Le relazioni internazionali nelle sfide del Medio Oriente. Intervista a Michele Chiaruzzi
- 06 Febbraio 2025

Le relazioni internazionali nelle sfide del Medio Oriente. Intervista a Michele Chiaruzzi

Scritto da Viola Andreolli

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Il Medio Oriente è tornato al centro dell’attenzione globale e della politica internazionale, catalizzando un interesse che va ben al di là della dimensione regionale. L’attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023 ha innescato un’escalation senza precedenti, con una vasta azione militare israeliana che ha causato una grave crisi umanitaria. In questo contesto, la diplomazia e le relazioni internazionali giocano un ruolo cruciale nel tentativo di risolvere il conflitto e alleviare una crisi che riunisce tutte le dimensioni della politica. Tuttavia, le divisioni e gli interessi contrastanti tra gli attori coinvolti rendono difficile raggiungere una soluzione duratura. In questa intervista a Michele Chiaruzzi, docente di Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, analizziamo i nodi cruciali di questa guerra, provando a fare chiarezza sulle sue dinamiche. Per farlo partiremo da alcune basi teoriche utili a cogliere le diverse prospettive.


La disciplina delle Relazioni internazionali si occupa di analizzare le interazioni tra Stati e, sempre più spesso, tra agenti transnazionali come organizzazioni, società multinazionali, movimenti globali e singoli individui. Quali sono le origini storiche e intellettuali di questa disciplina fondamentale per capire i conflitti attuali? Quali eventi o pensatori hanno maggiormente influenzato la nascita delle Relazioni internazionali come campo di studi autonomo?

Michele Chiaruzzi: A seguito della Prima guerra mondiale, a fronte di un conflitto così devastante, emerse l’esigenza di analizzare le cause ed elaborare soluzioni. Fu in questo contesto che nacque la disciplina delle Relazioni internazionali, in particolare per iniziativa di David Davies, un mecenate che finanziò l’Università di Aberystwyth, nel Galles, per istituire la prima cattedra dedicata a questo campo di studi. Lo scopo di Davies era quello di comprendere le ragioni per cui la guerra continua a occupare un ruolo centrale nelle relazioni tra Stati. Per rispondere a questa domanda sull’origine della guerra, il teorico Kenneth Waltz identificò tre ipotesi principali. La prima individua l’origine della guerra nella natura umana, attribuendola a caratteristiche psicologiche, caratteriali o comportamentali, che sarebbero responsabili dell’emergere dei conflitti. La seconda ipotesi sposta l’attenzione dagli individui agli Stati, sostenendo che il problema risiede nelle loro configurazioni interne, come il regime politico, il sistema economico o l’ideologia dominante. Questa prospettiva solleva però un dilemma: è opportuno intervenire in quegli Stati considerati “difettosi” oppure è meglio rispettare il principio di autodeterminazione, anche se ciò comporta instabilità? Secondo Waltz, entrambe queste visioni sono riduttive, poiché ignorano il ruolo del sistema internazionale. Qui si colloca la terza ipotesi, che riguarda proprio l’anarchia del sistema internazionale, caratterizzata dall’assenza di un governo mondiale o di un’autorità sovranazionale in grado di regolare le relazioni tra Stati. Questa anarchia permette e favorisce il ricorso all’uso della forza come strumento di autodifesa o, in alcuni casi, di offesa, rendendo la guerra una possibilità sempre presente nella risoluzione delle controversie. Queste tre prospettive – la natura umana, quella degli Stati e l’anarchia del sistema internazionale – non si escludono a vicenda, ma si integrano, offrendo una visione articolata e multidimensionale delle cause della guerra.

 

Nello specifico, quali sono gli approcci teorici più rilevanti per lo studio delle relazioni internazionali, e in che modo ciascuno di essi contribuisce a una comprensione più profonda dei conflitti globali?

Michele Chiaruzzi: I due approcci teorici principali per tentare di rispondere al problema della guerra sono quello realista e quello liberale. La dottrina realista non considera la guerra un vero e proprio problema, ma un fatto ricorrente nella storia dell’umanità, e si concentra principalmente su due aspetti. Il primo, condiviso con il paradigma liberale, riguarda l’idea che l’equilibrio di potere tra gli Stati possa favorire la stabilità, evitando i conflitti: se gli Stati sono in grado di bilanciare reciprocamente la loro forza, specialmente militare, si può evitare lo scontro. Il secondo ipotizza l’esistenza di cicli storici in cui uno Stato ricopre un ruolo primario, di “egemone” o “guida”, nella conduzione della vita internazionale, attualmente interpretato dagli Stati Uniti d’America. L’idea fondamentale è che più gerarchia si introduce in un sistema anarchico, come quello internazionale, più stabilità e cooperazione verranno prodotte. Al contrario, la dottrina liberale ipotizza che la guerra internazionale potrebbe essere eliminata se gli Stati rinunciassero alla propria sovranità o, quantomeno, al controllo sull’uso della forza, trasferendoli a un governo mondiale. Riversando su un piano internazionale le istituzioni tipiche della vita politica interna dello Stato liberale, come il commercio, il diritto e l’autogoverno, si andrebbero a sostituire le dinamiche di conquista con dinamiche di libero scambio, la precarietà delle regole internazionali con regole formali e costituzionalizzate.

 

Dopo aver trattato le basi teoriche delle relazioni internazionali, passiamo a esaminare alcuni esempi concreti. Un caso emblematico della guerra e della sua complessità è rappresentato dagli sviluppi del conflitto israelo-palestinese. Nonostante gli sforzi diplomatici, come quelli del Segretario di Stato degli Stati Uniti Anthony Blinken nel recente passato, la situazione continua ad essere fuori controllo. Questo contesto ha sollevato dubbi sull’efficacia della diplomazia tradizionale nella gestione dei conflitti nella regione. Alla luce dei recenti eventi, la diplomazia internazionale può ancora essere considerata uno strumento efficace per la risoluzione dei conflitti?

Michele Chiaruzzi: Torquato Tasso, nel suo Messaggiero, descrive l’ambasciatore come un “congiuntor di amicizia”. Questa espressione riflette un’idea nobile della diplomazia, intesa come strumento di connessione e dialogo tra Stati, capace di promuovere la concordia e mitigare i conflitti, ma risulta in parte limitata. Con la nascita dei Ministeri degli Affari Esteri, alla fine dell’Ottocento, la diplomazia ha notevolmente ampliato il proprio ruolo: i diplomatici non sono più solo mediatori tra Stati, ma veri e propri funzionari incaricati di rappresentare e tutelare gli interessi del proprio Stato. La diplomazia, quella “tradizionale” come quella “moderna”, si è sempre intrecciata storicamente con la disciplina delle Relazioni internazionali perché è, innanzitutto, lo strumento principale del dialogo internazionale. Tuttavia, questo dialogo è spesso ostacolato dai diversi interessi degli Stati e non sempre riesce a smussare o mitigare le asperità che derivano dal confliggere di questi interessi. La situazione in Medio Oriente rappresenta un chiaro esempio della complessità di queste dinamiche. Innanzitutto, è difficile riconoscere un insieme stabile di interessi statali in un conflitto che, nel tempo, ha superato persino l’esistenza di molti di questi Stati nella loro configurazione originaria. Dal 1948, con la fondazione di Israele, Stati come gli Emirati Arabi Uniti o la Siria hanno cambiato profilo più volte, segnando un evidente divario tra passato, presente e aspirazioni future. La diplomazia, rallentata nel seguire i cambiamenti, ha potuto solo adattarsi. Ad esempio, gli Accordi di Abramo del 2020, che avevano aperto nuove prospettive, hanno presto perso slancio sotto il peso della violenza crescente, che ha compromesso l’impegno diplomatico. Il dialogo, in un contesto di violenza indiscriminata, risulta difficile. Per quanto riguarda l’impegno di Antony Blinken, l’idea che Israele, alleato chiave degli Stati Uniti, agisca senza freni per l’incapacità americana di controllarlo non riflette la realtà. È più probabile che gli Stati Uniti non sentano la necessità di limitare Israele quanto gli osservatori esterni ipotizzano. La vera impotenza si vedrebbe solo se gli Stati Uniti si opponessero apertamente alle azioni di Israele, ma non è così. Di fatto, gli armamenti necessari per la guerra sono forniti dagli Stati Uniti, e le conseguenze delle operazioni militari e delle opzioni politiche vengono tollerate senza compromettere l’alleanza.

 

Considerando il ruolo cruciale di potenze come gli Stati Uniti nei conflitti globali e il contesto di un mondo sempre più multipolare, con l’emergere di attori come Cina e Russia, si manifestano nuove dinamiche internazionali. Un esempio significativo è la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, annunciata nel marzo 2023 grazie alla mediazione cinese a Pechino, un evento che ha inciso sugli equilibri regionali. In questo scenario, come si evolvono le dinamiche internazionali di mediazione dei conflitti, in Medio Oriente e altrove?

Michele Chiaruzzi: Il conflitto arabo-israeliano-palestinese ha visto diverse fasi, che vanno dalla guerra per la fondazione di Israele nel 1948 e attraversano la guerra dei sei giorni, la guerra col Libano, l’Intifada e via dicendo. Oggi ci troviamo in una fase in cui il conflitto riunisce ancora tutti gli immaginari politici, rendendo difficile considerarlo una semplice dinamica regionale: si tratta di una delle ultime guerre del secolo scorso, che continua a riverberarsi nel presente tramite un coinvolgimento emotivo quasi globale. Diverso è il caso, ad esempio, del Sudan, dove si combatte un conflitto armato di violenza estrema che riceve una considerazione assai marginale nel resto del mondo. L’aspetto fondamentale non risiede nel numero di vittime, ma nel riconoscimento internazionale. Questo momento storico è un passaggio di fase, in cui le ramificazioni si estendono complicandosi, diventano sovrapposte e cangianti. Due potenze come Russia e Cina, ad esempio, non sono interessate a stabilizzare l’assetto internazionale ancora definito dagli Stati Uniti e, seppur per ragioni differenti, cercano di rafforzare il loro allineamento; in parallelo, cercano di creare reti multilaterali alternative a quelle che orbitano attorno agli Stati Uniti e alla loro egemonia. Anche i BRICS rappresentano, prima di tutto, un tentativo di compromesso e allineamento tra gli interessi divergenti dei membri originari, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’attuale fase internazionale corrisponde a un sistema assai agonistico, in cui la stabilità vuole essere preservata, sfidata o contrastata in modo netto. È in questo contesto internazionale frastagliato che si inseriscono i conflitti armati che osserviamo, compreso quello in Medio Oriente.

 

Come già sottolineato, gli attori non statali, come singoli individui e gruppi paramilitari, stanno acquisendo sempre più rilievo nello studio delle dinamiche globali. In che modo la loro crescente importanza complica i negoziati di pace in Medio Oriente, soprattutto rispetto agli approcci diplomatici tradizionali tra Stati sovrani?

Michele Chiaruzzi: La presenza di attori non statali è una caratteristica ricorrente della politica mondiale e ha avuto un ruolo rilevante anche in passato. Tuttavia, la globalizzazione, i progressi tecnologici e le dinamiche dei conflitti moderni hanno amplificato l’impatto di questi attori. Nella guerra attuale in Medio Oriente, ad esempio, Hezbollah si distingue nettamente dagli altri gruppi non statali per la sua natura complessa: il “Partito di Dio” vanta una rappresentanza parlamentare, sociale e armata di una tale importanza strategica che ogni ipotesi sulla fine della guerra in corso non può prescindere dalla considerazione della sua eventuale trasformazione o fine. Attorno a questi gruppi non statali troviamo inevitabilmente anche entità sovranazionali, come le agenzie delle Nazioni Unite, la cui presenza nel contesto politico e umanitario della regione, come nei territori palestinesi, rappresenta una componente cruciale ma controversa. Le agenzie, così come le ONG, si ritrovano frequentemente al centro dell’attenzione internazionale, come dimostrato dal tragico caso dell’uccisione di tre operatori umanitari della World Central Kitchen nel sud di Gaza nell’aprile 2024. Questo intreccio di attori che caratterizza il Medio Oriente ha un duplice effetto: da un lato, le organizzazioni internazionali forniscono assistenza indispensabile a popolazioni prive di uno Stato che possa garantire loro sostegno, come i palestinesi; dall’altro, complicano ulteriormente il quadro diplomatico perché il loro operato si interseca con le dinamiche politiche e militari in corso. Il caso degli aiuti umanitari è un esempio emblematico di questo fenomeno: portare aiuti umanitari in una guerra tra Stati è un conto; diverso è operare in un contesto in cui sono coinvolti Stati, organizzazioni non statali e potenze esterne. Il quadro che ne risulta è un coacervo di interventi su più livelli, accompagnato da continue contestazioni e possibili strumentalizzazioni.

 

A proposito del ruolo delle Nazioni Unite, dopo gli attacchi dello scorso ottobre da parte dell’esercito israeliano contro i peacekeeper di UNIFIL si è riaperta la discussione sull’efficacia dell’ONU come mediatore. Questi incidenti stanno influenzando la capacità delle organizzazioni transnazionali di agire in Libano e nel resto del Medio Oriente?

Michele Chiaruzzi: Per quanto riguarda la missione UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon), vi sono posizioni divergenti: per alcuni la missione è auspicata, mentre per altri è al massimo tollerata. Il mandato delle Nazioni Unite e il suo ruolo di mediazione si fondano sul consenso delle parti in conflitto e sulla non coercizione; quando si combatte, la funzione mediatrice dei caschi blu rischia di essere compromessa. Le sfide che UNIFIL affronta nel mantenere la pace e la sicurezza nella regione e il suo mandato d’interposizione per una zona libera da attività armate sono state finora ostacolato dalla presenza di miliziani e irregolari e anche le forze armate israeliane, durante le ultime operazioni militari, hanno considerato i caschi blu come un intralcio. In quella fase, ad esempio, Israele ha spesso criticato la missione per non aver impedito la presenza militare di Hezbollah vicino al confine; al contempo, UNIFIL a suo tempo ha cercato interlocuzioni con Hezbollah per operare sul terreno, evidenziando la precarietà della sua posizione: ottenere il consenso di entrambe le parti è indispensabile, ma rischia di essere percepito, strumentalizzato o semplicemente di soccombere agli eventi. In generale, il mandato è stato ambizioso perché la smilitarizzazione di gruppi armati può avvenire solo in seguito a una loro sconfitta militare, a una decisione autonoma di disarmo, oppure a una pressione significativa esercitata dalle potenze esterne che li sostengono o contrastano. Le Nazioni Unite, pur prive di capacità coercitive autonome, possono però agire da garanti per il rispetto degli accordi – come il cessate il fuoco – e monitorare i confini per sostenerli. Questa attività ha già dimostrato una certa efficacia nel sostenere la tregua del 2016, al termine di una fase di violenza diretta. Eppure, con gli eventi del 7 ottobre, la situazione è drasticamente cambiata: a seguito del sostegno attivo di Hezbollah ad Hamas, il confine nord di Israele è diventato teatro di bombardamenti da parte del gruppo armato, spingendo Israele a colpire il Libano. Questa situazione ha reso sempre più difficile per UNIFIL adempiere al proprio mandato, aggravando la crisi di legittimità e operatività della missione.

 

Come variano le percezioni dell’ONU tra i Paesi coinvolti, rispetto a quelle occidentali, e come incidono queste differenze sulla sua efficacia e sulla sua legittimità?

Michele Chiaruzzi: In questa fase Israele considera l’ONU un’organizzazione ostile. Al contrario, i palestinesi nella Striscia di Gaza e nei territori palestinesi occupati vedono le Nazioni Unite come un forum in cui rivendicare la propria legittimità e la necessità di ricevere sostegno internazionale. Per alcuni si tratta di una questione politica; per altri, di una questione di sopravvivenza. Un problema urgente riguarda l’accesso a beni essenziali come cibo, acqua o educazione, che, in assenza di una struttura statale, non possono essere garantiti. Guardando al principio “due popoli, due Stati”, risulta evidente come uno dei due popoli si trovi privo di uno Stato. Questa condizione rende gli aiuti internazionali una risorsa fondamentale, specialmente per Gaza. Tuttavia, la capacità degli attori non statali, come le agenzie delle Nazioni Unite (ad esempio l’UNRWA) o organizzazioni come Medici Senza Frontiere, di fornire questi aiuti dipende dal consenso e dall’autorizzazione non solo dello Stato di Israele, che detiene il controllo territoriale principale, ma anche di altri Stati come l’Egitto, che controlla il confine meridionale della Striscia di Gaza.

 

L’Italia ha una lunga tradizione di mediazione post-conflitto. Un esempio è ciò che accadde nei Balcani con la missione KFOR in Kosovo. Crede che l’esperienza italiana possa offrire lezioni utili per affrontare i conflitti in Medio Oriente?

Michele Chiaruzzi: Il problema non riguarda specificamente l’Italia, ma la mancanza di un attore capace di svolgere una mediazione efficace. In passato, l’Italia ha svolto un ruolo rilevante grazie alla sua sensibilità verso la causa palestinese e il mondo arabo, ma oggi questa sensibilità è mutata e l’orientamento prevalente è verso il diritto all’autodifesa di Israele. Questo approccio, in un contesto di guerra, limita ulteriormente le possibilità di mediazione, specialmente considerando che l’Italia e l’Unione Europea classificano gruppi come Hamas e Hezbollah, quelli direttamente coinvolti, come organizzazioni terroristiche. Il contesto attuale è molto diverso da quello in cui certe rappresentanze palestinesi e alcuni dei precedenti governi israeliani dialogavano, anche perché l’attacco del 7 ottobre ha comunque evidenziato il fallimento delle strategie passate. In un conflitto così intricato, un mediatore può concentrarsi su aspetti specifici, come ad esempio il rientro degli ostaggi o degli sfollati, o sostenere gli sforzi di potenze esterne. Tuttavia, l’Italia, priva di peso politico e risorse adeguate, fatica, come d’altronde altri Stati, ad assumere un ruolo incisivo, indispensabile per un mediatore credibile. Durante la crisi kosovara, il governo italiano ebbe un ruolo centrale nei bombardamenti sulla Serbia, rafforzando la posizione dell’Italia grazie alla partecipazione attiva alle operazioni NATO e poi alle missioni di interposizione KFOR ed europee. Questo fu possibile perché l’intervento avvenne in una fase successiva, quando la violenza armata si era attenuata, permettendo di lavorare per la stabilità. Il Kosovo, a differenza della Palestina, è uno Stato riconosciuto dall’Italia e da gran parte degli Stati europei, con un’identità politica chiara e istituzioni indipendenti. Al contrario, la Palestina è frammentata in due entità territoriali: la Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, e la Striscia di Gaza, governata da Hamas, considerato un gruppo terroristico. Queste divisioni, unite alla guerra tra Israele e Hamas, complicano enormemente la mediazione. Chi può essere l’interlocutore palestinese legittimato? Hamas, che controlla Gaza ma non è riconosciuto come attore politico legittimo, o l’Autorità Nazionale Palestinese che, a dispetto del nome, ha un controllo limitato e parziale solo su certi territori? Questa frammentazione istituzionale e territoriale rende il conflitto palestinese molto più intrattabile rispetto al caso del Kosovo o ad altri conflitti.

 

Guardando al futuro, quale potrebbe essere, secondo lei, l’evoluzione delle missioni di pace dell’ONU, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il contesto internazionale? Ci sono segnali di cambiamento nelle dinamiche diplomatiche che possano portare a soluzioni più stabili?

Michele Chiaruzzi: Non amo fare previsioni, ma è certo che nessuna guerra può durare all’infinito. Anche questo conflitto dovrà trovare dei punti di equilibrio più durevoli di una tregua limitata. Quando la spinta bellica si esaurirà e si raggiungeranno dei negoziati, può darsi che siano accompagnati da un rinnovato impegno internazionale delle Nazioni Unite. Di certo, per la Striscia di Gaza il ruolo delle Nazioni Unite nel supporto alla popolazione è stato essenziale. Se questo venisse meno, chi si farebbe carico delle persone coinvolte? Un cessate il fuoco è solo un inizio; il problema maggiore sarà come governare un territorio devastato e chi lo governerà. Sia come sia, la vita sarà garantita o si tradurrà in migrazioni forzate? Pochi Stati sembrano disposti ad accogliere masse di profughi. Una possibile soluzione potrebbe basarsi sulla cooperazione multilaterale, coinvolgendo Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita o Egitto nella gestione del territorio, oppure prevedendo una nuova presenza internazionale, subordinata però a un consenso sostanziale. Chi definirà e legittimerà un simile mandato? A questo scopo esiste il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, incaricato di affrontare tali esigenze fondamentali. La cooperazione internazionale è indispensabile per affrontare crisi di questa portata e le Nazioni Unite furono pensate come uno strumento per contribuire agli sforzi volti a stabilire una sostenibilità minima. Queste organizzazioni internazionali non sono nate per caso, ma per rispondere a un interesse concreto: assorbire tensioni, trovare convergenze e affrontare i problemi globali. Nonostante i loro limiti, le Nazioni Unite riflettono il bisogno intrinseco di promuovere il dialogo e la cooperazione internazionale. Finché tale necessità esisterà, il loro ruolo rimarrà presente.

Scritto da
Viola Andreolli

Studia presso la Facoltà di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’Università di Bologna. Ha collaborato con diverse riviste occupandosi di politica estera, diritti sociali e turismo culturale. Ha partecipato al corso 2024 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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