“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari
- 06 Agosto 2019

“La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo” di Massimo Cacciari

Recensione a: Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019, pp. 128, 18 euro, (scheda libro).

Scritto da Federico Diamanti

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L’ultima pubblicazione di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, è introdotta da una brevissima pagina ‘memoriale’ in cui il filosofo racconta, con un’immagine che risalterà in tutta la sua importanza agli occhi del lettore, dove affondano le radici ‘umanistiche’ (nel senso stretto di ‘legate al periodo dell’Umanesimo’) del suo pensiero. Esse – rintracciabili d’altronde in tutta la bibliografia cacciariana – sono però legate ad un anno, in particolare: il 1976. Come è noto, fu l’anno della pubblicazione del primo notevole cimento filosofico dell’autore, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein; ma quello stesso anno vide l’inizio della circolazione di uno dei più importanti e maturi volumi di Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo. Si incontravano dunque, nello stesso lasso di tempo, per una assoluta casualità di natura editoriale, due figure, due volumi e due percorsi di ricerca diversi, con differenti orientamenti e opposte esperienze alle spalle: ma la lettura di Rinascite e rivoluzioni significò qualcosa di più profondo per il filosofo. «Ed ecco che Rinascite mi spalancava di fronte una visione dell’Umanesimo come età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente alla fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma»: il volume con cui Garin supera le «colonne d’Ercole» della tradizionale concezione del Rinascimento (la definizione è di Michele Ciliberto[1]) e compie un passo ulteriore rispetto al suo dialogo con H. Baron a proposito dell’umanesimo ‘civile’ fu dunque il punto di partenza per una ‘cura’ di Cacciari nei confronti del secolo XV e dei suoi protagonisti: una cura che culmina nel saggio su cui qui si presenta una riflessione, già apparso – in forma lievemente meno estesa – come introduzione ad un fondamentale volume antologico del 2017, Umanisti italiani (a cura di R. Ebgi), che contiene un’ottima selezione di testi di epoca umanistica – tradotti e commentati – tuttora difficilmente reperibili in edizioni moderne e ben curate.

Il primo capitolo inquadra la questione della storia delle interpretazioni dell’Umanesimo. Si tratta certamente di un preliminare imprescindibile del libro, poiché è proprio a partire delle varie interpretazioni dell’Umanesimo che Cacciari ha elaborato, nel tempo, intuizioni filosofiche e criteri metodologici nella sua ricerca. Il XV secolo italiano ha subìto, nel corso della storia degli studi, interpretazioni filosofiche varie, perlopiù tese a fungere – per i rispettivi pensatori che le hanno elaborate – da ‘premessa’ per il loro pensiero. Vale per Giovanni Gentile, che dell’umanesimo coglieva i tratti anticipatori del suo immanentismo; così per Cassirer, e per l’importante ruolo culturale (ormai assurto a ‘classico’) di Wilamowitz – che riteneva gli umanisti in senso lato «non affatto filologi, ma esclusivamente letterati, pubblicisti, insegnanti» (Storia della filologia classica, 34) e di Jaeger e della sua paideia[2]. Ma c’è di più. I tratti ‘di pensiero’ degli scrittori dell’umanesimo, ben più profondi di quanto si possa pensare dando retta ad una certa linea interpretativa, quando non del tutto tralasciati a fronte di interessi segnatamente artistici à-la-Burckhardt, sono stati ampiamente tralasciati anche da eminenti studiosi dell’Umanesimo moderni: nota Cacciari come lo stesso P. O. Kristeller, a cui dobbiamo l’elenco ragionato più importante dei manoscritti umanistici italiani ed europei (l’Iter italicum, in 6 volumi, consultando il quale ogni studioso d’Umanesimo deve dare avvio ad una sua qualsiasi ricerca) e numerosi scritti sulle eredità filosofiche nell’Umanesimo italiano, la buona parte degli scritti umanistici «have nothing to do with philosophy even in the vaguest possibile sense of the term». Sarà dunque soltanto mediante un lavoro filologico di scavo nei testi e nei pensieri degli umanisti che emergerà un ben preciso solco filosofico, molto più profondo e lungo di quanto si possa pensare, che muove dall’Umanesimo e affonda nel moderno. Con questo metodo – già collaudato (e pervenuto a grandiosi risultati) da Eugenio Garin e dalla sua scuola – Massimo Cacciari si avvia a dar interpretazione dell’Umanesimo filosofico.

Anche la più riassuntiva vulgata sul periodo umanistico non può prescindere dal dato di ‘riscoperta’ del patrimonio letterario, filosofico e testuale dei ‘classici’. La riscoperta del patrimonio classico determina lo sviluppo di alcune questioni di fondo per l’Umanesimo (grandi domande teoriche e metodologiche, al cui fianco si alimenta un dibattito ed una dialettica tra gli studiosi dell’epoca e contemporanei); Cacciari, nella prima parte del volume, ne evidenzia e discute in particolare due. Il problema della lingua e il problema della filologia. Entrambi sono cruciali anche in relazione alle conclusioni eminentemente storico-filosofiche del volume di Cacciari.

Ciò si comprende perfettamente a partire dalle prime pagine dell’argomentazione del filosofo: il periodo di crisi dell’Umanesimo porta ad una filosofia nuova – «e nuova proprio in quanto consapevole che non si dà idea se non nell’espressione linguistica, che l’idea vale in quanto comunicata con passione e precisione in uno, e che l’idea, nella forma linguistica, è sempre anche immagine, partecipa sempre alle dimensioni metaforiche del linguaggio, il che significa, come vedremo, alla sua sostanza poetica.» (p. 17). L’Umanesimo dunque, e il suo appello alla renovatio del pensiero e dell’azione, muove le sue prerogative filosofiche sui binari di un rinnovato linguaggio. La riflessione sulla lingua parte naturalmente da uno dei padri dell’Umanesimo, Dante: Cacciari, che affonda le radici del suo argomentare in un fondamentale scritto di Giuseppe Toffanin del 1967 (Perché l’Umanesimo comincia con Dante), cerca di individuare i tratti fondamentali di una vera e propria ‘filosofia del linguaggio’ del Quattrocento italiano, che forgia il volgare «come un’arma potente» tenendo a mente «il paradigma fornito dal latino» (p. 19) e che partendo da Dante muove fino alle riflessioni di Valla e dello stesso Marsilio Ficino – su cui rimangono memorabili gli studi di G. Saitta (1923, 1954) – alimentando tramite il linguaggio e le sue implicazioni di pensiero una vera e propria riflessione sul mondo e sulle sue possibili modificazioni.

Ma la riflessione sul linguaggio e la questione della lingua passa inevitabilmente attraverso un approccio ‘filologico’ alla storia e alla letteratura degli antichi. Di nuovo, la riflessione di Cacciari parte da Dante: l’evidenza simbolica della sua parola poetica conserva in sé «l’anima della stessa lingua» (p. 33), ed essa va inevitabilmente – è compito del lettore e dello studioso – ricercata fin nella sua radice più profonda: alla luce di questa ‘missione’, così potremmo definirla, operano i filologi dell’Umanesimo. Filologi di una «filologia che nasce dal thaumazein e si fa interpretazione, esegesi, pensiero proprio» (ibidem): il dibattito sulla filologia, che potrebbe apparire eccessivamente tecnico e distante dallo slancio filosofico del testo di Cacciari, è invece cruciale. In nulla la filologia dell’Umanesimo e degli umanisti è infatti simile alla filologia le cui ‘deformità’ condannava con solenne indignazione Nietzsche: «Proprio invece quella filologia che egli dice di apprezzare, amica del lento, restauratrice metodica del testo da amare, per poterlo poi giustamente giudicare, è propria dell’Umanesimo» (ibidem): sarà dunque ex intimis sapientiae fontibus (Valla) che si svilupperà filologia, e dalla filologia, ovvero dalla cura del testo su cui pensare, la filosofia. La lingua incarnata in parola, la parola incarnata in testo, il pensiero: elementi inscindibili, e imprescindibili premesse all’azione e alla renovatio. Ad esemplificare lo stretto legame tra la riscoperta dei classici, la loro cura e la creazione di un pensiero autonomo (che sarà tutto meno che teorico: ma pratico, da un lato, e riferito al mondo circostante) sono in particolare alcune figure dell’Umanesimo: su tutti, oltre al celeberrimo Valla – che possiamo con Poliziano considerare l’iniziatore della filologia che ancora oggi si studia e si pratica – Leon Battista Alberti: essi fondono nei loro percorsi intellettuali e filosofici le ragioni più profonde dell’Umanesimo.

Se Lorenzo Valla da un lato è la figura dell’«Umanesimo in lotta, critico, fino all’eresia, di ogni forma di sedentaria erudizione, la cui latinitas significa esatta definizione del testo affrontato, chiara memoria del passato che è radice, precisione nell’uso della lingua che in noi vive» (p. 43), Alberti – le cui Intercenales sono fortunatamente a disposizione in due edizioni italiane di grande importanza[3] – riesce ad assommare in sé alcuni tratti di una modernità dirompente, sviluppando un pensiero che troverà altri interpreti nei secoli successivi. Non solo, in lui, emergeva la passione e la forza della parola: di più, il tirocinio ‘architettonico’ sul de Architectura di Vitruvio, garantiva in lui una continua dialettica tra pratica empirica e riflessione teorica: «Se però ci chiedessimo quale disciplina sia la fondamentale per l’architetto umanista, dovremmo indicare proprio la filologia, in quel senso che è emerso dallo studio di Valla. Senza lo studio del testo classico, senza la conoscenza diretta del monumento antico, mai potrà nascere un’architettura cum auctoritate, capace cioè non solo di funzionare e piacere, ma anche di generare nuove forme e dare così vita a una nuova, classica, tradizione» (p. 52). Il pensiero di Alberti, che oltreché nelle Intercenales si sviluppa nei Libri della famiglia, si configura in una visione tragica del presente: il suo ‘occhio’ (p. 55) constata una realtà di drammatica catastrofe e profondo cambiamento: la domanda sull’uomo è, in Alberti, anche una domanda sul ‘dramma condiviso’ (p. 55) dell’epoca sua, che «dà la voce più potente a contraddizioni e conflitti che appartengono alla trama più profonda ed essenziale di tutta questa età» (p. 56).

Come già notato da G. M. Anselmi[4], quel che conta del pensiero umanistico e di Alberti è la sua ricezione moderna: nota Cacciari come «la traccia fondamentale che conta ricostruire è quella che intercorre tra Petrarca, Alberti e Machiavelli, che trova in Valla il senso philosophicus maxime da attribuire a Filologia, e che costituisce, come vedremo, il controcanto necessario, e nient’affatto semplicemente contraddittorio, alle correnti neoplatoniche» (p. 63): di più, l’antidogmatismo tragico di un certo Umanesimo lega Alberti a Leopardi, e apre la strada alla riflessione di Cacciari sull’Umanesimo come età di crisi e di pace impossibile, che occupa gli ultimi due capitoli. In particolare l’ultimo, Una pace impossibile, è dedicato ad un attento lavoro di scandaglio delle principali riletture umanistiche della filosofia antica, e una panoramica sui principali problemi e sulle principali questioni dibattute dai filosofi quattrocenteschi: in particolare, emerge in queste pagine l’impossibilità di una conciliazione tra la linea tragica di Alberti (che arriva fino a Machiavelli) e quella neoplatonica, riletta tramite Pico e Ficino: una questione sì di pace terrena, e conciliazione filosofica, ma altrettanto teologica e ultramondana.

Particolare rilievo, nel volume, assume l’apparato iconografico finale: dall’inquietudine trasmessa da Bosch al carico simbolico di Botticelli, passando per Giorgione, il ragionamento di Cacciari è costantemente accompagnato da riferimenti iconografici e pittorici, tanto più utili quanto più epoche come l’Umanesimo e il Rinascimento sono spesso diffuse mediante l’immagine ‘canonica’ che si ha di esse.

Basti proprio in questo senso un’ultima considerazione: l’assenza quasi completa di sussidi di supporto (dalle edizioni a stampa ai commenti) e lo strabordare di materiale inedito e ancora in attesa di classificazione (basti pensare a grandi o mediocri figure filosofiche, del tutto dimenticate, o quasi, come: Giorgio Gemisto, Teodoro Gaza, Giorgio di Trebisonda) non debbono, e non possono, scoraggiare la ricerca sull’Umanesimo. La paura dell’interdisciplinarità – poiché spesso essa si riduce ad approssimazione superficiale – non può frenare vie nuove di ricerca e studio. Il compito è chiaro, e comporta una riconsiderazione complessiva dell’Umanesimo inteso come fenomeno storico, letterario e intellettuale. Ma va condotto, ciascuno secondo le proprie linee di ricerca (che interpellino letteratura, lingua, storia, filosofia, arte), con uno sguardo nuovo, e comune, su un fenomeno che allora, a chi da pioniere lo trainava, dovette sembrare proprio questo: attraverso gli occhi degli antichi uno sguardo nuovo e dirompente sul mondo contemporaneo, incomprensibile ai soli occhi dei singoli.


[1] M. Ciliberto, introduzione ad E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Laterza, Roma-Bari 1975, (p. XXIV).

[2] Il ruolo del mondo culturale tedesco e del suo rapporto coi classici è ben delineato da L. Canfora, Cultura classica e crisi tedesca, De Donato, Bari 1977.

[3] L’una a cura di F. Bacchelli e L. D’Ascia, l’altra a cura di A. Severi e L. Chines.

[4] In particolare ne L’immaginario e la ragione (Carocci, Roma 2017) sono dedicate al tema dell’eredità dell’umanesimo nei pensatori successivi, settecenteschi e non.

Scritto da
Federico Diamanti

Studente di filologia classica e allievo del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Si occupa di presenze greche nell’umanesimo italiano, rapporti tra intellettuali e potere, della narrativa di Pier Vittorio Tondelli e delle forme poetiche del XX secolo.

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