli equilibri attuali?

Nathalie Tocci: Le priorità rimarranno sicuramente difesa e allargamento. Con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, alcuni temi diventeranno anzi ancora più importanti, politicamente. Ma non vedo all’orizzonte un incredibile “colpo di reni” da parte dei Paesi europei. Sicuramente il tema della difesa è fondamentale ed è verosimile prospettare un’accelerazione della spinta in questa direzione. In questo quadro, anche in riferimento alla guerra in Ucraina, la maggiore incognita resta quella legata alla profonda imprevedibilità di Trump.

 

Lei è stata l’ideatrice di un concetto di “autonomia strategica”. Una delle sue sfumature riguardava anche la possibilità, per l’Unione Europea, di riuscire ad essere un attore autonomo, anche in termini di sicurezza e di sicurezza energetica, sulla scena internazionale. Possiamo aspettarci un ragionamento più sostanzioso sulla difesa comune?

Nathalie Tocci: L’autonomia strategica dell’Unione Europea è un concetto ampio e multidimensionale che significa sviluppare la capacità dell’Unione di pensare, decidere e agire nel mondo sulla base dei propri interessi e valori, senza una dipendenza strutturale da altri attori globali, come gli Stati Uniti o la Cina. È dunque la possibilità per l’Unione di agire come un attore sovrano, capace di plasmare il proprio destino in un sistema internazionale sempre più competitivo e frammentato. Il concetto va oltre la sola sfera della difesa e si declina come sicurezza intesa anche come sicurezza energetica. Il concetto di autonomia strategica, seppur nato prima, iniziò ad essere molto diffuso dopo il 2016, proprio in risposta all’elezione di Trump. Tuttavia, fu molto impiegato durante il periodo della presidenza Biden, quando l’attitudine era quella di ricostruire le relazioni transatlantiche dopo quattro anni non facili del primo mandato di Trump. In questo contesto, l’autonomia strategica fu vista come qualcosa che non costruiva ma tagliava i ponti, chiudendosi ad un protezionismo. Era sbagliato interpretare così l’autonomia strategica, e ora, politicamente parlando, proprio perché siamo nel mezzo del secondo mandato di Trump, tornerà ad essere fonte di dibattito.

 

La guerra di aggressione russa verso l’Ucraina, il Medio Oriente, e la polveriera tra Israele, Gaza, il Libano, ma anche lo Yemen e l’Iran. Come interpretare le connessioni tra questi conflitti, dal punto di vista della politica estera dell’Unione Europea? Siamo di fronte, come disse Papa Francesco, ad una “terza guerra mondiale a pezzi”? 

Nathalie Tocci: In questi contesti è cruciale non scadere mai negli automatismi: bisogna tenere presente i collegamenti che esistono tra diversi teatri di guerra o di conflitto, seguirne la relativa complessità e mutevolezza. Tra l’invasione russa dell’Ucraina, il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre e il conseguente assedio della Striscia di Gaza da parte di Israele – nella loro specificità e differenza – ci sono dei punti comuni. Il primo è che la razionalità economica arriva fino a un certo punto, poi possono prevalere altri fattori, come l’ideologia. Secondo: situazioni irrisolte e ignorate tendono a ripresentarsi successivamente e più brutalmente. Nonostante le molteplici avvisaglie, i Paesi dell’Europa occidentale, Italia inclusa, non credevano che Putin avrebbe davvero dato inizio ad una invasione su larga scala dell’Ucraina. Razionalmente, non aveva senso mettere a repentaglio legami e interessi economici e soprattutto energetici con l’Europa. Ma l’ideologia e la megalomania hanno portato a un altro risultato. Inoltre, già l’Europa aveva lasciato correre nel 2008 quando la Russia invase la Georgia, o quando nel 2014 annetté la Crimea e intervenne nella stessa Ucraina. Diversamente, ma con delle analogie, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e le Monarchie del Golfo si basava su una forte razionalità economica, nata durante la prima amministrazione Trump con gli Accordi di Abramo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (seguiti da Bahrein, Marocco e Sudan). Con l’Arabia Saudita, la situazione era un po’ più complessa: nel Paese della Mecca e di Medina, cuore del mondo musulmano, la liberazione dei Territori palestinesi occupati era conditio sine qua non dell’iniziativa di pace araba dei primi anni Duemila. Ma la questione palestinese negli anni era diventata meno pregnante, fino ad essere dimenticata: Biden è stato il primo presidente americano a non occuparsi di un processo di pace tra Israele e Palestina, e l’Unione Europea è andata a traino. E così siamo arrivati al 7 ottobre.

Se è difficile immaginare un ruolo di spicco dell’Unione Europea nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese, ci sono alcuni casi dove essa può giocare un ruolo maggiore. Per esempio, nei Balcani occidentali, o in Moldavia e Georgia. Entrambi i Paesi rischiano di essere inglobati nella sfera d’influenza russa. La Presidente moldava Maia Sandu ha vinto le elezioni presidenziali a fine 2024 con un margine inferiore a quanto pronosticato, e con comprovate influenze russe nel voto. In Georgia, Sogno georgiano, il partito filorusso al governo da dodici anni, ha vinto nuovamente con oltre il 50% dei consensi, nonostante i sondaggi dessero in vantaggio la coalizione europeista, e nonostante l’80% dell’opinione pubblica si fosse espressa a favore dell’ingresso nell’Unione Europea. Migliaia e migliaia sono i cittadini che per mesi hanno continuato a scendere in piazza. Ecco, in questi casi la coesione europea e l’attivismo europeo possono fare la differenza.

 

Un mondo frammentato, ma che mai è stato così interconnesso. Quale è l’alternativa alla Grande chiusura e come si naviga la contraddizione odierna?

Nathalie Tocci: Siamo entrati nell’età della grande incertezza: ora dobbiamo appunto navigarla. Bisogna abbracciare la contraddizione e trovare il punto di equilibrio tra aperture e chiusure, come in un sistema di leve. Più concretamente, abbiamo tre sfide cruciali e strategiche davanti a noi: la difesa, l’economia e la democrazia. A seguito dell’invasione dell’Ucraina, si è assistito ad un complessivo riarmo, e le priorità sono tornate ad essere la difesa e la sicurezza territoriale, nel senso più tradizionale. Sempre più fuori dall’ombrello di protezione americano, l’Unione Europea dovrà trasformare i suoi 27 eserciti in qualcosa di più coeso e coerente, nonché costruire su un piano di reale parità partenariati strategici di sicurezza con Paesi e organizzazioni. L’interdipendenza è fonte di prosperità e, al tempo stesso, causa di insicurezza: l’Unione Europea – nata in un mondo aperto – è chiamata ad attrezzarsi per poter (quasi) fare da sola. Si chiama de-risking: il punto di equilibrio tra economia, politica e sicurezza che consente di diluire le dipendenze da altri Paesi e diversificare le relazioni economiche, favorendo la produzione industriale interna. Infine, cruciale è la protezione della democrazia all’interno dell’Unione e la promozione dei suoi principi all’esterno, nel nuovo mondo a-polare contemporaneo. Tra l’interno e l’esterno, c’è il percorso democratico o di adesione all’Unione Europea. L’allargamento è tornato prepotentemente nell’agenda europea, ma assumendo più la connotazione strategica e di sicurezza, tralasciando l’aspetto democratico che sempre aveva contraddistinto questo processo. Bisogna fare leva sul tema dell’allargamento anche per spronare l’Unione a perseguire determinate riforme interne. Come diceva Jean Monnet: «Non possiamo fermarci quando intorno a noi tutto è in movimento».

Scritto da
Carlotta Mingardi

Ricercatrice post doc. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Bologna. In precedenza, è stata scholar presso The Europaeum, visiting fellow presso la Brussels School of International Studies-BSIS University of Kent e junior research fellow presso l’Istituto Europeo del Mediterraneo-IemED di Barcellona. Si occupa di politica estera dell’Unione Europa, con particolare attenzione alla regione dei Balcani e MENA.

Scritto da
Virginia Volpi

Attualmente si occupa di digitale e public affairs. Ha seguito la presidenza italiana del G7 dalla Farnesina e le fasi più cruciali dell’invasione russa dell’Ucraina da Bruxelles, collaborando con il Gabinetto del Vice-Presidente Šefčovič e la Direzione Generale Reform della Commissione Europea. Si è laureata in EU Constitutional Law all’Università di Bologna. È autrice di: “Cos’è per te l’Europa?” (Feltrinelli 2020).

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