“Libera. Diventare grandi alla fine della storia” di Lea Ypi
- 03 Aprile 2025

“Libera. Diventare grandi alla fine della storia” di Lea Ypi

Recensione a: Lea Ypi, Libera. Diventare grandi alla fine della storia, traduzione di Elena Cantoni, Feltrinelli Editore, Milano 2022 / 2023, pp. 304, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Ardita Osmani

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Lea Ypi, in Libera, ci offre un racconto di formazione che attraversa tre epoche storiche dell’Albania, svelando le contraddizioni politiche, sociali e morali di un Paese in continua trasformazione. Il punto di vista di Lea, la protagonista del libro, diventa il filo conduttore per esplorare la fine dell’utopia socialista, l’anarchia della transizione e il complesso rapporto tra memoria familiare e storia collettiva.

Il romanzo può essere analizzato attraverso la categoria di biografia sociale, riprendendo il concetto di “immaginazione sociologica” coniato da Charles Wright Mills, che porta al centro la capacità di riflettere su sé stessi come soggetti liberi e non vincolati dalle influenze sociali che condizionano inconsapevolmente ogni gesto della vita quotidiana. Presentandosi come una biografia sociale che connette le esperienze individuali ai processi storici e strutturali, la storia della protagonista non è, dunque, solo la sua, ma riflette una condizione collettiva: la traiettoria di una generazione che ha vissuto il crollo di un sistema e l’affermazione di un altro. Il personaggio centrale, Lea, è una ragazzina che cresce durante il periodo comunista dell’Albania e vive la sua adolescenza nel periodo di transizione tra la caduta della dittatura e il passaggio alla democrazia. Attraverso la vita di una bambina, il romanzo esplora tre periodi storici: l’epoca comunista segnata dal culto del Partito e da una sorveglianza pervasiva; i ricordi dei suoi personaggi con un passato ancora più lontano sotto la monarchia e l’occupazione italiana, trasmesso attraverso i racconti della nonna Nini; e la fase di transizione dell’anarchia, con il 1997[1] che segna l’anno in cui il governo perde il controllo della situazione sociale e politica e illustra i processi di trasformazione di una nazione plasmata da realtà politiche e culture diverse. Nel corso di queste fasi, Lea matura scoprendo come la propria storia familiare sia stata plasmata da questa successione di eventi.

 

Biografia familiare, biografia di partito e autobiografia 

Lea Ypi scrive che la durante gli anni del comunismo «“Biografia” era la risposta universale a domande di ogni genere, il fondamento in mancanza del quale ogni conoscenza diventava mera opinione». La biografia si presenta in questo romanzo in diverse sfaccettature: quella familiare, che emerge nei frammenti dei racconti della nonna Nini; la biografia di partito, che segna le vite da “intellettuali” e dei borghesi, come i membri della famiglia di Lea; e la tensione tra queste due che si risolve nell’autobiografia dell’autrice, che cerca di restituire complessità e ambivalenza a una storia che per troppo tempo è stata semplificata in rigide categorie ideologiche.

La parte legata alla biografia familiare racconta della nonna Nini, nata nel 1918, nipote di un pascià e secondogenita di un alto funzionario dell’Impero Ottomano. Aveva incontrato il nonno di Lea al ricevimento di nozze del re Zog e, unica ragazza nella sua classe, aveva studiato al Lycée Français di Salonicco. Questo frammento di biografia familiare offerto dall’autrice non è solo un aneddoto personale, ma una finestra su un’Albania in transizione, sospesa tra l’eredità ottomana e la ricerca di una propria identità nazionale. L’Albania, infatti, rimase sotto il dominio ottomano per oltre quattro secoli, dal 1478 fino alla dichiarazione d’indipendenza nel 1912. Durante questo lungo periodo, l’islamizzazione divenne uno strumento di ascesa sociale: albanesi che servivano come funzionari, amministratori e militari dell’Impero si convertirono all’Islam[2], come nel caso della famiglia di Nini. Ma la fine dell’Impero Ottomano segnò anche l’inizio di un nuovo immaginario politico, incarnato dal Rilindja Kombëtare (Rinascimento Nazionale), il movimento che, tra il 1870 e il 1912, cercò di costruire un’identità albanese distinta, svincolata dalla fedeltà all’Impero, e portò il 28 novembre 1912 a dichiarare l’indipendenza dai turchi, riconosciuta in seguito dalla conferenza degli ambasciatori a Londra nel 1913[3]. La figura di Nini porta con sé il peso di questo passato: la sua educazione francese e le sue connessioni con l’aristocrazia ottomana la rendono testimone di un’Albania cosmopolita e fluida, ben diversa dall’omogeneità ideologica imposta successivamente dal regime comunista. La sua biografia è la traccia di una continuità interrotta, di un mondo scomparso che sopravvive solo attraverso la memoria familiare.

Se la biografia familiare racconta le radici di un passato aristocratico e cosmopolita, la biografia di partito rappresenta l’opposto: la cancellazione delle storie individuali in nome della collettività. Nicholas Pano, nel suo The People’s Republic of Albania, descrive il regime di Enver Hoxha come un sistema chiuso, dove la narrazione della storia era rigidamente controllata e subordinata alla logica della lotta di classe. Nel sistema comunista albanese, l’individuo non esisteva se non come ingranaggio della macchina statale. Ogni cittadino era definito dalla sua lealtà ideologica e dal suo ruolo nella costruzione del socialismo. Anche il passato veniva riscritto: famiglie con un’eredità aristocratica o borghese, come quella di Lea Ypi, venivano etichettate come kulakë[4] o elementi reazionari, e subivano discriminazioni. Le biografie personali non appartenevano più a chi le viveva, ma venivano risemantizzate dalla propaganda di partito. Nel romanzo, questo processo si riflette nella frattura tra l’infanzia di Lea e la scoperta, nell’adolescenza, della vera storia della sua famiglia. Cresciuta nel mito della lotta di classe, Lea credeva di appartenere a una famiglia di proletari devoti alla causa socialista. Solo con la caduta del regime scopre che i suoi genitori avevano nascosto la loro origine borghese per evitare persecuzioni. La biografia di partito aveva riscritto la loro identità, relegando le loro esperienze reali in una zona d’ombra.

 

La libertà: tra il comunismo e il nuovo mondo libero

In Libera, Lea Ypi torna più volte a interrogarsi sul significato della libertà. Sebbene non ne scriva mai in termini accademici, le questioni teoriche relative al concetto di libertà emergono nello sfondo di ogni pagina. Libertà significa elezioni libere? O è l’uguaglianza? O ciò che conta è la libertà interiore, la capacità di vivere secondo i propri principi?

Nel contesto dell’Albania di Enver Hoxha, il concetto di libertà assumeva una connotazione ambigua e contraddittoria. Il regime comunista si presentava come il massimo garante dell’uguaglianza e della giustizia sociale, ma nella pratica esercitava un controllo capillare sulla vita dei cittadini. La libertà era definita nei termini della collettività: non esisteva come diritto individuale, ma come adesione al progetto socialista. Nel memoir di Ypi, questa “libertà controllata” emerge con forza nei ricordi della sua infanzia. La maestra Nora, voce del Partito, insegna che l’Albania è l’unico Paese che resiste «al canto della sirena dell’Est revisionista e dell’Occidente imperialista». Il regime si fondava su un isolamento radicale dal resto del mondo, alimentato dall’ideologia dell’autosufficienza (vetëmjaftësia). Non solo rifiutava le influenze occidentali, ma anche quelle provenienti dai Paesi socialisti che venivano considerati revisionisti, come l’Unione Sovietica dopo la rottura con Krusciov e la Cina. Questo isolamento era non solo politico ed economico, ma anche cognitivo: i cittadini non avevano accesso a informazioni esterne, e la realtà veniva modellata esclusivamente dalla propaganda ufficiale. Sotto la dittatura hoxhista, la libertà individuale esisteva solo nella misura in cui una persona aderiva agli ideali del Partito, e ogni deviazione veniva punita come tradimento. Il termine università, che Lea sente citare nei racconti di familiari e amici, era una parola in codice per riferirsi ai campi di prigionia e rieducazione. Gli indirizzi di studio, come “relazioni internazionali”, erano usati per indicare accuse di alto tradimento, mentre una laurea in “lettere” significava essere accusati di attività e propaganda sovversive. “Economia”, invece, era un termine ombrello sotto il quale rientravano crimini meno gravi, come nascondere l’oro.

I genitori di Lea, pur essendo fedeli al socialismo, erano consapevoli delle contraddizioni del sistema e cercavano spazi di autonomia nel privato, dove la libertà si esprimeva in forme sottili: nelle conversazioni a bassa voce, nei libri nascosti, nelle amicizie basate sulla fiducia piuttosto che sulla lealtà ideologica. Ma anche questi margini di libertà interiore erano costantemente minacciati dal rischio della delazione e della repressione. La libertà è anche presentata nel libro contrapponendo due visioni incarnate dai genitori: la madre aspirava a una libertà negativa, intesa come assenza di coercizione statale, mentre il padre si aggrappava a una concezione di libertà positiva, quella che Isaiah Berlin descrive come il diritto di autodeterminarsi all’interno di un progetto politico collettivo. Queste differenze si riflettono nel loro modo di guardare alla natura umana: la madre, convinta che «nuocere al prossimo fosse un istinto naturale», considerava la libertà come uno spazio di difesa dagli abusi del potere. Il padre, invece, credeva che «tutti fossero buoni e che le ingiustizie derivino dalle strutture sociali sbagliate». Cresciuto con i romanzi del realismo socialista e i film sovietici, ha sempre ammirato l’ideale di giustizia e di emancipazione, ma con una certa disillusione: i movimenti rivoluzionari gli sembrano promettenti solo fintanto che rimanevano opposizione pura; una volta istituzionalizzati, con leader e regole proprie, perdeva ogni entusiasmo. La sua ammirazione andava ai nichilisti e ai ribelli, a coloro che contestano il mondo senza indicare alternative precise.

Questa tensione tra ideali e realtà emerge con forza quando il padre si trova a dover prendere decisioni concrete nel contesto delle riforme post-socialiste, come il licenziamento dei lavoratori non qualificati. Qui, emerge un riferimento implicito ad Hannah Arendt e al suo concetto di “banalità del male”: nel tentativo di conservare un senso di umanità, il padre cerca di ricordare i nomi delle persone colpite dalle nuove regole, ma il rischio è che, col tempo, si ricordino solo le norme, e non coloro che le hanno subite: «Penseremo solo agli ordini, non allo scopo cui dovevano servire». Eppure, per molti della sua generazione, la libertà non era solo una questione economica, ma significava soprattutto il diritto di esprimersi, di manifestare, di vivere secondo la propria coscienza morale.

Il passaggio alla democrazia dopo il 1991 non porta però a una completa liberazione. Come sottolinea Katherine Verdery in What Was Socialism, and What Comes Next?, il crollo dei regimi socialisti non ha prodotto una semplice emancipazione, ma ha lasciato dietro di sé un senso di disorientamento e precarietà. Nel romanzo di Ypi questo si traduce nella perdita di punti di riferimento: il Partito scompare, ma al suo posto non emerge un ordine democratico stabile, bensì una fase di instabilità anarchica, in cui la libertà tanto attesa assume contorni ambigui e contraddittori. In questa transizione, molte persone hanno sperimentato nuove forme di esclusione e disuguaglianza, mentre altre hanno trovato nella libertà un’opportunità di trasformazione. Il mercato e la privatizzazione hanno aperto spazi di iniziativa individuale, ma hanno anche portato a un’esasperazione delle disparità economiche. L’eredità del socialismo, quindi, non si dissolve del tutto, ma continua a influenzare il modo in cui la libertà viene vissuta e interpretata. Il tutto si conclude con la riflessione su una presa d’azione e su una consapevolezza che le cose possono ancora cambiare, che la libertà non è una condizione raggiungibile una volta per tutte, ma un processo continuo di negoziazione tra passato e futuro, tra ideali e realtà.

Nell’epilogo troviamo Lea Ypi, in veste di professoressa della London School of Economics di Londra, dove insegna tutt’oggi, che prova a spiegare cosa sia il socialismo marxista. Secondo il suo pensiero: «il socialismo è soprattutto una teoria sulla libertà umana, su come pensare al progresso nella storia, come adattarci alle circostanze ma anche elevarci al di sopra di esse. La libertà non viene sacrificata solo quando gli altri ci impongono cosa dire, dove andare, come comportarci. Anche le società che pretendono di aiutare gli individui a realizzare il loro pieno potenziale ma rifiutano di cambiare le strutture che lo rendono impossibile sono oppressive. Eppure, a dispetto di tutte le costrizioni esterne, noi non perdiamo mai la nostra libertà interiore: la libertà di fare ciò che è giusto».

Dal punto di vista teorico, l’opera si inserisce nel dibattito sul post-socialismo[5] e sulla memoria culturale[6]. Ypi problematizza la narrazione binaria che oppone comunismo e capitalismo, suggerendo che entrambi i sistemi abbiano promesso libertà, ma con implicazioni diverse e spesso contraddittorie. Inoltre, la sua prospettiva si avvicina alla critica postcoloniale del socialismo reale, che evidenzia come le esperienze dell’Europa dell’Est siano spesso marginalizzate nelle grandi narrazioni della modernità[7]. Le pagine di Libera scorrono veloci in una lettura ricca di elementi e spunti storici, filosofici e culturali. E invitano a riflettere su come la memoria storica venga costruita e trasmessa, mentre la voce della protagonista si fa testimone di una doppia eredità: quella di una famiglia che ha vissuto le contraddizioni del comunismo e quella di una società che affronta le sfide della globalizzazione neoliberale. In questo senso, Libera non è solo un memoir, ma un testo che interroga le condizioni della libertà nella storia contemporanea.


[1] Tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, diversi schemi di guadagno falliti hanno derubato centinaia di migliaia di albanesi dei risparmi di una vita. Quando gli schemi sono crollati, ci sono state rivolte incontrollate, il governo è caduto e il Paese è precipitato nell’anarchia e in una quasi guerra civile in cui sono state uccise circa duemila persone. Alla fine del conflitto, il potere era passato dal Partito Democratico al Partito Socialista.

[2] Antonello Folco Biagini, Storia dell’Albania contemporanea, Bompiani, Milano 2021.

[3] Ibidem.

[4] Il termine kulakë indicava gli ex proprietari terrieri, visti dal regime come avversari della collettivizzazione. Essere accusati di kulakismo significava non solo essere economicamente rovinati, ma anche essere condannati al carcere o all’esilio.

[5] Verdery Katherine, What Was Socialism, and What Comes Next, Princeton University Press, Princeton 1996.

[6] Jan Assmann, La memoria culturale, Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.

[7] Maria Todorova, Immaginando i Balcani, Argo Editrice, Lecce 2002.

Scritto da
Ardita Osmani

Dottoranda e assistente di ricerca presso l’IN-EAST, Institute of East Asian Studies dell’Università di Duisburg-Essen. Autrice della newsletter Sinogrammi.

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