Scritto da Silvia Righi
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La sentenza della Corte Costituzionale tedesca sul programma di acquisti dei titoli di Stato (PSPP) della Banca centrale europea – il Quantitative Easing, cioè la parte principale del whatever it takes di Mario Draghi – era attesa per marzo, ma la pandemia di Covid-19 l’ha posticipata al 4 maggio. Il verdetto è già oggetto di numerose discussioni, e sarà al centro di molteplici interventi dottrinali, ma ha in sé anche potenziali implicazioni politico-sistemiche per l’Unione europea che non attendono le analisi degli esperti. Le reazioni “esterrefatte” sono rimbalzate da una capitale dell’eurozona all’altra, inclusa Berlino: la rivista der Spiegel ha intitolato uno dei suoi commenti “Dieses Urteil ist ein Attentat”[1]; Katarina Barley, esponente del partito socialdemocratico tedesco, ha parlato al Passauer Neue Presse di un “segnale fatale”; l’esperto di diritto europeo Franz Mayer ha paragonato la sentenza a una “bomba atomica”.
COSA DICE LA SENTENZA
I giudici di Karlsruhe hanno, in un sol colpo, attaccato l’indipendenza delle due istituzioni davvero sovranazionali dell’UE: la Banca Centrale Europea (BCE) e la Corte di Giustizia dell’UE (CGUE). Essi hanno infatti avocato a sé il controllo circa la legalità, rispetto al principio di attribuzione delle competenze, dell’azione della BCE in riferimento agli interventi di Quantitative Easing (QE). Controllo già effettuato dalla Corte di Giustizia, che, nel 2018, aveva emesso verdetto positivo.
In un passaggio particolarmente brutale, la Corte costituzionale tedesca (BVG) ha dichiarato che tale verdetto sarebbe “incomprensibile”, laddove trova che le decisioni della BCE sul PSPP soddisfino il principio di proporzionalità (che si applica al riparto di competenze tra Unione e Stati membri), ed “insostenibile dal punto di vista metodologico”, poiché ignora gli effetti che le stesse decisioni – di politica monetaria – hanno sulla politica economica.
Nel merito, dopo aver affermato che le decisioni della BCE sul PSPP sono state prese andando oltre i poteri attribuiti (ultra vires), la BVG ammette che ciò possa avvenire in circostanze particolari, ma aggiunge che in tali circostanze gli Stati membri non possono completamente esimersi dal condurre un controllo giurisdizionale. Ciò equivarrebbe a che l’Unione possa di fatto autodeterminarsi, espandendo le proprie competenze oltre quanto previsto dai Trattati. La BVG afferma quindi – e in questo non si discosta della sentenza della CGUE del 2018 – che il QE non viola il divieto, espresso dai Trattati all’art. 123 TFUE, di finanziamento dei bilanci degli Stati membri tramite l’acquisto diretto di titoli nazionali: il programma è costruito seguendo una serie di condizioni che assicurano il mantenimento di solide politiche di bilancio. Aggiunge però, dopo aver affermato che il Governo e il Parlamento federali avrebbero dovuto agire preventivamente in questo senso, che entro tre mesi la BCE deve dimostrare che il “secondo slot” del PSPP sia proporzionato agli obiettivi dichiarati di politica monetaria (cioè il mantenimento di un livello stabile di inflazione, inferiore ma vicino al 2%), anche in relazione ai suoi effetti sulla politica economica.
In mancanza di delucidazioni considerate soddisfacenti sotto questo profilo dalla BVG, essa considererebbe che il QE violi il principio democratico per come previsto nella Legge fondamentale tedesca, che affida la piena responsabilità di bilancio al Bundestag (in quanto emanazione pienamente rappresentativa della volontà popolare). In questo caso, quindi, il Governo e il Parlamento tedeschi (e quindi la Bundesbank) dovrebbero di fatto uscire dal programma, nonché rivendere i titoli acquistati nell’ambito dello stesso dalla Banca centrale tedesca.
Il colpo assestato all’indipendenza della BCE risulta immediatamente evidente; così come quello al primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale, al punto che il giudice di Karlsruhe esplicita che la sentenza della CGUE sul QE non ha validità sul territorio tedesco. Pare quindi direttamente messo in discussione il principale pilastro su cui poggia il processo di integrazione europea – in definitiva, la stessa Unione.
Prima di procedere oltre, è però indispensabile ricordare che la sentenza emessa dal giudice costituzionale tedesco si innesta su un confronto avviato da tempo tra le due Corti in esame.
IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UE E IL GIUDICE DI KARLSRUHE
Nei primi anni dopo la fondazione delle Comunità europee, la Corte di Giustizia ha svolto un ruolo fondamentale – spesso indicato come pionieristico, ma che potremmo definire di attivismo quasi-politico – nell’avanzamento del processo di integrazione. Tra i passaggi fondamentali vi è senza dubbio l’affermazione, da parte della CGUE, del primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale (tramite il caso Costa-vs-Enel del 1964). Ciò ha determinato l’emanazione di numerose sentenze della BVG – come anche della Corte costituzionale italiana, che ha sviluppato la cosiddetta “teoria dei controlimiti”[2]. In sintesi, pur riconoscendo il primato, il giudice tedesco vi ha posto come limite il controllo ultimo “residuale” sugli atti dell’Unione per quanto concerne il rispetto dei diritti fondamentali dei propri cittadini (sentenza Solange I e II) e su quelli ultra vires, nel caso in cui la violazione risulti persistente e quindi tale da prefigurare una svolta strutturale da parte delle istituzioni europee (Bananen). La BVG non ha però mai individuato condizioni chiare per l’applicazione di questo controllo di ultima istanza, preservandosi, di fatto, un margine discrezionale.
Sono seguite a queste le due sentenze con cui la BVG ha dato il via libera alla ratifica, da parte tedesca, tanto del Trattato di Maastricht quanto di quello di Lisbona. In entrambi i casi – che possono in quest’ottica considerarsi come i precursori dell’ultima sentenza – la BVG ha sottoposto l’Unione a controllo anche sul piano dell’attuazione del principio democratico: esso è rispettato solo nella misura in cui il Bundestag mantiene il suo ruolo di decisore politico ultimo, salvo per le funzioni non espressamente delegate all’Unione. Nella seconda delle due sentenze, il famoso Lissabonurteil, nonostante il Trattato di Lisbona prevedesse proprio il rafforzamento del principio democratico nella struttura decisionale dell’UE dotando il Parlamento di maggiori poteri, Karlsruhe ha giudicato il Trattato di Lisbona sostanzialmente conforme alla Legge fondamentale (Costituzione) tedesca sotto tale profilo, ritenendo però necessaria una modifica degli atti adottati internamente per la ratifica. Non solo: ne risultava in modo netto la prospettiva secondo cui, sulla base della necessità di garantire il rispetto del suddetto principio democratico, il trasferimento di competenze dallo Stato tedesco all’UE era giunto al suo limite massimo. Ogni ulteriore passaggio del processo di integrazione non sarebbe quindi stato possibile in prospettiva funzionale, ma solo politico-costituzionale.
Nella sentenza sul QE la BVG, pur inserendosi in questo percorso, interrompe bruscamente una continuità d’approccio, che la vedeva “abbaiare [alla CGUE] ma non mordere”, come in molti hanno commentato. Per la prima volta, oggi, nega in modo diretto ed immediato il primato del diritto dell’Unione, sollevando apertamente un contrasto di giurisdizione con il giudice di Lussemburgo e paventa la “bocciatura” di un atto dell’Unione sotto il profilo della democraticità, per di più non per salvaguardare un diritto fondamentale, ma su aspetti di politica economica (per quanto ricondotti al principio democratico, per la via sopra richiamata). Al di là delle, pur importanti, osservazioni e contro-osservazioni giuridiche, risulta evidente che la Corte abbia dato voce ad una parte dell’opinione pubblica tedesca, contraria alla partecipazione del Paese ai programmi di acquisto dei titoli sovrani degli Stati, e solo una lettura superficiale della sentenza, del contesto e del momento storico può non ravvisare una scelta politica nella decisione del tribunale di Karlsruhe.
INTENDED E “UNINTENDED” CONSEQUENCES DELLA SENTENZA
Gli stessi giudici mostrano di essere pienamente consapevoli dell’ipoteca che la loro pronuncia pone sul processo di integrazione per come si è sviluppato fino ad oggi e sull’indipendenza dell’azione della BCE.
Specificano infatti che la sentenza non riguarda il PEPP, il programma di acquisti di titoli varato per far fronte alla crisi da coronavirus (ad oggi prevista per 750 miliardi di euro), ma la BCE pareva già intenzionata a rivedere quei criteri che, invece, la stessa Corte ha indicato come condizioni necessarie al fine di considerare l’intervento proporzionato – e quindi ai fini della partecipazione della Germania allo stesso. Si tratta, tra gli altri, dei limiti di acquisto dei titoli di stato sulla base della cosiddetta “Capital Key”, ovvero la porzione di capitale che ogni stato detiene della BCE, e della quota del 33% per singola emissione.
L’aspetto è decisamente rilevante perché il rispetto di tali limiti precluderebbe alla BCE la possibilità di fornire agli Stati un supporto “asimmetrico”, e di soccorrere quindi con efficacia chi ha più bisogno. La sentenza potrebbe quindi avere un effetto persuasivo sull’azione della BCE per il contrasto alla crisi economica post-pandemica: l’obiettivo reale dei giudici potrebbe essere proprio stato quello di far introiettare ex-ante alla BCE l’approccio ordo-liberista, ponendo un freno al whatever it takes infine confermato da Christine Lagarde. Oltrepassare quei limiti provocherebbe infatti quasi certamente ulteriori ricorsi davanti al giudice tedesco.
A riprova di ciò, lo stesso giorno in cui è uscita la sentenza, il tasso di interesse dei titoli italiani sul mercato ha ricominciato a crescere, dopo l’effetto calmierante sortito dall’annuncio degli interventi della BCE.
Al di là degli aspetti specifici, in ogni caso, la BVG pone come limite alla politica monetaria della BCE (competenza esclusiva dell’Unione) le sue ricadute sulla politica economica (per la quale è previsto solo un coordinamento tra gli Stati). È però evidente come la linea di demarcazione tra le due sia praticamente impossibile da tracciare. Non solo: questo implica che alla BCE non è consentito comportarsi come tutte le Banche centrali del mondo, agendo liberamente sui mercati per aiutare le economie che a lei fanno riferimento.
In questo momento l’attenzione sull’azione dell’Unione europea da parte dei cittadini è altissima e, specie negli Stati più colpiti dalla pandemia di Covid-19, i sentimenti sono spesso altamente critici, almeno quanto sono elevate le aspettative. La BVG è quindi entrata a gamba tesa su una situazione evidentemente delicata, perché sulla risposta a questa crisi si gioca la sopravvivenza della UE.
Accanto agli aspetti legati all’economia, la sentenza esprime poi unintended consequences nei confronti di quegli Stati in cui oggi vacilla il rispetto dello Stato di diritto, e nei confronti dei quali l’Unione tenta (con difficoltà) di intervenire. Una volta che la Corte costituzionale tedesca mette in discussione il primato del diritto dell’Unione, perché dovrebbero rispettarlo quei paesi accusati di violare lo Stato di diritto, come Polonia e Ungheria? Puntualmente è infatti giunta la reazione della Polonia, “sotto processo” a causa della riforma nazionale del sistema giudiziario, anche attraverso una procedura d’infrazione aperta da parte della Commissione davanti alla CGUE. Poche ore dopo il verdetto di Karlsruhe, il viceministro polacco alla giustizia ha affermato che la sentenza dimostra la correttezza del punto di vista polacco sul tema del sistema giudiziario: è prerogativa nazionale e l’UE sta oltrepassando le sue competenze chiedendone la riforma.
I giudici di Karlsruhe sono naturalmente consapevoli del contesto economico-politico e delle potenziali ricadute della loro pronuncia e la storia dimostra come, altre volte, abbiano usato il margine discrezionale a loro disposizione in modo diverso. A maggior ragione, però, si impone la questione politica legata al casus belli. Il QE fu, a sua volta, una scelta politica importante, condotta dall’allora Presidente della BCE Mario Draghi, che, “stiracchiando” le competenze della BCE e del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), riuscì di fatto a salvare l’euro. Una scelta condivisa naturalmente con tutto il Consiglio della BCE, di cui sono parte anche i governatori delle banche centrali dei 19 paesi dell’euro, e poi successivamente avallata anche dalla Corte di giustizia.
L’analisi fin qui condotta dimostra, una volta di più, l’assordante assenza della politica dagli affari europei. Pare siano i “tecnici” a fare o disfare l’Europa, ma questo succede per l’inazione della politica. E in politica, è cosa nota, i vuoti non rimangono tali al lungo. Se lo sviluppo funzionale che ha avuto l’UE in parte spiega questo aspetto, non può però più giustificarlo.
DOVE È FINITA LA POLITICA?
Non si può negare che la Corte di Karlsruhe, pur utilizzandolo strumentalmente a fini politici, abbia messo il dito su un aspetto fondamentale del delicato processo di integrazione. L’assetto attuale dell’Unione non tiene, e questo emerge con prepotenza nelle situazioni di crisi: quella dei debiti sovrani prima, quella causata dalla pandemia ora. A questo si aggiungono le questioni richiamate circa il rispetto dello Stato di diritto e la difficoltà del sistema di imporsi. L’Unione europea è infatti un progetto politico ancora in divenire. Mettendo in dubbio il primato del diritto UE in riferimento, poi, ad aspetti economici, la BVG si inserisce nell’agone politico e, nei fatti, mette in questione non il QE, ma la stessa UE.
Pare per giunta abbastanza chiaro che il QE “sia salvo”, perché è davvero difficile che tra tre mesi i giudici di Karlsruhe si pronuncino in senso negativo, ma, appunto, non è questo il vero motivo del contendere. La sopravvivenza (che in, un passaggio storico così cruciale, come appena evidenziato, coincide con lo sviluppo) dell’Unione è posta in dubbio, e nemmeno tanto nascostamente. Con la sentenza la Corte pare infatti voler dettare limiti alla politica tedesca, che ora può e deve scegliere come reagire.
Nel frattempo sono arrivate, compatte, le reazioni delle istituzioni europee. L’attacco è stato particolarmente duro proprio perché proviene dalla Germania, e “sbagliare la risposta” significherebbe innescare una babele di ricorsi presso altre Corti costituzionali, e così davvero la fine del primato e della UE.
La prima a rispondere è stata la Commissione (da “guardiano dei Trattati”), ribadendo il primato del diritto UE sui tribunali nazionali. Nel pomeriggio dello stesso 4 maggio, al termine di una riunione del Consiglio direttivo, la BCE ha diffuso un comunicato con il quale “prende nota” della sentenza, e, dopo aver assicurato continuità al whatever it takes, richiama il giudizio, in merito, della Corte di Lussemburgo. Una giusta presa di distanza che trasmette l’unico messaggio politicamente sensato in risposta ad una sentenza carica di significato politico: grazie, ma il problema non è nostro.
Diverso è il caso per la Corte di Lussemburgo, frontalmente attaccata dalla BVG. Questa ha emesso un comunicato stampa allineandosi sì alle altre due istituzioni e affermando di non commentare sentenze nazionali, ma, così facendo, scendendo nondimeno nell’agone, in qualche modo accettando la sfida. Il primato del diritto dell’Unione, indispensabile per garantire l’applicazione uniforme di quest’ultimo in tutti gli Stati membri e quindi la certezza del diritto, dovrebbe essere dato per scontato dall’istituzione – “tecnica” – che ne garantisce operazionalmente il rispetto. Un altero silenzio sarebbe stato probabilmente preferibile, perché resta vero l’adagio secondo cui chi è costretto a dire “io sono il re” non è un vero re.
Lo stesso approccio, mutatis mutandis, dovrebbe essere adottato nei confronti della “richiesta di spiegazioni” effettuata dalla Corte alla BCE. Un modo per uscire dall’impasse di non ignorare completamente la BVG (cosa assai difficile per la Germania), ma non dar mostra del fatto che le istituzioni europee si piegano ai suoi desiderata, potenzialmente esplosivi, ci sarebbe. Il “report” sul rispetto della proporzionalità potrebbe essere fornito alla Corte da Jens Weidemann, nella sua doppia veste di Presidente della Bundesbank e membro del Consiglio direttivo della BCE. Proprio lui, fra i principali oppositori del QE, dovrebbe fornire alla Corte costituzionale del suo paese gli strumenti atti a giustificarlo.
Questo, oltre a risolvere la questione sul punto, avrebbe il merito di ricondurla ad un problema tedesco. In questa stessa ottica si è già mosso Sven Giegold, eurodeputato tedesco esponente di punta dei Verdi e membro della commissione economica all’eurocamera, il quale ha chiesto, con una lettera indirizzata alla Presidente dalla EC von der Leyen, che l’esecutivo europeo valuti la possibilità di aprire una procedura di infrazione nei confronti del suo paese. Si tratta chiaramente di una mossa politica, con la quale Giegold si schiera pubblicamente dalla parte del progetto europeo, ma centra il punto e riporta il nodo di fondo nell’agone politico.
In primo luogo, se è difficile che la Commissione porti la Germania davanti alla Corte per la sentenza della BVG (nonostante von der Leyen abbia risposto che “ci sta pensando”), rimane vero che, dal punto di vista del quadro giuridico dell’Unione, se davvero la Germania si ritirasse dalle operazioni decise dalla BCE, verrebbe meno agli obblighi impostile dai Trattati, e sarebbe a quel punto passibile di infrazione.
Il discorso è però, con tutta evidenza, molto più ampio e attiene alla scelta politica che la Germania deve compiere circa la propria volontà di partecipare al progetto di integrazione. Fino ad oggi ha goduto di condizioni particolarmente favorevoli, riuscendo ad imporre un approccio ordo-liberista alla governance economica comune. Il suo successo economico deriva dall’opportunità fornitale dall’architettura e dalle condizioni generali dell’Unione. La Germania infatti potuto approfittare del mercato unico per giocare sulle esportazioni e, avvantaggiandosi del basso costo dell’euro, sfondare nel mercato oltre-oceano una volta esaurita la ricettività di quello europeo. I dati mostrano come, ad oggi, il principale partner commerciale della Germania siano gli USA, mentre per la maggioranza degli Stati UE il partner principale è la stessa Germania. Inoltre, pur violando in modo continuativo il Patto di stabilità per eccesso di surplus commerciale, la Germania ha sempre goduto di impunità.
Queste condizioni, che hanno costruito e assicurato quella che viene chiamata “eccezione tedesca” e che Merkel – al suo quarto mandato – è stata molto brava a preservare, non tengono più: lo hanno certificato le due crisi (il dibattito su entità e composizione del Recovery Plan assume dopo la sentenza di Karlsruhe un’importanza ancora maggiore), i problemi legati allo stato di diritto, e ora, indirettamente, perfino la stessa Corte costituzionale tedesca. La Germania è chiamata quindi ora a sciogliere il nodo che l’approccio attendista della sua guida politica è riuscita a lungo a rimandare, ovvero se facilitare il salto che l’integrazione necessita, così rinunciando alla sua eccezionalità, o invece tirarsene fuori – contribuendo a quella che non può che essere l’implosione del progetto. È infatti impensabile un progetto geopolitico “utile” senza la Germania (e non solo perché storicamente ne è stata uno dei motori). Al tempo stesso, la Germania può contare qualcosa sullo scacchiere mondiale solo ed unicamente all’interno della compagine dell’Unione, ma soprattutto la sua economia è ormai troppo compenetrata con quella degli Stati membri dell’UE: basti pensare al fatto che le fabbriche di automobili tedesche hanno dovuto sospendere la produzione in ragione del lockdown imposto alle fabbriche italiane, che producono gran parte della componentistica necessaria alle prime.
Lasciando da parte il caso del Regno Unito – da sempre restio ad approfondire l’integrazione –, a partire dalla sua riunificazione la Germania si è dibattuta nel dilemma, costituendo il principale freno all’integrazione e prendendo in questo senso il posto che, nella seconda parte del secolo scorso, era stato principalmente della Francia (basti pensare a De Gaulle e alla sua idea di Unione europea).
La Corte costituzionale tedesca è quindi entrata prepotentemente nell’agone in un momento particolarmente delicato, mettendo a rischio molto. Ma il nodo è prima di tutto politico, e sarebbe ora che la politica dicesse la sua.
[1] Questa sentenza è un attentato.
[2] Questa pone come limite al primato l’intangibilità dei principi supremi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale dello Stato italiano (inclusa la forma repubblicana).