Scritto da Antonio Francesco Di Lauro, Daniele Molteni
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L’8 dicembre 2024 il regime di Bashar al-Assad in Siria è crollato sotto il peso di un insieme complesso di fattori interni e internazionali, che hanno condotto al rapido sfaldamento di un sistema di potere repressivo durato oltre cinquant’anni, resosi responsabile di sistematiche repressioni e crimini internazionali. Al suo posto, nella capitale di Damasco si è insediato un governo di transizione guidato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), uno dei gruppi dell’ex opposizione armata, di orientamento islamista ma con un passato ideologico di orientamento salafita-jihadista.
Per esplorare le principali cause di questi eventi e le prospettive future per la Siria abbiamo intervistato Silvia Carenzi, ricercatrice associata presso l’ISPI, già Civil War Paths Fellow presso il Centre for the Comparative Study of Civil War dell’University of York e dottoranda in Transnational Governance presso la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna. Ricercatrice specializzata in violenza politica, conflitti, gruppi armati e movimenti islamisti, soprattutto in Siria, Carenzi analizza le origini e le evoluzioni di HTS, che governa la provincia di Idlib dal 2017, ma anche le aspirazioni del popolo siriano evidenziando i limiti delle letture esclusivamente Stato-centriche dei conflitti e dell’uso della categoria di “terrorista”.
Dopo oltre cinquant’anni, il regime siriano della famiglia Assad si è disgregato sotto l’avanzata di una coalizione di gruppi armati ribelli, guidata dal movimento islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Questo gruppo ha rapidamente conquistato le principali città controllate dal regime, costringendo il leader Bashar al-Assad a fuggire dalla capitale. Come è stato possibile un cambiamento tanto radicale in un tempo così breve? Quali sono state le cause principali?
Silvia Carenzi: Quanto è accaduto ha colto di sorpresa molti osservatori soprattutto perché negli ultimi anni si è consolidata una narrativa tesa a normalizzare il regime, sostenuta sia dai Paesi della Lega Araba che da quelli europei, Italia inclusa. Questa narrazione si basava sull’illusione della stabilità di Assad. Dal 2011, con l’inizio della rivoluzione, la militarizzazione della rivolta e la successiva internazionalizzazione del conflitto, molte dinamiche sono cambiate, rendendo evidente l’instabilità del regime. Le stesse forze che sostenevano Assad erano meno motivate a combattere rispetto a quelle dell’ex opposizione armata. In parallelo, mentre l’attenzione internazionale sulla Siria diminuiva, nelle aree del nord-ovest si sono verificati sviluppi significativi. Due date importanti sono il 2016, anno della rottura di Jabhat al-Nusra, precursore di Hayat Tahrir al-Sham, con al-Qaeda, e il marzo 2020, quando un cessate il fuoco mediato da Russia e Turchia nella zona di Idlib ha permesso a HTS di concentrarsi sulla costruzione e il consolidamento delle proprie istituzioni, già attive in forma embrionale da alcuni anni, e sulla professionalizzazione delle forze armate con la creazione di un’accademia militare proprio a Idlib. Inoltre, il contesto regionale ha giocato un ruolo cruciale: da un lato la Russia, impegnata sul fronte ucraino, non è stata in grado di offrire lo stesso supporto che Assad aveva ricevuto nel 2015; dall’altro, l’Iran e i gruppi armati non statali a esso legati si sono trovati ad affrontare difficoltà crescenti, aggravate dalla guerra di Israele contro Gaza e Libano. Rilevante è stato anche il ruolo della Turchia negli ultimi due anni: Ankara ha inviato segnali di apertura verso Assad, ma ogni tentativo di dialogo è naufragato a causa del rifiuto di Assad di sedersi al tavolo senza discutere preliminarmente il ritiro delle truppe turche dal nord. Neppure le aperture dei Paesi della Lega Araba hanno destato risultati concreti. In sintesi, una combinazione di fattori interni, come la perdita di motivazione delle forze pro-regime, e internazionali, tra cui la diminuzione del sostegno da parte di Russia e Iran, ha creato le condizioni per il crollo del regime di Assad.
Le immagini dei primi giorni successivi alla caduta di Assad ritraggono il popolo siriano alle prese con grandi festeggiamenti e con l’abbattimento di qualsiasi simbolo residuo del regime, restituendoci la gioia incontenibile per la liberazione dalla spietatezza assadista. Quali umori, quali paure, al contrario, si respirano nella società riguardo al futuro?
Silvia Carenzi: Per quanto cerchi di fare ricerca sul campo il più possibile, non essendo siriana devo essere consapevole di non poter parlare a nome dei siriani. Tuttavia, quello che ho percepito dalle persone con cui ho interagito è un clima di grande gioia ed euforia. Dopo tutti questi decenni di regime degli Assad, iniziato con Hafez, il padre di Bashar al-Assad, è come se si fosse aperto un orizzonte dove, nonostante le paure e i potenziali rischi, è lecito sperare. Diverse persone che conosco o seguo, quando è caduto il regime, hanno pubblicato sui social network la propria reale foto del profilo, o hanno svelato delle informazioni su di sé, come a dire: “ora non abbiamo più il bavaglio, non abbiamo più paura”. Queste persone prima erano costrette ad utilizzare delle foto di copertura o ad usare dei nickname, spesso temendo che i propri familiari, che ancora vivevano nelle zone controllate dal regime, potessero subire delle ripercussioni. Negli ambienti mediatici europei e occidentali si fatica a cogliere quanto il regime di Assad esercitasse un vero e proprio dominio del terrore, come abbiamo visto dalle immagini e dai report diffusi con la liberazione della prigione di Sednaya. Proprio su questo tema è uscito un libro nel 2023 che si intitola Syrian Gulag. Inside Assad’s Prison System, di Jaber Baker e Ugur Ümit Üngör, che tramite una raccolta di testimonianze offre l’idea del sistema carcerario sotto la dinastia degli Assad. Inizialmente, da Sednaya arrivavano notizie contrastanti; molte fonti autorevoli parlavano di piani sotterranei, diffondendo la speranza che lì potessero esserci prigionieri ancora vivi. In realtà, come annunciato dal direttore esecutivo della Rete siriana per i diritti umani (Syrian Network for Human Rights – SNHR) alla televisione Syria TV, non esisteva alcuna cella sotterranea e tutte le persone scomparse forzatamente erano state uccise dal regime. Dunque, i sentimenti della popolazione sono anche di dolore e rabbia.
Per quanto riguarda il futuro è difficile sbilanciarsi. Vedo tanti paragoni con altre realtà geografiche, dalla Libia, all’Iraq, all’Afghanistan. È naturale, ovviamente, provare a comparare un’esperienza locale con altre realtà geografiche, ma è necessario tenere conto delle differenze. Un aspetto che possiamo evidenziare è che nel caso siriano la linea temporale è stata molto diversa: abbiamo avuto la rivoluzione del 2011, poi la repressione del regime e la militarizzazione della rivolta, sfociata in una guerra internazionalizzata. In due momenti, nel 2013 e nel 2015, Assad è sembrato sul punto di crollare, per poi recuperare terreno soprattutto dopo l’intervento russo; in ogni caso, nel corso degli anni successivi sono sempre rimaste aree (soprattutto nel nord) sotto il controllo territoriale delle opposizioni, sino alla caduta del regime. Nel caso della Libia, il regime di Gheddafi è crollato quasi subito, senza alcun pregresso tentativo di governance delle opposizioni. Rispetto all’Iraq, invece, è importante sottolineare che diversi membri di HTS hanno avuto esperienza in quel Paese. Nei comunicati e nei testi emanati dalla loro leadership, difatti, si fa spesso riferimento all’evitare di commettere gli errori del passato, come in Iraq o addirittura in Algeria, con l’esperienza del Groupe Islamique Armée negli anni Novanta. Una posizione promossa non solo da Abu Muhammad al-Jawlani, attuale leader di HTS, ma ad esempio anche da Abu Maria al-Qahtani, un leader di punta del gruppo ucciso da una cellula dello Stato Islamico nell’aprile 2024, e dal milieu rivoluzionario più in generale. Nelle ultime settimane ci sono stati segnali rassicuranti di apertura, ma bisogna capire come si concretizzeranno.
Proprio questa svolta moderata in seno ad HTS sta consentendo un trasferimento relativamente pacifico del potere. Si tratta di una strategia che non risparmia diversi interrogativi, considerando il passato jihadista del gruppo guidato da Al-Jawlani. Quali sono le origini di questo gruppo e come si è arrivati a questo tipo di transizione?
Silvia Carenzi: Le origini di Jabhat al-Nusra risalgono all’estate del 2011, quando Al-Jawlani e altre figure, sotto mandato di Abu Bakr al-Baghdadi (all’epoca leader dello Stato Islamico dell’Iraq) arrivarono in Siria per fondare una filiale locale. Nel gennaio 2012 il gruppo fu annunciato ufficialmente come Jabhat al-Nuṣra li-ahl al-Sham provando a integrarsi nel tessuto locale già prima che le tensioni con al-Baghdadi esplodessero nel 2013, con la proclamazione unilaterale della fusione tra Stato Islamico dell’Iraq e Jabhat al-Nusra. A questo tentativo di fusione Al-Jawlani rispose con un’azione audace: respinse la decisione e rinnovò la sua fedeltà ad Ayman al-Zawahiri, capo di al-Qaeda, in una scelta di affiliazione interpretata da molti analisti come il tentativo di mantenere la coesione interna ed evitare defezioni. Tuttavia, anche le relazioni tra Jabhat al-Nusra e al-Qaeda erano instabili, aggravate dalla crescente pressione esercitata dai raid aerei statunitensi contro le formazioni jihadiste.
L’anno simbolico per capire come si trasformarono le relazioni tra le forze dell’ambiente rivoluzionario e l’ISIS è il 2014, quando quest’ultimo dichiarò guerra a tutte le formazioni, generando una spirale di violenza e di escalation generalizzata; nell’agosto-settembre dello stesso anno, venne formata la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Con l’intervento militare russo del 2015 a favore di Assad e l’avanzata del regime siriano, nell’ambiente rivoluzionario si iniziò a pensare a come unire le forze, ma i legami di Jabhat al-Nusra con al-Qaeda rappresentavano un ostacolo. Così, nel luglio 2016 Jabhat al-Nusra annunciò ufficialmente la rottura, diventando Jabhat Fath al-Sham; poi nel 2017, una fusione tra Jabhat Fath al-Sham e altre fazioni minori diede vita a Hayat Tahrir al-Sham, diventata egemone nel contesto rivoluzionario dopo aver sconfitto un altro gruppo, Ahrar al-Sham, un altro gruppo armato islamista dell’ambiente rivoluzionario. Il consolidamento della sua leadership, dunque, ha permesso ad HTS di evolversi e distaccarsi dalle sue origini jihadiste, in favore di una strategia mirata a guadagnare consenso a livello locale e internazionale.
Per comprendere l’evoluzione di HTS, può essere utile considerare proprio Ahrar al-Sham, il cui percorso condivide similitudini con quello di HTS, ma è meno conosciuto nei media europei. Nato come gruppo rivoluzionario locale ma con al proprio interno figure di leadership legate al milieu del salafismo-jihadismo e, in alcuni casi, con esperienze dirette in Afghanistan, Ahrar al-Sham ha sperimentato un processo di revisione ideologica che lo ha gradualmente portato a distaccarsi dal salafismo-jihadismo. Nel 2014, tuttavia, un’esplosione – ancora oggi di responsabilità incerta – uccise gran parte della leadership di Ahrar al-Sham, che, privato delle sue figure carismatiche, negli anni successivi non riuscì ad affermarsi come forza locale predominante.
Ripercorrere queste tappe è fondamentale per comprendere le differenze tra i gruppi appartenenti a varie galassie rivoluzionarie, che si distinguono non solo per struttura, ma anche per obiettivi. Partendo dall’esperienza governativa nella provincia di Idlib, cosa dovremmo o potremmo aspettarci dalla strategia di governo di transizione di Muhammad al-Bashir a Damasco? È verosimile che il modello amministrativo di Idlib venga applicato al resto della Siria?
Silvia Carenzi: Un fattore rilevante è che nell’autunno del 2017 il gruppo aveva già dato vita al Governo di Salvezza Siriano nella provincia di Idlib, caratterizzato da una struttura quasi tecnocratica e composto anche da figure con una parziale autonomia, non necessariamente legate al gruppo islamista ma anche alle élite locali. Grazie a questa sintesi e a una governance pragmatica, soprattutto dopo il 2020, la provincia di Idlib ha assistito a importanti cambiamenti: sono diminuite le interferenze nella vita della popolazione locale; nella società civile è emerso un clima di crescente apertura; ci sono state maggiori aperture verso le minoranze religiose, come la comunità cristiana; inoltre, è stata posta enfasi sullo sviluppo delle istituzioni. Un ulteriore elemento cruciale riguarda poi il consenso: l’offensiva lanciata da HTS ai danni di Assad sembra aver goduto di un ampio sostegno popolare. Da un punto di vista empirico, basandomi su ricerche e conversazioni informali che ho condotto dal lato turco del confine, posso dire che i cambiamenti nella governance di Idlib – soprattutto con il passaggio dalla simbologia legata al salafismo-jihadismo all’islamismo rivoluzionario da parte di HTS – abbiano già influenzato la base di supporto potenziale del gruppo. Se le criticità non sono mancate, e proprio a partire dallo scorso febbraio ci sono state proteste a Idlib, è anche vero che diversi segmenti della popolazione sembravano preferire l’efficienza e la convenienza di questo modello rispetto alle altre alternative esistenti. Il Governo di transizione di Damasco, che dovrebbe restare in carica fino al marzo 2025, con il primo ministro Muhammad al-Bashir proveniente dal Governo di Salvezza, sembra abbia al suo interno gli stessi ministri di base a Idlib. Resta da vedere come questa leadership saprà adattare il proprio approccio per consolidare il controllo su territori più vasti e diversificati.
Le forze siriane anti-Assad che hanno preso il potere non si limitano a HTS: si tratta di una moltitudine di gruppi, ciascuno con posizionamenti e interessi strategici specifici. Quali sono esattamente questi gruppi, quali obiettivi perseguono?
Silvia Carenzi: Oltre a HTS, il fronte rivoluzionario è composto da numerosi attori, alcuni dei quali hanno partecipato all’Operations Room (o comando operativo) con sede a Idlib, creato per l’offensiva “Deterrenza dell’Aggressione” che ha portato alla presa di Damasco. Alcune di queste formazioni hanno operato sotto la sigla dell’Esercito Siriano Libero indipendente, come Jaysh al-‘Izza, il gruppo che includeva Abdul Baset Al-Sarout, figura simbolo della rivoluzione. Altri provengono dall’Esercito Nazionale Siriano (Syrian National Army – SNA), ma hanno fatto parte del comando di Idlib. L’SNA, in particolare, si è formato attraverso una ristrutturazione delle forze rivoluzionarie in seguito alle operazioni militari turche a partire dal 2016, e descriverla come una coalizione prettamente islamista, come spesso accade, è fuorviante. In realtà, si tratta di una sigla ombrello che racchiude gruppi molto diversi, come le brigate Sultan Murad e Sultan Suleiman Shah o la divisione Hamza, che mantengono stretti legami con la Turchia e includono elementi simbolici afferenti all’identità turkmena e/o al panturchismo. Vi sono poi gruppi radicati nelle regioni orientali del Paese, come Jaysh al-Sharqiya e Ahrar al-Sharqiya, ed esperienze come quella di Firqat al-Mu’tasim, un gruppo rivoluzionario affiliato all’Esercito Siriano Libero. Vi è al-Jabha al-Shamiyya, che rappresenta l’evoluzione dello storico gruppo di Abdul Qader Saleh, Liwa’ al-Tawhid. Considerare questi attori come parte di un unico ombrello ma distinti è utile per coglierne l’eterogeneità: ciascuno di essi ha simboli, peculiarità e basi territoriali specifiche. L’offensiva responsabile della caduta del regime di Assad, in cui convergono diversi di questi gruppi, rappresenta, sia sul piano militare che simbolico, un momento di unione tra i rivoluzionari dopo anni di conflitti interni. Una delle principali sfide future sarà quella di garantire spazio alle diverse voci e allo stesso tempo garantire una certa coesione.
Quali aspetti, eventualmente, finiscono per conferire ad alcuni di queste sigle lo status di terroristi da parte di alcuni attori internazionali? Quanto è utile questa categoria interpretativa ai fini di spiegare questo tipo di fenomeni?
Silvia Carenzi: Il mio approccio si rifà alla scuola critica degli studi sulla violenza politica; dunque, nel corso degli anni ho maturato una prospettiva che mi ha portata a evitare del tutto l’uso di questi termini perché, come sottolineano studiosi come Donatella della Porta o Lorenzo Bosi, si tratta di etichette altamente politicizzate e utilizzate principalmente per delegittimare un determinato attore. Certo, alcuni studiosi ricorrono a queste categorie, ma personalmente le trovo problematiche e poco utili per comprendere a fondo il comportamento degli attori coinvolti. Invece di parlare di terrorismo, è bene adottare concetti più ampi e neutri come “violenza politica”, che può essere sia statuale che non statuale, o termini come “lotta armata”. Questo approccio, a mio parere, consente di analizzare i fenomeni in modo più obiettivo per valutare le azioni di specifici gruppi. Per documentare le violazioni e i comportamenti di questi attori, inoltre, preferisco affidarmi a fonti come i report della già citata Rete siriana per i diritti umani (SNHR), che si basano su testimonianze locali e offrono una visione più articolata e concreta della situazione. Anche in questa fase la SNHR continua a raccogliere dati e verificare testimonianze. Subito dopo la presa del potere, ad esempio, è stato diffuso alcune raccomandazioni rivolte ai gruppi dell’ex opposizione armata e alle nuove autorità. Sarà interessante osservare come verranno implementate e quale impatto avranno sul campo.
Come si inserisce il rovesciamento del regime di Assad nel complesso sistema di alleanze regionali che coinvolgono la Siria? E come si spiegano le recenti iniziative di alcuni Paesi europei, che hanno espresso preoccupazione per gli eventi siriani ma sospeso rapidamente l’esame delle richieste di asilo?
Silvia Carenzi: Già poco dopo la caduta del regime un comunicato del Dipartimento degli Affari Politici legato alle nuove autorità ha reso noto un incontro con rappresentanti di vari Paesi del Medio Oriente allargato. Tra questi, il Qatar si è mosso rapidamente, stabilendo contatti e offrendo aiuti umanitari. In Europa, un caso interessante riguarda l’Italia, che è stato il primo Paese europeo a stabilire contatti. Questo può sembrare paradossale, considerando che l’Italia era stata uno dei promotori del processo di normalizzazione con Assad e aveva persino nominato un nuovo ambasciatore a Damasco. Tuttavia, proprio grazie alla presenza dell’ambasciatore sul posto, l’Italia potrebbe aver scelto di agire in un’ottica di continuità e transizione verso il nuovo contesto. Sul piano europeo è emersa la questione dei rifugiati e del loro rientro, che è stata fortemente influenzata dai partiti che hanno utilizzato il cambio di regime come pretesto per giustificare la decisione di considerare la Siria una destinazione sicura e, di conseguenza, sospendere le richieste d’asilo per non affrontare seriamente il problema della tutela dei cittadini siriani.
Un altro attore rilevante è ovviamente la Russia, tradizionale alleata di Assad, verso cui le nuove autorità siriane hanno diffuso comunicati rassicuranti, cercando di mantenere un approccio pragmatico. Ma l’incognita più rilevante è rappresentata da Israele, che ha intensificato la sua espansione oltre le alture del Golan occupato e ha lanciato uno dei più massicci attacchi contro obiettivi in Siria, colpendo buona parte dei depositi di armi. Per ora, il nuovo governo di Damasco ha dichiarato di essere concentrato sulla ricostruzione del Paese e di non avere interesse ad aprire nuovi conflitti considerando le molte sfide interne che deve affrontare – e ciò vale anche nei confronti di Israele. Il leader di HTS al-Jawlani, che nell’ultimo periodo ha ricominciato a farsi chiamare con il suo vero nome, Ahmad al-Sharaa, ha recentemente dichiarato di impegnarsi a rispettare l’accordo con Israele del 1974. La priorità delle nuove autorità è quella di costruire una legittimità sia a livello locale, rassicurando quelle comunità ancora timorose, sia a livello internazionale, dimostrando un reale cambiamento che possa favorire il dialogo con altri Stati.
Mentre nel discorso pubblico aumentano le preoccupazioni sulle possibili azioni future dei cosiddetti ribelli, le azioni più preoccupanti e sembrano quelle legate ai bombardamenti nel Paese da parte di Turchia, Stati Uniti e Israele, che, come è stato sottolineato, sta occupando una parte della zona cuscinetto oltre il confine siriano. Che tipo di relazioni esistono, invece, tra il nuovo governo e le altre formazioni che agiscono in Siria, come le Syrian Democratic Forces (SDF) a maggioranza curda?
Silvia Carenzi: Uno dei grandi interrogativi per il futuro riguarda proprio le articolate relazioni tra le nuove autorità e le altre forze dell’ex opposizione che attualmente sono fuori dal quadro di governo. Le aree del nord della Siria, come il nord di Aleppo, erano tradizionalmente sotto il controllo del Governo ad Interim e dei gruppi dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA), sostenuti dalla Turchia. Prima degli eventi recenti, queste zone avevano una struttura di governance distinta rispetto al Governo di Salvezza. La domanda è se il Governo ad Interim si fonderà con il nuovo governo di transizione o se alcuni dei suoi membri saranno incorporati in un nuovo patto politico-sociale. È interessante notare come le relazioni tra le Syrian Democratic Forces (SDF) e HTS siano più distese rispetto a quelle tra SDF e SNA, perché HTS non ha mai condotto operazioni militari dirette nelle zone curde a differenza dell’SNA. In tal senso, episodi significativi sono avvenuti nel 2023, quando si sono registrati contatti e incontri tra autorità collegate a SDF e HTS o alle rispettive strutture di governance. Più recentemente, a Deir ez-Zor, una componente fuoriuscita dalle SDF ha dichiarato di volersi affiliare a HTS, portando l’area sotto il controllo di forze allineate a quest’ultimo gruppo. Questo sviluppo si inserisce nel contesto di un diffuso malcontento, soprattutto tra le componenti arabe locali, verso le politiche delle SDF.
A proposito del sostegno esterno alle diverse formazioni, in una concezione neorealista delle relazioni internazionali spesso si tende a reputare come unici attori degni di particolare attenzione gli Stati, tra cui quelli che in questo caso via via sono intervenuti a favore o contro il regime di Assad. L’ormai ex presidente, in un’intervista alla giornalista Monica Maggioni nel 2019, dichiarò che la guerra in Siria non poteva considerarsi una vera guerra civile, poiché era alimentata da Stati estranei al contesto siriano e al suo popolo. Un tentativo di togliere autonomia e volontà alla popolazione, che vediamo replicato da diverse analisi geopolitiche. Come considera queste analisi, e quali sono i limiti di questa impostazione?
Silvia Carenzi: Questo è stato uno degli equivoci che ha alimentato l’illusione della stabilità. In molte analisi, soprattutto nei media italiani, è evidente una tendenza Stato-centrica che porta a fermarsi al livello macro delle relazioni internazionali. Ovviamente, lo Stato è un elemento imprescindibile da analizzare, ma è altrettanto fondamentale guardare al suo interno per una comprensione a livello meso degli aspetti organizzativi di tutti i gruppi presenti, armati e non armati. Anche una prospettiva a livello micro aiuta, inoltre, a capire le dinamiche sottotraccia che riguardano la popolazione, l’organizzazione dal basso e le strutture politico-militari. Per il futuro, una lente che prenda in esame solo elementi macro è destinata a non essere abbastanza efficace in termini di analisi ed è necessario unire queste tre dimensioni, anche se ovviamente non è sempre facile farlo. Certamente è necessario considerare l’azione degli Stati, e anche questi gruppi lo fanno, ma ciò non nega una agency degli attori che si muovono a livello substatale. Portare continuamente in secondo piano questa dinamica o, peggio, non prenderla in considerazione, non permette di cogliere fenomeni spesso cruciali.