Scritto da Federico Rossi
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L’occasione della svolta per la Libia sembra avere una data precisa, il 10 dicembre 2018, giorno nel quale si dovrebbero tenere le elezioni unitarie per dare al paese un solo Parlamento e un solo governo, almeno secondo quanto si deduce dalle dichiarazioni rilasciate dopo il vertice di Parigi del 29 maggio scorso.
Ma se sembra esserci una data per le elezioni, a mancare è però quasi tutto il resto. Forse è proprio per questo che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonostante abbia dato il suo sostegno alla proposta di nuove elezioni entro l’anno, non ha ripreso la data.
L’incontro di Parigi, patrocinato dal presidente francese Macron, sembra comunque aver dato nuova enfasi al dialogo fra le varie forze libiche, riuscendo a portare allo stesso tavolo non solo i due principali competitori riconosciuti a livello internazionale, Fayez al-Sarraj, presidente del Governo di accordo nazionale, e Khalifa Haftar, generale dell’Esercito nazionale libico e uomo forte del governo di Tobruk, ma anche altre due fondamentali pedine sullo scacchiere libico: Khaled al-Mishri, esponente dei Fratelli Musulmani e presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, e Aguila Salah, presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk.
La dichiarazione finale prodotta a Parigi inoltre non ha solo fissato una data potenziale per le elezioni, ma ha anche sancito l’impegno ad unificare le principali istituzioni ora divise (Parlamento, Banca Centrale ed Esercito) e ad accordarsi su una “base costituzionale” su cui impostare le elezioni. Ciò nonostante nessuno dei contendenti ha ancora ufficialmente posto la firma sul documento, preferendo prima confrontarsi ognuno con le proprie istituzioni di riferimento.
A suscitare le perplessità maggiori è infatti la possibilità di un accordo sulla base costituzionale e la legge elettorale. Le principali opzioni sembrano ad oggi appoggiarsi alla costituzione esistente e accordarsi su di una legge elettorale compatibile oppure adottare per referendum il nuovo progetto costituzionale, una scelta che trova ad oggi il sostegno delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, nonché dei Fratelli Musulmani di al-Mishri, ma vede una decisa opposizione della commissione elettorale tripolina presieduta da Emad al-Sayeh.
Piccoli passi nel dialogo libico
Malgrado tutte queste difficoltà segnali positivi sembrano arrivare dalla popolazione delle principali città, che si è iscritta in massa alle liste elettorali. Lo stesso al-Sayeh ha affermato che sono stati 2,5 milioni gli elettori libici che si sono iscritti e un simile ottimismo è stato mostrato anche da Ghassan Salamé, responsabile della UNSMIL (United Nations Support Mission in Libya), che ha organizzato nei mesi scorsi consultazioni con la popolazione nella maggior parte delle grandi città libiche.
Un altro importante risultato era inoltre già stato conseguito a livello diplomatico con la Conferenza di Dakar dell’11 maggio, patrocinata dalla Fondazione Brazzaville, dal presidente senegalese Macky Sall e dall’Unione Africana. L’obiettivo della Conferenza è stato quello di tracciare una via africana alla soluzione del conflitto favorendo il dialogo inter-libico fra una ventina di personalità appartenenti a tutte le fazioni in campo.
L’incontro di Dakar, passato forse in secondo piano per l’assenza di alcuni protagonisti di primo piano, ha centrato un obiettivo che sembrava impensabile. Non ci si è infatti limitati a mettere di fronte i rappresentanti dei tre governi più o meno riconosciuti a livello internazionale, ma si è chiamato in causa anche personalità politiche in vista a livello locale e alcuni nostalgici della Jamahiriyya, nonché i rappresentanti di gruppi tebu e tuareg e delle forze misuratine.
Tra le figure che si sono maggiormente distinte al summit di Dakar c’è sicuramente quella di Abdelhakim Belhaj, ex guerrigliero jihadista e oppositore di Gheddafi, poi candidato alle elezioni libiche del 2012 con l’Al-Watan Party. Belhaj sta ottenendo sempre maggiore visibilità, soprattutto dopo aver ricevuto le scuse ufficiali della Gran Bretagna per le torture subite dopo l’arresto nel 2004 per i suoi legami con ambienti islamisti radicali.
Nella lista dei grandi assenti a Dakar invece c’è Sayf al-Islam, figlio di Gheddafi liberato a giugno 2017 dalle milizie di Zintan che lo tenevano prigioniero. Il 19 marzo scorso Aymen Bouras, portavoce del principale partito “gheddafiano”, il Fronte popolare libico, ha annunciato ufficialmente la candidatura del secondogenito di Gheddafi, il quale tuttavia non è ancora comparso ufficialmente dal giorno della sua liberazione, anche se i suoi sostenitori ritengono si trovi ancora in Libia.
Altre personalità rilevanti che non erano presenti sono Abdulhamid al-Dubaiba, ingegnere misuratino formatosi in Canada che sta cercando di iniziare proprio dalla sua città natale la sua ascesa politica, e Basit Igtet, imprenditore libico-svizzero e finanziatore delle forze anti-Gheddafi nella guerra civile del 2011. Entrambi stanno cercando di proporsi come una sorta di “terza forza” fra Haftar e Serraj in eventuali elezioni, cercando di intercettare soprattutto il consenso delle fasce giovani del paese, ma vengono spesso considerati come troppo esterni alla situazione libica.
Gli attori principali in campo in Libia
Se sul piano diplomatico sembrano esservi delle aperture, su quello politico-sociale la situazione non accenna a cambiare e la guerra civile fra le varie milizie continua a imperversare. Il Governo di Accordo Nazionale di Sarraj, il cui mandato sarebbe teoricamente dovuto scadere con l’Accordo di Shikrat, sta tentando sempre più di appoggiarsi ai partner internazionali, cercando di estendere la cerchia dei suoi sostenitori come testimonia il recente incontro con il principe saudita.
I risultati delle sue mosse internamente alla Libia sono però decisamente scarsi. Il Governo di Accordo Nazionale riesce a malapena a mantenere il controllo di Tripoli grazie a una cupola di milizie, molte delle quali solo nominalmente sostenitrici del GAN, e basa la sua forza soprattutto sulla Rada Special Deterrence Force, guidata da Abdulraouf Kara, che opera soprattutto fuori Tripoli con una larghissima autonomia dal GAN, e la Tripoli Revolutionaries Bigade, comandata da Haithem Tajouri e principale punto d’appoggio nel centro della città per Sarraj.
Quanto questa cupola di milizie sia poco fedele a Sarraj lo dimostra la vicenda della Brigata Nawasi, una delle più potenti gruppi armati di Tripoli inizialmente vicine alla Rada di Kara, con cui condivideva la stessa simpatia per gli ambienti islamisti. La Brigata Nawasi è adesso sostenitrice del Congresso Generale Nazionale, l’altro parlamento tripolino guidato da Alba Libica, e all’Alto Consiglio di Stato di al-Mishri e si è recentemente scontrata con le forze di Tajouri, a testimonianza del perdurare degli scontri per il controllo della capitale.
Anche i rapporti fra Sarraj e le milizie misuratine sono sempre più complessi, dopo che la Rada ha cercato di prendere controllo diretto su parte della città. Questa mossa ha spinto le autorità di Misurata, che l’anno scorso hanno strappato la città di Sirte allo Stato Islamico, a cercare un accordo con l’altra città-stato dell’ovest libico, quella di Zintan, tradizionalmente vicina ad Haftar, con cui ha firmato un’intesa in sei punti, impegnandosi ad arrestare lo spargimento di sangue dei libici e a proseguire la lotta al terrorismo.
La fragilità del rapporto fra Sarraj e Misurata si è risolta anche in un considerevole arretramento nel sud del paese e nel complesso quindi in una perdita dell’influenza del GAN al di fuori di Tripoli. Malgrado gli incontri con vari vertici europei, fra cui non ultimo il Ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, il controllo di Sarraj sulla Libia resta molto marginale e poco rilevante sembra essere anche il suo consenso nella città stessa, come dimostra il seguito sempre più ampio di Igtet nella capitale. Infine, come vedremo più avanti, il GAN sembra in procinto di perdere anche l’accesso alle risorse petrolifere della Libia, un tassello fondamentale per il controllo del paese.
L’unico attore nel puzzle libico che è riuscito a conseguire veri risultati e ad accrescere il suo potere è però il generale Haftar, che è recentemente riuscito a conquistare una larga parte della Mezzaluna petrolifera. L’Esercito nazionale libico (ENL) ha infatti strappato il controllo dei principali siti strategici del Bacino della Sirte alle “Guardie del petrolio” (Petroleum Facilities Guards) di Ibrahim Jadhran, ex alleato delle milizie islamiste di Bengasi.
La principale novità però è che Haftar si è rifiutato di accettare l’autorità su questi siti della National Oil Company (NOC) di Tripoli, passando invece il controllo di giacimenti e stabilimenti riconquistati al governo di Tobruk e creando una NOC parallela a Bengasi. Questo accentramento ha messo sicuramente il governo di Tobruk e le forze di Haftar in una posizione più vantaggiosa, ma rende molto difficoltosa la vendita di petrolio, visto il mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale con l’eccezione di Egitto, Emirati Arabi, Russia e, anche se solo parzialmente, della Francia.
Se la riconquista dei siti estrattivi resta una vittoria dimezzata, l’avanzata nella Mezzaluna petrolifera ha però anche un’altra importante implicazione: l’arretramento dello Stato Islamico. Dopo essere stato cacciato ad opera di altre milizie islamiste dalle città dell’est, è rimasto infatti confinato soltanto in alcune parti della regione di Sirte, perdendo i proventi derivanti dalla vendita al mercato nero del petrolio. Ciò non significa comunque che lo Stato Islamico in Libia sia morto, come dimostra l’attentato alla commissione elettorale rivendicato a Tripoli, dove sono morte 12 persone.
Ma quello della Mezzaluna petrolifera non è il solo fronte su cui è impegnato l’esercito di Haftar, che si trova attualmente a combattere anche nel sud del paese e, soprattutto, a Derna. Per quanto riguarda il fronte meridionale, l’ENL sta cercando di strappare il controllo delle principali città sahariane e dei giacimenti petroliferi alle varie milizie indipendenti. Particolare rilevanza ha il conflitto nella regione di Sebha, dove Haftar sta cercando di ingraziarsi le forze degli Awlad Suleiman, la cosiddetta. Sesta Forza, che resta per il momento fedele a Sarraj e continua a combattere per il controllo della regione contro le milizie tebu e quelle dei Qadhafha.
L’inserimento in questo contesto di Haftar, che potrebbe ricercare l’appoggio delle altre forze in gioco, in particolare quelle dei Magarha e degli Hassaouna, potrebbe addirittura trasformare il conflitto nella regione di Sebha in una sorta di proxy war interna fra i due poli di Tripoli e Tobruk, ancora mai scontratisi direttamente, rendendo più complicato il dialogo iniziato in questi mesi.
Un ulteriore ostacolo alla pacificazione della regione meridionale è anche la presenza di gruppi stranieri ciadiani e sudanesi, che hanno posto le loro basi nel Fezzan e nel sud della Cirenaica, da cui gestiscono le operazioni in Ciad e Sudan. In particolare è stata accertata la presenza del Sudan Liberation Army (SLA), movimento di liberazione del Darfur guidato da Minni Minnawi, il quale si troverebbe in prima persona in Libia. Nonostante ad inizio anno vi siano stati scontri con le truppe di Haftar, secondo fonti sudanesi rappresentanti dell’ENL si sarebbero incontrati con Minnawi per un accordo riguardante l’impiego di mercenari.
L’ENL si è scontrato anche con il Conseil de Commandement Militaire pour le Salut de la République (CCMSR), gruppo ciadiano che si oppone al regime di Idriss Déby Itno e che ha stabilito in Libia molte delle sue basi. Alcuni analisti hanno visto in questo attacco un possibile riavvicinamento fra Haftar e Deby, ma la realtà sembra smentire i fatti, dal momento che il presidente ciadiano continua a mantenere chiusa la frontiera con la Libia e Tobruk non ha smesso di sostenere i ribelli ciadiani del Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (FACT).
Il mosaico del conflitto in Libia
Per quanto riguarda Derna infine, essa si trova ancora parzialmente in mano alle milizie islamiste del Consiglio della Shura dei Mujahidin, che si erano contese la città con le forze dello Stato Islamico, ma le truppe di Tobruk stanno riconquistando le periferie e bombardando la zona, tanto che il generale ha già annunciato la vittoria. La riconquista di Derna, assieme a quella di Bengasi avvenuta qualche mese fa, sancisce la definitiva supremazia dell’ENL sull’est libico, ma pone anche notevoli problemi di carattere umanitario.
L’IOM ha già denunciato la fuga di 2000 civili dalla città a seguito dei bombardamenti, che andrebbero ad aggiungersi ai più di 320 mila sfollati libici. Oltre a questo si temono gli abusi che potranno essere commessi dalle forze dell’ENL, una paura divenuta già realtà a Bengasi e che è costata a Mahmoud al-Werfalli, ufficiale delle truppe di Haftar, un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra.
Il controllo effettivo sulla città dovrà comunque passare per una serie di accordi con le élite locali, a cui fanno ancora capo le milizie cittadine, una prospettiva comune ad oggi alla maggior parte delle città libiche ma ancora più accentuata in quei centri urbani come Derna, che durante la guerra civile sono stati amministrati come vere e proprie città-Stato e hanno combattuto tanto il governo di Tobruk quanto quello di Tripoli.
Come hanno notato Chuprygin e Matrosov, “quasi ogni città libica è diventato un modello a scala ridotta della Libia” con le proprie reti clientelari e le cupole di milizie rivali, che pongono problemi notevoli a chiunque voglia proporsi come il nuovo leader della Libia unita, obiettivo che cerca di raggiungere Haftar. Il principale ostacolo al percorso iniziato a Dakar e Parigi sembra essere infatti proprio l’estrema frammentazione delle forze in gioco: oltre alle principali entità politiche riconosciute vi sono infatti i sempre più numerosi gruppi che governano a volte anche soltanto alcuni quartieri delle città libiche.
Derna, Ajdabiya e Bengasi, a lungo governate da Consigli islamisti, così come Zintan e Misurata, trasformate in vere e proprie città-stato dalle milizie locali, difficilmente cederanno la propria autonomia senza protestare. Allo stesso tempo Sebha e Koufra nel sud si trovano divise fra le fazioni più disparate: non solo gruppi tebu e tuareg si contendono il controllo dei traffici sahariani, ma è presente anche una parte dello Stato Islamico libico che cerca di riorganizzarsi dopo le ultime disfatte. Allo stesso modo resiste nella regione di Ghat il sistema di potere creato dai tuareg col sostegno dei secessionisti maliani.
Neppure le grandi città sono esenti da questo schema, Tripoli in primis, divisa in due fra il Consiglio di Stato e il Governo di accordo nazionale, che si basano in entrambi in casi su un variegato insieme di fazioni armate. A tutto questo si aggiunge il ruolo dei gruppi clientelari e clanici libici: i Qadhafha e i Magarha, che si contendono il Fezzan con gli Awlad Suleiman, ma anche i Dabbashi, che, nonostante le sanzioni imposte dall’ONU su uno dei loro capi accusato di traffico di esseri umani, continuano a controllare parte della costa occidentale della Tripolitania.
La prospettiva di elezioni a breve sembra allora molto meno vicina di quanto non appaia dagli incontri fra i vertici politici della Libia e soprattutto, anche se si arrivasse a vere elezioni, non dare una forma al mosaico di interessi contrastanti che compone ad oggi lo spazio libico potrebbe riportare il paese nuovamente nel caos. Sperare di risolvere questa frammentazione nei pochi mesi che separano dalla data del 10 dicembre sembra però poco realistico, mentre molto concreta è l’espansione militare dell’ENL di Haftar.
Da qui a dicembre insomma i rapporti di forza potrebbero cambiare, anche in maniera consistente, marginalizzando ancora di più il governo di Sarraj ed esasperando la localizzazione di un conflitto che, malgrado gli spiragli offerti dal dialogo di Parigi e Dakar, continua a imperversare su livelli diversi.