La libertà nel pensiero delle donne: autonomia e relazione
- 13 Aprile 2023

La libertà nel pensiero delle donne: autonomia e relazione

Scritto da Anna Loretoni

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Lungo il versante che nelle democrazie contemporanee vede profilarsi usi e abusi del concetto di libertà, va annoverata anche la questione relativa ai molti attacchi alla libertà nella sfera sessuale e riproduttiva. Il femminismo, del resto, ha ben messo in evidenza che legiferare sui corpi delle donne, sulla loro potenza generativa, è terreno abitudinario per la politica, una sorta di costante trans-storica e trans-culturale. In merito alla questione della libertà femminile in materia sessuale e riproduttiva, sia che questa sia stata espressa tramite il concetto di autodeterminazione, come è avvenuto nel caso italiano, sia che la si sia tradotta nel linguaggio dei diritti riproduttivi, oggi la riflessione è obbligata a confrontarsi con quanto avviene tanto in alcune democrazie liberali, basti pensare agli Stati Uniti e al rovesciamento della storica sentenza Roe v. Wade, quanto a quei regimi dichiaratamente illiberali, quali l’Ungheria di Orbán, la Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan, in cui i diritti sessuali, in specie quelli relativi alla libertà rispetto all’orientamento sessuale, sono totalmente negati, e le soggettività che li reclamano sottoposte a oppressione e dominio, in una dinamica che non è difficile definire in termini regressivi e di cultural backlash. In molti contesti siamo di fronte ad un attacco alla libertà femminile senza mezzi termini; non un sessismo benevolo, paternalista e talvolta inconsapevole, ma un sessismo ostile ed esplicito, frutto di un comportamento intenzionale. Senza dubbio questo potere misogino e patriarcale va misurato, come ci ha ben insegnato Michel Foucault, tramite l’analisi di pratiche educative, dell’amministrazione burocratica, della produzione e distribuzione del sapere, ma oggi anche tramite un’esplicita chiamata alle armi su scala internazionale di cui alcuni Stati sovrani sono attori in prima linea. Ha, quindi, un particolare significato ricostruire le principali acquisizioni teoriche che la teoria femminista ha prodotto in relazione al concetto di libertà e valutarne le implicazioni in termini di concezione dello spazio pubblico e delle molteplici diversità che abitano le democrazie contemporanee.

Va, innanzitutto, ricordato che la libertà è stata al centro della riflessione femminista, e più in generale degli studi di genere, a partire dal femminismo della seconda ondata, legato all’introduzione del concetto di genere all’interno delle agende di ricerca delle diverse discipline e alla riflessione intorno alla differenza sessuale. Come è noto, il primo femminismo aveva invece posto maggiore attenzione alla categoria di uguaglianza, mirando in primo luogo ad un’emancipazione che colmasse il divario determinato da una secolare segregazione delle donne nella sfera privata, con la conseguente loro esclusione dal godimento di una piena partecipazione alla vita pubblica. Sarebbe però riduttivo non cogliere i nessi, non solo storici, ma concettuali, di tale passaggio, nonché le implicazioni teoriche che vengono a determinarsi a partire da una lettura critica del concetto di uguaglianza. Si può, anzitutto, affermare che, affrontando la categoria di cittadinanza secondo una prospettiva di genere, si sia pressoché unanimemente sottolineata una sua rilettura critica, che ne accentui il carattere dilemmatico e ambivalente, mettendo in discussione l’interpretazione fondata semplicisticamente sull’ipotesi di una progressiva inclusione. Il rapporto donne-cittadinanza si è svolto lungo un crinale difficile e articolato, che occorre ripercorrere con un’attenzione specifica. Secondo Iris Marion Young, la forza propulsiva dell’inclusione viene rovesciata allorché si chiede ad un gruppo escluso di partecipare socialmente ad una partita già iniziata, con regole prefissate e in un contesto che risulta perciò regolato da diritti “fuori taglia”[1]. Ci si potrebbe provocatoriamente chiedere, come fa Carla Lonzi: «ci piace, dopo millenni, inserirci a questo titolo in un mondo progettato da altri?»[2]. Come ricostruisce Maria Luisa Boccia, sebbene il paradigma della cittadinanza muova da una disparità di possesso, l’inclusione non intacca la disparità di senso: cosa specificamente vuole una donna e le donne[3]. Detto in altri termini, se l’inclusione non mette in campo una ridefinizione sostantiva delle strutture e dei confini dello spazio pubblico, il modello implicito di cittadino configurato via astrazione sul maschio-adulto-occidentale-borghese finisce con l’avere una funzione escludente, rappresentando un impedimento per chi a quel modello non intende corrispondere, privando le donne della libertà di costruire un percorso identitario autonomo e inducendole alla mimesi e al conformismo. A ridosso di questo tipo di riflessioni viene emergendo una strategia critico-decostruttiva capace di rileggere da una nuova prospettiva la configurazione moderna delle categorie politiche, di far emergere stereotipi e pregiudizi nascosti all’interno delle narrazioni dominanti, di svelarne i presupposti non dichiarati[4]. Il modello di spazio pubblico che deriva dalla rottura di un universalismo tanto fittizio quanto escludente rafforza l’ipotesi di una presenza plurale di identità nello spazio sociale, di molteplici ispirazioni valoriali e simboliche, di visioni del mondo e del bene morale, contrastando il conformismo a vantaggio di una libertà che certamente trova nel rispetto dell’altro/a un limite invalicabile, ma che fa dell’espressione della soggettività che liberamente sceglie la propria condotta di vita un principio insostituibile anche per la definizione delle regole democratiche, troppo spesso inclini alla tirannia della maggioranza. In questo senso, si può a ragione sostenere che la concettualizzazione e la pratica della libertà femminile costituisca un tassello importante sulla strada della laicità delle istituzioni e che, in senso più generale, rafforzi l’idea di democrazia come convivenza tra diversi.

Questa nuova definizione di libertà, concettualizzata a ridosso della soggettività delle donne, vuole però sottolineare anche la profonda relazione che esiste tra gli individui, che risultano pertanto in costante, reciproca relazione. Per questi motivi, la riflessione femminista ha ritenuto di estrema importanza insistere sull’opportunità di ridiscutere l’idea di individuo che entra nella vita pubblica, non come questione “arcaica” e obsoleta, ma, al contrario, come aspetto rilevante per una ricerca che intende interrogarsi sulla giustizia dell’ordine politico. Da questa prospettiva teorica, i limiti della relazione contrattuale privilegiata dalla visione liberale diventano evidenti in base alla constatazione che le persone sono perlopiù legate le une alle altre non da rapporti contrattuali, ma da relazioni di fiducia, empatia e cura; rapporti che è difficile sviluppare in base all’ipotesi che interpreta gli individui come meri egoisti razionali. La scarnificazione e l’astrazione con cui gli esseri umani sono stati rappresentati in quanto agenti del contratto accomuna sia le moderne teorie sull’origine dell’obbligo politico, da Hobbes a Locke, sia le versioni del neo-contrattualismo, in primo luogo quella formulata da John Rawls. Se partiamo dall’idea di società come equo sistema di cooperazione, assumiamo che le persone possiedano tutte le capacità che permettono loro di essere membri cooperativi della società stessa e di esserlo per l’intera vita. Questa impostazione viene profondamente rivisitata dalla teoria femminista, dapprima mostrandone i falsi presupposti, poi dando forma ad una visione più complessa e articolata dell’individualità e dello spazio pubblico. Se la società si compone di unità indipendenti e autonome che collaborano solo quando i termini della cooperazione sono tali da promuovere gli obiettivi di ciascuna delle parti, la vita sociale, politica e familiare che ne risulta sarà davvero molto povera, dal momento che una considerevole parte delle relazioni tra esseri umani non potrebbe nemmeno essere discussa nei termini individualistici, egoistici e non relazionali di questa impostazione. Come sottolinea Virginia Held, se racchiudiamo la vita entro i recinti delle astrazioni, nessuna teoria è idonea a definire i rapporti umani; in primo luogo perché autonomia e libertà non coincidono con isolamento e assenza di relazioni[5].

Non solo quindi va sottolineata la componente sociale e dialogica nella costituzione della soggettività, sulla scia di quanto hanno elaborato in termini di «io sociale» sia William James nell’ambito del pragmatismo americano, che Charles Taylor in relazione al concetto di «altri significativi» proposto da George Herbert Mead, ma va reso più esplicito che autonomia e libertà non si definiscono in uno spazio disabitato, nell’isolamento dagli altri, ma in un dialogo costante e mai estinguibile con questi, fatto di conflitti che possono accrescere la vulnerabilità dei soggetti, ma anche di risposte positive e confermative. Siamo qui in presenza di una riflessione sulla formazione del Self che individua una linea di ricerca che si propone di riconfigurare lo spazio pubblico democratico in senso più ospitale, proprio in quanto punto di approdo di una proposta che mette insieme visione antropologica e concezioni della democrazia, modelli di individualismo e configurazioni di una convivenza capace di sfidare il finto neutralismo di una certa tradizione liberale. Questo nesso è particolarmente evidente anche nella rilettura dell’autonomia avanzata da uno dei principali interpreti della teoria critica del riconoscimento, Axel Honneth. L’autonomia e la libertà vengono qui a definirsi sulla base del mutuo riconoscimento; ed entrambe possono venire ridimensionate o anche compromesse quando vengono danneggiate le relazioni sociali che le sostengono[6]. Il modello di spazio pubblico che da questa lettura intersoggettiva di libertà e autonomia deriva non ha quindi un carattere escludente, né tantomeno omogeneo ed essenzialistico. La dipendenza che gli individui sperimentano nei confronti di forme relazionali come il rispetto, il prendersi cura e la stima, sottopone a critica l’enfasi tutta moderna che a partire dalla constatazione dell’accresciuta indipendenza degli individui riguardo al contesto sociale e alla tradizione ha prodotto la convinzione che questi siano maggiormente liberi di sviluppare i loro personali propositi quanto meno vengono disturbati. In una simile ottica, la condivisibile concezione per cui essere autonomi ha progressivamente significato liberarsi dai vincoli tradizionali e non venire più ascritti a ruoli determinati ha prodotto un frutto avvelenato, che stabilisce un nesso tra realizzazione dell’autonomia e della libertà individuali e totale indipendenza rispetto ai consociati; come se ogni contatto, o contrasto, avesse la possibilità di limitare l’agire del singolo. Da questo punto di vista, la rilevanza assunta dalla declinazione negativa della libertà è correlata alla fuorviante rappresentazione degli individui come esseri autosufficienti, che devono concentrarsi sull’eliminazione di ogni possibile interferenza e che non necessitano di alcun supporto politico, o sociale, o economico, che renda possibile l’esercizio della loro libertà. Siamo di fronte a una negazione razionalizzata della dipendenza; libero è, in questa chiave, colui che non dipende da nessun altro ed esercita la libertà come non-interferenza[7]. La concezione della giustizia sociale che deriva da questa visione dell’autonomia risulta allora inevitabilmente fallace, perché non riesce a includere condizioni assai rilevanti dell’esistenza umana come il bisogno, la vulnerabilità, l’interdipendenza. Sulla scia di queste considerazioni, Honneth contrappone al modello autistico dell’autonomia individuale una concezione di tipo sociale, intersoggettivo, situato o riconoscitivo, in modo non dissimile dalla definizione di autonomia relazionale elaborata da Jennifer Nedelsky, secondo la quale l’autonomia può esistere solo nel contesto di relazioni sociali che la supportano[8]. Il rispetto di sé, la fiducia in sé stessi e l’autostima non sono auto-convincimenti personali, stati emotivi o aspetti coscienziali, bensì proprietà emergenti a seguito di un processo dinamico che rende possibile per gli individui fare esperienza di sé stessi come esseri sociali che partecipano responsabilmente a progetti condivisi. L’individualità non è, perciò, il risultato della solipsistica riflessione di un ego che cogita, ma il prodotto di un continuo processo intersoggettivo di azione, che trova nel mutuo riconoscimento, anche a seguito di conflitti, la sua condizione di possibilità. Tutto ciò avviene all’interno di uno spazio pubblico inclusivo e riconoscitivo delle diversità, che non viene definito in modo essenzialistico rispetto ad un “fuori” che consente solo agli/alle uguali di riconoscersi.

La critica alla visione solipsistica della libertà individuale viene messa a fuoco dalla riflessione femminista anche tramite la rilevanza teorica attribuita alle categorie di vulnerabilità e dipendenza. Chiedendo di includere nella trattazione teorica lo spazio privato del dare la vita e del praticare la cura, il femminismo sottolinea un elemento tanto elementare quanto trascurato dalla filosofia politica: gli individui non nascono autonomi e autosufficienti; al contrario, la loro esistenza è per un lungo periodo caratterizzata da bisogno e dipendenza. Ancora una volta, è lo spostamento dello sguardo favorito dal pensiero delle donne a determinare un nuovo quadro concettuale. In questa configurazione non astratta della società si dispensano e si ricevono cure proprio perché uomini e donne hanno bisogno di tempo per diventare autonomi, venendo al mondo come figli e figlie bisognosi, e la vulnerabilità e la dipendenza continuano a connetterli vicendevolmente anche nella fase adulta della vita. Le implicazioni filosofiche delle categorie di vulnerabilità e dipendenza vanno al cuore della riflessione che a partire dalla Modernità ha troppo spesso individuato nella sola razionalità la dignità umana, recuperando tanto l’ideale – di origine aristotelica – della condizione di animalità degli esseri umani, quanto quello – di ispirazione marxiana – che ne sottolinea la condizione di costante e multiforme bisogno[9]. Nella riformulazione della dipendenza, sia nella forma estrema della disabilità che in quella più comune della relazione, sono il concetto di bisogno da una parte e quello di cura dall’altra che, basandosi sulla natura relazionale del Sé, sfidano l’idea che gli individui debbano presupporsi come autosufficienti nelle relazioni sociali, secondo la logica del controllo e della potenza. Registrare la dimensione della comune vulnerabilità, sottolineare che nel corso della vita tutti e tutte passiamo attraverso stadi di indipendenza e di dipendenza, non vuol dire però creare una condizione universale che annulla le differenze. Come ha ben messo in evidenza la prospettiva della intersectionality, condizioni di classe, reddito, appartenenza culturale e religiosa, oltre che di genere e di orientamento sessuale, contribuiscono, anche per le donne, a definire un’ampia diversità di situazioni che non possono essere sottovalutate. Alla vulnerabilità come condizione ontologica comune, si associa la sua declinazione sociale, che fa sì che alcune vite siano più vulnerabili di altre, che alcune lo siano permanentemente e non sporadicamente, e infine, che alcuni individui siano chiamati più di altri a dare risposta a queste vulnerabilità, come avviene nel caso delle donne, da ultimo migranti, deputate per ragioni sociali e culturali al lavoro di cura[10]. Processi di femminilizzazione e di razzializzazione si intrecciano e vengono compresi alla luce di un nuovo paradigma che rende più complessa la tradizionale ipotesi di un unico asse su cui si strutturano oppressione e mancanza di libertà da una parte, emancipazione e acquisizione di autonomia dall’altra.

Secondo la prospettiva femminista, ad accreditare la falsa rappresentazione degli individui come esseri sovrani, dotati di potere e controllo, considerevolmente rafforzata nella fase attuale, interviene anche la consolidata divisione tra spazio pubblico e spazio privato. Questa separazione restituisce un’immagine dicotomica del soggetto, costituito da due entità separate poste su piani assiologicamente diversi. Per questo motivo si è messo in questione il fatto che i rapporti che si determinano tra le persone nella sfera privata debbano esulare dall’interesse pubblico e non debbano essere presi in considerazione nella costruzione della società, proprio in quanto rapporti non contrattualistici e spesso di non reciprocità. Una teoria politica capace di includere questo importante ambito dell’esistenza umana darebbe maggior valore allo sviluppo delle relazioni sociali, alle relazioni di fiducia e di cura, e potrebbe ripensare, sulla base di esse, le stesse istituzioni politiche e sociali, riconoscendo valore ad attività condivise e relazionali, come suggerisce la riflessione femminista sul versante politico della cura[11]. Questo orientamento include anche la rilevanza del ruolo delle comunità nella vita degli individui, secondo una lettura che sottolinea come la teoria dovrebbe cercare di tenere insieme i due livelli dei progetti comuni e dello sviluppo individuale. «Una visione adeguata degli esseri umani impegnati nella vita personale, politica e sociale non dovrà né assorbirci completamente nei gruppi tradizionali e comunitari, né lasciarci nell’isolamento artificiale dell’individualismo liberale»[12]. L’interpretazione dell’individuo in chiave relazionale rappresenta, a mio parere, una sorta di via mediana rispetto a tre approcci. Innanzitutto, rispetto all’individualismo astratto di origine liberale, che vede nella presenza dell’altro solo un rischio all’accrescersi di autonomia e libertà; in seconda istanza, rispetto agli inevitabili eccessi del comunitarismo olistico, che rischia di risucchiare quell’esperienza di libertà in un abbraccio mortale; da ultimo, rispetto all’ipotesi di un soggetto post-moderno che fluttua tra una declinazione e l’altra, perdendo di vista ogni forma di progettualità e quindi anche di responsabilità individuale, spinto dall’aspirazione narcisistica verso la ricerca di una libertà illimitata. Una soggettività responsabile dovrebbe invece essere in grado, da una parte, di rescindere i legami con le comunità ascritte, avvalendosi di quella che potremmo definire nei termini di una “identità contro”; dall’altra, di creare percorsi individuali di autonomia e libertà, senza dimenticare il legame con gli altri e le altre, nonché con nuove comunità elettive. Gli individui mutano le loro affiliazioni, lasciandone alcune e creandone altre, e in questi loro posizionamenti dall’ascrittivo all’elettivo, da una comunità all’altra, modificano, trasformano e sovvertono i contenuti stessi delle comunità[13]. Affinché questa libertà possa esprimersi, contro stigmatizzazioni, manipolazioni e pressioni morali che ci portano verso una vita inautentica, mimetica e impersonale, verso meccanismi di controllo della sfera più intima che uniformano gli stili di vita, sono necessarie non solo le garanzie costituzionali e l’insieme delle leggi, ma lo sviluppo di un ethos critico, in grado di sottoporre al confronto e al dubbio le certezze della tradizione e del pensare comune.

La cittadinanza moderna, quella che dà sostanza alla dimensione procedurale delle nostre democrazie, non dovrebbe fare a meno dell’esercizio socratico, capace di sfidare la verità convenzionale. Autonomia e libertà si esercitano sfidando la tradizione, in una pratica riflessiva e di scelte deliberate, capaci di esercitare giudizio critico e anticonformismo. Queste disposizioni risultano necessarie alla democrazia, perché capaci di sviluppare individui autonomi e liberi, non solo nella dimensione politica dello Stato e nelle procedure elettorali, ma anche nella sfera del sociale e del privato, la cui valenza è estremamente rilevante per la qualità della democrazia. Non pochi sono i classici che hanno prestato attenzione verso gli aspetti degenerativi dello spazio pubblico, in primo luogo in relazione alla pervasività della mimesi e del conformismo, capaci di minare tanto l’autonomia quanto la libertà. Anche a queste riflessioni occorre oggi ritornare per contrastare attraverso l’elaborazione teorica le nuove sfide poste alla libertà delle donne e alla libertà di tutti.


[1] Si veda a questo proposito: I.M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.

[2] C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Rivolta femminile, Milano 1974, p. 4.

[3] Si veda M.L. Boccia, La differenza politica. Donne e cittadinanza, il Saggiatore, Milano 2002.

[4] Su questo specifico richiamo alla “strategia decostruttiva” si rimanda a: A. Loretoni, Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Donzelli, Roma 2015.

[5] Si veda V. Held, Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Feltrinelli, Milano 1997.

[6]  Cfr. A. Honneth, Lotta per il riconoscimento (1992), il Saggiatore, Milano 2002; A. Honneth e J. Anderson, Autonomia, vulnerabilità, riconoscimento e giustizia, in A. Carnevale e I. Strazzeri (a cura di), Lotte, riconoscimento, diritti, Morlacchi, Perugia 2011.

[7]  Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), in Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989.

[8]  Si vedano J. Nedelsky, Reconceiving Autonomy. Sources, Thoughts, and Possibilities, «Yale Journal of Law and Feminism», 1, 1989/7, pp. 7-36; C. MacKenzie e N. Stolijar (a cura di), Relational Autonomy. Feminist Perspectives on Autonomy, Agency, and the Social Self, Oxford University Press, Oxford 2000.

[9]  M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, il Mulino, Bologna 2007.

[10] Sulla duplice dimensione della vulnerabilità, ontologica e sociale, si veda J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmedia Books, Milano 2013.

[11] Cfr. J. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia 2006.

[12] V. Held, op. cit., p. 98.

[13] Insiste su questo punto S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina, Milano 2006.

Scritto da
Anna Loretoni

Professoressa ordinaria di Filosofia politica e Preside della Classe accademica di scienze sociali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ha svolto attività didattiche e di ricerca a Cambridge (UK), in Germania, negli Stati Uniti, in Cina e in Marocco. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica” (Donzelli 2014), “Pace e progresso in Kant” (ESI 1996) e “Teorie della pace. Teorie della guerra” (ETS 1995).

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