Scritto da Luca Picotti
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La saga politico-giuridica di TikTok sembra avere raggiunto un primo capolinea, sebbene non definitivo, bensì prodromico ad una nuova fase. L’applicazione è stata infatti oscurata dagli store americani per quasi un giorno, prima di essere riattivata. Una storia, quella dell’app cinese negli Stati Uniti, sin da subito travagliata: dal suo lancio nel 2018 ad oggi, sono passate la normativa sugli investimenti esteri (CFIUS), quella sulle sanzioni (IEEPA), una legge ad hoc per impedire le attività dell’app negli Stati Uniti qualora non fossero state cedute ad una società non cinese (legge “divest or ban”), l’impugnazione della legge davanti alla Corte d’Appello della Columbia (“Denied”), il ricorso innanzi alla Corte Suprema (“the judgment is affirmed”), lo spirare, il 19 gennaio 2025, del termine per cedere l’app, la decisione rimessa a Donald Trump con l’insediamento il 20 gennaio e l’ulteriore, irrituale, proroga di 75 giorni accordata dal tycoon. Come si è arrivati a questo esito?
Dal lancio di TikTok al Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act.
Tutto inizia tra il 2017 e il 2018, quando ByteDance acquisisce Musical.ly e lancia TikTok, applicazione di video brevi che conquisterà da lì a poco i consumatori occidentali, con una utenza che negli Stati Uniti supera oggi i 170 milioni. E da dove arriva ByteDance? Nonostante la complessa articolazione societaria, l’headquarter, ossia il centro operativo ove vengono assunte le decisioni, si trovano gli ingegneri e si sviluppano i codici sorgente, si trova a Pechino. Da qui poi si dispiega la particolare piramide del gruppo: la capogruppo, ByteDance Ltd., è incorporata nelle isole Cayman; questa controlla TikTok Ltd., anch’essa incorporata nelle isole Cayman, deputata alla gestione globale della piattaforma, eccetto che in Cina, ove non opera TikTok ma il suo gemello con caratteristiche cinesi Douyin; TikTok Ltd. controlla a sua volta TikTok LLC, sussidiaria incorporata negli Stati Uniti, che a sua volta controlla TikTok, Inc., anch’essa incorporata negli Stati Uniti, in California, e che provvede a fornire il servizio agli utenti. Un’articolazione nelle varie giurisdizioni, ma con cuore operativo e tecnologico in Cina. Già nel 2019, ad un anno dal lancio dell’app, iniziano a essere sollevate alcune preoccupazioni di sicurezza nazionale: per la prima volta un social network cinese è stato in grado di penetrare i mercati occidentali, intercettandone i gusti, con tutte le relative implicazioni in termini di disponibilità dei dati sensibili dei cittadini e potenziali operazioni di manipolazione, fattispecie che non rilevavano, o comunque rilevavano di meno, quando il monopolio delle piattaforme tecnologiche era esclusivamente a stelle e strisce.
Da qui, l’utilizzo da parte degli Stati Uniti di tutto il proprio armamentario giuridico, come ben raccontato da Alessandro Aresu nella sua storia di TikTok in francese sulla rivista internazionale Le Grand Continent. Nel 2020 Trump esercita sia i poteri conferitegli dalla normativa sugli investimenti esteri (per semplicità, CFIUS), intervenendo retroattivamente sulla acquisizione di Musical.ly da parte di ByteDance e ordinando alla società cinese di cedere tutte le proprie attività negli Stati Uniti, che i poteri previsti da una delle principali basi giuridiche sulle sanzioni (IEEPA), nel tentativo di proibire certe transazioni con ByteDance e le sue sussidiarie. Entrambe le iniziative si riveleranno fallimentari: l’ordine di disinvestire incontrerà le difficoltà nel trovare un acquirente e sarà più volte prorogato; le sanzioni si imbatteranno nello stop da parte delle corti per eccesso di autorità. Nel mentre, il cambio di testimone da Trump a Biden conduce ad un nuovo approccio e nuove trattative, nell’obiettivo di trovare un compromesso per mantenere attivo il social, sino all’ultimo National Security Agreement (NSA) proposto da TikTok nel 2022: la creazione di una nuova entità, TikTok U.S. Data Security Inc. (TTUSDS), per separarne l’operatività da ByteDance, con management approvato dal governo; dei limiti alla trasmissione dei dati alla casa madre; la previsione di una figura terza (“trusted third party”), Oracle, legittimata a revisionare il codice sorgente; il potere in capo al governo di attivare, al verificarsi di certe circostanze, la clausola “kill switch”, ossia disattivare la piattaforma negli Stati Uniti.
Ciononostante, Biden ha ritenuto gli sforzi non sufficienti e il 24 aprile 2024 è entrato in vigore il Protecting Americans from Foreign Adversary Controlled Applications Act: in estrema sintesi, o ByteDance cede le proprie attività negli Stati Uniti ad una società non cinese, oppure vi sarà il ban dell’applicazione a partire dal 19 gennaio 2025, salvo la possibilità di una proroga di 90 giorni in pendenza di trattative.
L’impugnazione davanti alla Corte della Columbia e la conferma della legittimità della legge “Divest or ban”
TikTok, Inc., la casa madre cinese ByteDance Ltd. e alcuni utenti del social (i “creator”) hanno impugnato la legge. Tra le censure invocate? La violazione del primo emendamento sulla libertà d’espressione. Il 6 dicembre la Corte d’Appello del distretto della Columbia ne ha però confermato la legittimità, con diverse riflessioni interessanti ed esemplificative del rapporto tra diritto, politica e tecnologia.
L’elemento centrale dell’argomentazione dei giudici è, da un lato, la discrezionalità, nonché competenza, del governo in materia di sicurezza nazionale; dall’altro, la valorizzazione del controllo straniero, e in particolare di una società di un paese rivale, dell’applicazione, anche e soprattutto alla luce della subordinazione delle imprese cinesi alle direttive del Partito. La legge impugnata non comprime la libertà d’espressione, sostengono i giudici, ma tutela l’indipendenza del mezzo (la piattaforma) dal controllo straniero: sicché, qualora ByteDance cedesse l’asset, l’applicazione continuerebbe a operare senza alcun limite alla libertà di parola. E per quanto riguarda le proposte di TikTok nell’NSA? La Corte in merito ritiene che il governo ha ben argomentato come tali condizioni siano insufficienti a garantire una reale indipendenza dalla casa madre, a partire dalla trasmissione dei dati, dalla difficoltà nella compliance e inaffidabilità dell’interlocutore; inoltre, per quanto riguarda l’obiezione di TikTok sul fatto che trattasi di ipotesi speculative, i giudici hanno affermato che il governo “non deve aspettare che il rischio si materializzi prima di agire”. Ancora, sui diversi altri profili secondari, è stato ricordato che non vi è un trattamento discriminatorio verso TikTok, bensì solo la circostanza che questo, a differenza delle altre realtà, sia controllato da una potenza straniera; oppure, che nel caso di specie non vengono incisi i diritti di proprietà, dal momento che la legge non determina una indebita espropriazione, ma semplicemente ordina di cedere, verso corrispettivo e dunque secondo logiche di mercato, le attività.
Va da sé che non è così semplice la cessione. Vi sono in particolare tre profili problematici. In primo luogo, l’asset ha un valore di mercato notevole; in secondo luogo, e collegato al primo, le uniche realtà che potrebbero acquistarlo solleverebbero potenziali problemi di antitrust; infine, non è detto che Pechino permetta una simile operazione, che potrebbe tradursi in un trasferimento di tecnologia soggetto a controlli. Da indiscrezioni di Bloomberg, poi smentite, è emerso il nome di Musk come possibile acquirente. Se, astrattamente, il fondatore di Tesla può superare il primo ostacolo (il costo dell’operazione), disponendo delle risorse necessarie, e forse addirittura anche il terzo ostacolo (il consenso di Pechino), stante i buoni rapporti con la Cina, rimarrebbe – enorme e ingombrante – il secondo ostacolo, ossia quello dell’antitrust: Musk, già proprietario della piattaforma X, se acquisisse le attività americane di TikTok porrebbe in essere una concentrazione piuttosto problematica a livello concorrenziale. Questo per rendere l’idea delle difficoltà nel trovare un ipotetico acquirente.
Il ricorso alla Suprema Corte e la conferma della validità della legge a due giorni dallo spirare del termine
Tiktok e i creator hanno optato per adire la Suprema Corte, che ha fissato un’udienza il 10 gennaio 2025 per ascoltare gli argomenti delle parti. Dopodiché, sono passati diversi giorni nell’incertezza, con la deadline del 19 gennaio sempre più vicina. Alla fine, la Corte è riuscita a pronunciarsi il 17 gennaio, a due giorni dal termine, eliminando così ogni dubbio sulla validità del ban: difatti, è stata ribadita la legittimità della legge e confermato l’arresto della Corte della Columbia.
La Suprema Corte riprende sostanzialmente gli argomenti già avanzati da quest’ultima. In particolare, la questione ruota proprio attorno ad un gioco di prospettive. I giudici affermano che l’oggetto di cui si controverte non è la libertà d’espressione – ossia un tentativo di limitarla – bensì il controllo straniero del “mezzo”, ovvero la piattaforma, tale da porre criticità in termini di sicurezza nazionale. Il focus è sul controllo cinese della piattaforma, non su ciò che si dice al suo interno o qualsivoglia profilo di regolazione della libertà d’espressione. Difatti, suggeriscono in modo più o meno esplicito i giudici, la legge pone una alternativa al ban, ossia la cessione delle attività, a riprova del fatto che il problema è il controllo, non l’esistenza in sé della piattaforma, che ben potrebbe continuare a operare se fosse ceduta a soggetti non cinesi. Trattasi, afferma la Suprema Corte, di una legge neutrale rispetto ai contenuti, bensì semplicemente finalizzata a evitare che chi controlla il mezzo possa compiere atti pregiudizievoli per la sicurezza nazionale. Il che deriva dalla “caratteristica speciale” di TikTok, ossia il fatto che una potenza straniera (la Cina, che ha poteri sulle proprie imprese) può utilizzare il controllo sulla piattaforma per carpire milioni di dati o porre in essere operazioni manipolatorie, circostanza unica che giustifica il trattamento “ad hoc” riservato a TikTok e tale da rendere inconferenti le lamentele sulla presunta discriminazione. Infine, rispetto alle alternative meno radicali, anche alla luce degli NSA proposti dalla società, la Corte riconosce la prospettiva del governo laddove questo ha ritenuto le stesse inidonee a scongiurare i rischi di sicurezza nazionale, a partire dalla collezione indebita di dati.
La deadline di TikTok e di Biden: la palla passa a Trump con l’insediamento il 20 gennaio
Siamo dunque al 17 gennaio. Va detto, in via di premessa, che il ban è una misura estremamente impopolare, dato il successo che ha riscosso l’applicazione negli Stati Uniti (e forse tale successo è una delle ragioni di preoccupazione dell’amministrazione). Si poteva provare a evitare una ipotesi così radicale come il ban trovando delle condizioni di esistenza della società a partire dall’ultimo NSA proposto? Difficile dirlo. L’elemento che pare più rilevare, anche a leggere le motivazioni dei giudici, è che non è sufficiente la mera separazione delle scatole societarie all’interno del medesimo gruppo, con le attività americane gestite tramite una società di diritto americano. Il controllo da parte della casa madre cinese è qui reputato come dirimente, fonte potenziale di rischi e trasmissioni indebite di dati. Non sembra rimanere, nell’ottica del governo, validata dai giudici, che la separazione netta, con cessione del controllo ad un soggetto non cinese, e la necessità dunque di una ricerca seria, effettiva, di un acquirente in grado di rilevare le sole attività americane, con espunzione definitiva di ByteDance dal controllo. Ammesso, però, che una applicazione che si basa sullo stesso algoritmo, codice sorgente, tecnologia, possa realmente sopravvivere a tale cesura. In ogni caso, come si diceva, la cessione era ed è una strada complessa per diversi motivi.
Dopodiché, per riprendere il corso degli eventi, la vicenda è ulteriormente complicata dal fatto che il 19 è la deadline non solo per TikTok, ma anche per Joe Biden. Difatti, il 17 gennaio, a poche ore dalla decisione definitiva della Suprema Corte, il presidente in carica, rimarcando la propria posizione a difesa della legge, lascia la palla in mano a Trump, il cui insediamento è il 20 gennaio, per la sua implementazione. Da subito un’incognita, dato che Trump già in campagna elettorale si era detto contrario al ban. Il che è paradossale, considerato che nel 2020 fu proprio il Tycoon a iniziare la guerra giuridica contro TikTok. Rimane però il fatto che diversi suoi finanziatori hanno legami finanziari con ByteDance e il ban è una misura piuttosto impopolare. La stessa TikTok, appena oscurata, ha espresso le proprie speranze nel tycoon, diventato, dunque, da principale nemico di TikTok a suo ultimo salvagente
Così, il presidente neoeletto, una volta insediatosi, ha concesso una proroga di 75 giorni per vagliare delle alternative. Un intervento a ben vedere inusuale, considerato che trattasi di una legge del Congresso, unico legittimata a sconfessarla, ad esempio abrogandola, mentre una mancata implementazione da parte del presidente sarebbe a dir poco controversa. Il presidente, come poteri, poteva accordare una proroga di 90 giorni in pendenza di serie trattative entro il 19 gennaio. Una proroga accordata il 20 gennaio, arbitrariamente fissata a 75 giorni, senza nemmeno trattative serie in essere, ma giustificata dal semplice fatto che con l’insediamento il giorno dopo lo spirare del termine il neopresidente non aveva potuto valutare appieno la questione, è abbastanza irrituale, se non proprio viziata.
In ogni caso, ciò posticipa senza risolvere niente, date le difficoltà, da un lato, nel trovare un acquirente, dall’altro di individuare compromessi, come negli NSA, che rendano compatibile il controllo di ByteDance con le problematiche di sicurezza nazionale riscontrate dal Congresso e dal governo e riconosciute dai giudici. Salvo non sconfessarle, il che però si tradurrebbe in un dietrofront pesante in termini di credibilità e valore della categoria di national security, quasi ad ammettere che la piattaforma controllata da ByteDance non è poi così pericolosa. Le uniche soluzioni coerenti con il castello della sicurezza nazionale sono il ban o la cessione netta da parte della casa madre cinese: eventuali ipotesi di sopravvivenza dell’app, magari tramite tutele e accorgimenti come quelli previsti negli NSA, ma con il controllo ancora in capo a ByteDance, minerebbero alla radice la narrazione che ha prevalso nel congresso e nelle corti. In questo senso, la soluzione suggerita da Trump di una joint venture al 50% con una società americana lascia numerose perplessità, dal momento che nulla dice sul vero tema: a chi sarebbe affidato il controllo? Su questo si gioca la credibilità del sistema. Sicché, nel contesto di tale profondo e contraddittorio intreccio, non rimane che aspettare per capire quale sarà l’esito definitivo della saga politico-giuridica di TikTok.