Recensione a: Riccardo Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Einaudi, Torino 2018, pp. 240, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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«Tra venti o trent’anni, quando si assisterà alla fine delle professioni e sempre più lavori saranno “uberizzati”, potremmo svegliarci e chiederci perché non abbiamo protestato con più forza contro questi cambiamenti» Trebor Scholz
Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri è il titolo dell’ultimo libro di Riccardo Staglianò, giornalista e prestigiosa firma del Venerdì di Repubblica. Emergono subito, da queste poche parole, i tre nuclei fondamentali sui quali è strutturato l’intero volume. In primo luogo, la progressiva svalutazione del lavoro, ridotto ormai a lavoretto, cominciata negli anni Ottanta e proseguita ininterrottamente fino ai giorni nostri. In secondo luogo, la critica severa alle narrazioni tecno-ottimistiche, spesso mistificanti a causa di un marketing terminologico ingannevole; l’Autore usa infatti nel sottotitolo il termine sharing economy con sottile ironia, dal momento che, già dalle primissime pagine, lancia il suo j’accuse all’impostura linguistica che vorrebbe farci credere vi sia un’effettiva condivisione: «Peccato che, a dispetto dei termini, più che condividere, la gig economy[1] – cominciamo a chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti- concentri il grosso dei guadagni nelle mani di pochi, lasciando alle moltitudini di chi li svolge giusto le briciole» (pp.5-6). Infine, di estrema importanza è l’affermazione «ci rende tutti più poveri». L’Autore vuole qui sottolineare gli effetti negativi, non solo per i lavoratori sottopagati ma per l’intera collettività, intrinseci ai monopoli delle piattaforme digitali: «Perché se i padroni delle piattaforme sono campioni olimpici di elusione fiscale e finiscono per pagare tasse da prefisso telefonico grazie a qualche sapiente triangolazione, il welfare a un certo punto non reggerà» (p.6).
Elusione fiscale, aumento delle disuguaglianze, insostenibilità del welfare, lavoretti e sfruttamento: dietro alla retorica delle narrazioni tecno-ottimistiche vi sono queste questioni cruciali, denunciate con lucidità da Staglianò nel suo libro-reportage. Un viaggio dalla Silicon Valley al Vesuvio, che unisce analisi sociologiche ad esperienze personali, riflessioni sul futuro delle nostre democrazie a storie di lavoratori sfruttati.
Per comprendere il mondo in cui viviamo e, più specificatamente, la realtà delle piattaforme digitali, dei lavoretti e delle disuguaglianze, è necessario ripercorrere la storia degli ultimi quarant’anni. Staglianò propone tre date, corrispondenti a tre crisi, fondamentali per orientarsi nel periodo preso in considerazione: il 1979, con il passaggio dalla produzione alla finanza, il 2000 con lo sboom della New Economy e il 2008 con l’inizio della Grande recessione.
I mutamenti economici degli ultimi quarant’anni
La finanziarizzazione dell’economia nasce dalle macerie del paradigma keynesiano che aveva caratterizzato i “gloriosi trent’anni” (1945-1975). La crisi degli anni Settanta, la cosiddetta stagflazione, sposta i capitali dai settori produttivi in difficoltà alla finanza, settore dove è possibile estrarre valore senza produrlo. Per fare un esempio, «il giro d’affari di Wall Street che dal Dopoguerra al ’75 è rimasto fermo a una quota tra il 15 e il 17 per cento del PIL statunitense, già a fine anni Ottanta raddoppia (35 per cento)» (p.55). Nel 2006 sfonda la soglia del 350 per cento[2]. Dagli anni Ottanta si instaura il paradigma neoliberista, interpretato politicamente da Ronald Reagan e Margaret Thatcher: sono gli anni dello scioglimento di lacci e lacciuoli, dell’abbassamento delle aliquote per gli scaglioni più alti del reddito, delle sconfitte inflitte ai sindacati, dell’inizio della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Questa liberalizzazione completa dell’economia porta allo sboom degli anni 2000, con lo scoppio della bolla speculativa causato da un infantile entusiasmo per la New Economy. Inoltre, dagli anni 2000 si verifica quello che Staglianò definisce «Il Grande disaccoppiamento» tra produttività e occupazione, dovuto all’ipertrofica pervasività delle macchine e allo sviluppo dell’e-commerce, che permette ad Amazon di generare, ad esempio, 10 milioni di dollari impiegando solo 15 persone, quando a un negozio tradizionale ne servivano 47. Al Grande disaccoppiamento si unisce la “Grande stagnazione” dei salari, rimasti sostanzialmente inalterati nonostante l’aumento della produttività.
Infine vi è la crisi del 2008. «Se avessero provato a venderla anche solo all’inizio del 2007, l’idea della sharing economy, nessuno l’avrebbe comprata. Perché mai avrei dovuto privarmi di una stanza della mia casa, dando le chiavi al Signor X?» (p.153). Con la crisi del 2008 i salari crollano, i risparmi vengono erosi. Se ti offrono un lavoretto, scrive Staglianò, non lo rifiuti in quelle condizioni. La crisi economica si è rivelata il terreno fertile per il germogliare della gig economy e non a caso in questo settore il numero di finanziamenti di venture capital[3] passa dai 15 del 2009 ai 179 del 2015.
L’excursus economico qui sopra accennato evidenzia una realtà negli anni completamente mutata. Dal posto fisso con un salario dignitoso che permetteva di costruire famiglia – e qui Staglianò fa l’esempio personale di suo padre- siamo giunti ai tanti lavoretti, alla necessità di arrotondare lo stipendio del mese accettando lavori usuranti e poco appaganti. Quali sono le ombre che si nascondo dietro al mito della sharing economy? E quale futuro per i giovani lavoratori e per le nostre società?
Dietro alla facciata allestita dalla retorica ottimistica ogni qualvolta si menzioni la sharing economy, vi è una realtà diversa, meno rosea per usare un eufemismo. La condivisione non c’entra nulla con il fenomeno delle piattaforme digitali: il termine esatto è gig economy, come scrive Staglianò, economia dei lavoretti, in via di progressiva istituzionalizzazione – senza che questo trovi alcuna opposizione. L’Autore ci racconta la storia di una donna incinta che, pur di non perdere la sua corsa come autista della compagnia di ride sharing Lyft, la accetta poco prima di partorire; storie di autisti sfollati di Uber che la notte affollano i parcheggi per accaparrarsi la corsa più conveniente; storie di giovani laureati che “si aggiudicano su Upwork o Mechanical Turk una commessa per spalare fango nella rete”(p.120), con paghe misere e umilianti; per non parlare dei facchini di Foodora o Deliveroo, spesso pagati a cottimo.
Per comprendere i meccanismi perversi della gig economy è utile prendere l’esempio di Uber: «Da una parte c’è l’autista (partner, nell’eufemistica e confondente terminologia aziendale) che ci mette il mezzo di produzione (l’auto, compresa benzina, manutenzione e assicurazione) e il lavoro. Tutti i rischi imprenditoriali sono suoi. Che sia subissato di richieste o aspetti ore con le braccia conserte prima di essere chiamato non è affare di Uber» (p.27). Dall’altra l’app, che trasforma l’autista in un nodo della sua rete e che intasca il 20-25% per ogni corsa.
La disparità di potere contrattuale tra il padrone della piattaforma e il partner è evidente. Il fenomeno gig economy ha contribuito alla progressiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, esacerbando lo sviluppo di monopoli aventi un potere contrattuale tale da poter dettare unilateralmente le condizioni di lavoro: le piattaforme gig economy, considerando i fornitori di servizi – ad esempio l’autista Uber– non come propri lavoratori dipendenti ma come contractors indipendenti, fanno ricadere su questi i rischi imprenditoriali, senza che vi sia alcuna tutela per quanto riguarda infortuni previdenza o salute; senza salario minimo o maggiorazione per il festivo.
La posizione di monopolio favorisce inoltre l’elusione fiscale, attività dove i padroni delle piattaforme digitali sono, per dirla con Staglianò, campioni olimpici. Oltre allo scandaloso 0,005 per cento di tasse che Apple paga in Irlanda, è interessante analizzare il rapporto tra le tasse pagate da Airbnb e quelle versate dal settore alberghiero tradizionale. L’Autore prende come riferimento la realtà francese nell’anno 2014: «Nel confronto spiccano due differenze. Intanto i venticinque dipendenti della compagnia contro i duecentomila addetti del settore. Ma soprattutto gli 84 883 euro di tasse pagati dalla prima contro i 3,5 miliardi versati dal secondo» (p.74). Sono risorse, scrive Staglianò, sottratte alla collettività, al welfare del domani.
Criticità del modello gig economy e conclusioni di Staglianò
«Siamo la prima generazione che starà peggio dei propri padri. La freccia della storia, economicamente parlando, si è fermata» (p.230). Staglianò non intende però, con questo prezioso volume, aggiungersi al coro di coloro che affermano non si possa fare niente contro questo fenomeno globale. L’Autore indica alcune vie d’uscita, bozze su cui lavorare per evitare un futuro di precarietà e povertà. Innanzitutto, bisognerebbe prendere in considerazione l’introduzione di un reddito di base universale[4] – in Finlandia la misura è di recente oggetto di sperimentazione- al fine di supportare la progressiva sostituzione dell’uomo con la macchina e per integrare i decrescenti introiti derivanti dai “lavoretti”.
Vi è poi la necessità di introdurre a livello sovranazionale una severa Web Tax sui profitti delle piattaforme digitali – argomento molto attuale nel dibattito europeo- per debellare l’elusione fiscale. Infine, è necessario introdurre nel mondo della gig economy le forme di tutela tipiche del rapporto di lavoro subordinato, oggi assenti perché i fornitori di servizi vengono contrattualizzati dall’azienda come contractors indipendenti.
Non è impossibile secondo Staglianò invertire la rotta, si pensi solo ad alcune recenti sentenze in Gran Bretagna che hanno riconosciuto ai lavoratori di Uber lo status di workers, quindi parasubordinati. «Non solo si può fare qualcosa, ma si può fare addirittura molto. Tanto a livello nazionale, alla faccia degli alibi globalisti, che a quello individuale. E nessuno deve sentirsi escluso: la politica, in primo luogo, i sindacati, la magistratura, gli imprenditori e i cittadini di ogni ordine e grado» (p.173).
Il libro di Staglianò ha il merito di denunciare una realtà spesso sottaciuta, il più delle volte mistificata dalla retorica dominante e dal marketing terminologico. La lettura del volume pone numerosi spunti di riflessione, dai problemi relativi ai diritti dei lavoratori nel sistema gig economy alla piaga dell’elusione fiscale. Sono questione complesse, tutte ancora aperte e di grande attualità. Bisogna trovare un modo per conciliare le esigenze di una società di consumatori con un modello sostenibile che non tragga i propri vantaggi dall’elusione fiscale e della sfruttamento dei lavoratori. Questo volume, che rappresenta una preziosa fotografia del presente, ci spiega quanto sia lontano questo obiettivo, quanto lavoro ci sia ancora da fare e quanto sia necessario rimboccarsi le maniche.
[1] Lo stesso termine “gig” potrebbe risultare fuorviante. La plurivocità del termine non si esaurisce nella traduzione “lavoretto”. “A gig” è anche un’esibizione, una performance. L’affermazione “X is my gig” potrebbe significare “X è la mia passione”. Questo per evidenziare come il termine in inglese racchiuda un gioco linguistico che cerca di rappresentare il fenomeno come qualcosa di smart, tech, cool ecc.
[2] «Detto altrimenti: il denaro che gira nella Borsa di New York equivale a tre volte e mezzo la ricchezza prodotta negli Stati Uniti» (p.55).
[3] Il Venture Capital, traducibile in capitale di ventura, è una forma d’investimento ad alto rischio, ma che può dare ritorni economici molto elevati. L’aumento del numero di finanziamenti di venture capital nel settore gig economy dal 2009 al 2015 indica quanto siano diventate attrattive le piattaforme, e il modello di business ad esse legato, per gli investitori.
[4] Sarebbe su base individuale, universale – quindi non soggetto alle condizioni economiche (perciò anche per i ricchi) e incondizionato perché non soggetto a obblighi lavorativi. Una proposta radicale verso la quale Staglianò non sembra nutrire troppo entusiasmo, ma sempre più attuale e da discutere senza pregiudizi. Non è questa la sede opportuna per approfondire questa proposta, la quale necessiterebbe un’analisi di più ampio respiro. Ci limitiamo quindi ad accennarla, lasciando ad ognuno la possibilità di valutarla secondo i propri principi e le proprie idee.