Recensione a: Marina Forti, Malaterra. Come hanno avvelenato l’Italia, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 208, 13 euro (scheda libro)
Scritto da Paolo Missiroli
4 minuti di lettura
Il problema ecologico non coincide con il problema del cambiamento climatico. Chi non capisce questo non capisce perché è così importante ripensare (e rifare) le società occidentali e quindi il motivo della centralità del problema per chi è al mondo nel 2018. Il problema dell’ecologia investe l’esistenza degli uomini nel suo complesso. Non è quindi un problema della natura, né della cultura: è all’intreccio tra questi due campi in cui l’Occidente si divide che scaturisce il tema dell’ecologia. Che tale incrocio sia un problema è un fatto contingente, e non necessario.
Questo è quanto emerge dal libro di Marina Forti, Malaterra. Come hanno avvelenato l’Italia, dedicato ai fenomeni di degrado dell’ambiente e di conseguente ricaduta sulle comunità che vi risiedono in termini di salute e di vivibilità di quegli stessi ambienti. Il libro è un lungo elenco di mondi distrutti, mondi che ancora oggi portano i segni di un passato (spesso di un presente) che ne ha alterato la relativa stabilità. Di questi mondi non erano parte solo gli alberi e le rocce, ma anche gli uomini. In Italia non esiste la wilderness. Per usare la terminologia di un’importante studioso italiano, Alberto Magnaghi, essa è più una bioregione, da secoli confusione di natura e cultura, di storia naturale e storia dell’uomo. In questo contesto Forti colloca la sua inchiesta in giro per l’Italia, volta a mostrare la distruzione di tutti questi mondi e le resistenze che puntualmente sono nate.
Il panorama è appunto quello della bioregione, intersecato a un apparato industriale ormai abbandonato. L’idea di fondo è quella che una serie di decisioni, edificazioni e piani industriali risalenti in generale (ma non in tutti i casi elencati nel testo) agli anni Sessanta e Settanta, abbiano cominciato a manifestare la loro pericolosità per questi mondi umani-naturali a partire dai tardi anni Ottanta, per continuare, quasi indisturbati, fino ad oggi. L’episodio che scatena in Italia la consapevolezza del problema ambientale legato all’industrializzazione è, secondo Forti, lo shock di Seveso, nel 1976, quando una nuvola contenente, tra le altre sostanze, tetracloro-dibenzo-p-diossina, o TCDD, la più pericolosa della famiglia delle diossine – ovvero uno dei più dannosi sottoprodotti della reazione chimica e sostanza nociva già in quantità dell’ordine dei microgrammi – si alzò dallo stabilimento chimico ICMESA di Meda, una ventina di chilometri a Nord di Milano. Tale episodio, che scatenò una serie di seri casi di intossicazione, portò all’evacuazione di tutta Seveso e Meda e negli anni successivi al primo abbozzo di una legislazione ambientale, fino ad allora non presente in Italia.
I casi trattati sono diversi, non avrebbe senso anche solo farne un sommario elenco. Dalle discariche di Montichiari a Porto Marghera, dal PCB di Brescia fino all’ILVA di Taranto, l’Italia è letteralmente costellata da casi di devastazione del territorio per l’inquinamento della terra, dell’aria, dell’acqua. Proviamo a tracciare altre linee oltre a quelle già viste (l’Italia come bioregione e come panorama post-industriale). Innanzitutto, in quasi tutti questi casi, quello che emerge è una differenziazione degli interessi del lavoro e di quelli della salute ambientale. Chi legge nel 2018 pensa immediatamente al caso ILVA. L’idea di Forti non è che questa differenziazione sia oggettiva (e cioè che sia impossibile una riconciliazione degli interessi in assoluto), ma che storicamente in Italia si sia sempre dovuto scegliere tra il lavoro e la salute ambientale, a partire dal caso ACNA, a Cengio. Lo scontro “rosso-verde”, che abbiamo visto vivere nel discorso pubblico anche per quanto riguarda ILVA, è tipico del caso italiano, anche se in certi spazi (la piana degli agrumeti in Sicilia, si è verificato in seguito un “armistizio” tra lavoro e ambiente – ma dopo una guerra feroce).
Da un punto di vista storico, secondo Forti, in generale, i processi di industrializzazione incontrollata nascono da una promessa di ricchezza indefinita, portata avanti dai costruttori e dagli industriali al momento dell’edificazione (che essa sia agli inizi del Novecento o al momento della riconversione della provincia di Brescia in polo per lo smaltimento di rifiuti negli anni Ottanta). Tali promesse, unite a quelle che Forti definisce menzogne raccontate dagli industriali alle popolazioni, sono il motivo di quel silenzio che almeno nei primi anni, puntualmente, accompagnava queste edificazioni.
La stratificazione sociale del rischio è inoltre riconosciuta a tutti i passaggi descritti. Il rischio e il danno ambientale, la distruzione della bioregione, non ha le stesse ricadute su tutti. Non solo è causato dall’avidità degli industriali a cui non sono stati posti limiti, dalle menzogne (i proprietari dell’ICMESA di Meda sapevano perfettamente del danno portato dalle sostanze chimiche che poi hanno colpito la cittadinanza), ma il peso di tale inquinamento grava in larga parte sulle fasce più deboli della popolazione, che vivono ai margini, nelle zone più insalubri e più inquinate. Nel caso dell’ILVA di Taranto, sostiene Forti, la città può essere pensata, nella sua evoluzione, come del tutto costruita a partire dall’ILVA, senza alcun interesse per l’impatto ambientale proprio perché la grande opera industriale veniva vista come la speranza per sollevare dalla povertà le popolazioni locali. Per un classico caso di eterogenesi dei fini, il peso dell’ILVA oggi ricade più pesantemente sui quartieri Tamburi, Paolo VI e Città Vecchia, quelli abitati dai nipoti di quelle popolazioni. Da questo punto di vista, anche per Forti un’ecologia politica non potrebbe che essere un’ecologia dei poveri.
Un altro elemento da tenere in considerazione, trasversale a tutti i casi descritti da Forti, è la pervicacia dell’inquinamento, di qualsiasi tipo esso sia. I casi descritti dalla giornalista hanno un elemento in comune: si tratta di situazioni che avranno certamente gravi ripercussioni nel futuro. L’inquinamento portato dagli scarichi industriali di Portoscuso, come quello della piana degli agrumeti in Sicilia, sopravvivrà alle bonifiche, pur necessarie, lasciando i segni del suo passaggio ancora a lungo. Anche per questo possiamo dire che l’Antropocene è arrivato in Italia: è un viaggio, quello di un mondo con impressi i segni di un’industrializzazione senza limiti, che non è promesso breve, e che ci vedrà impegnati per molti anni, nonostante il nostro sforzo.
Da ultimo, a Forti interessa mostrare come, nel tempo, l’emergere di crisi ambientali susciti delle resistenze locali e puntuali, a volte efficaci nel trasformare le politiche di gestione, a volte ignorate. Non esistono però casi in cui nessuno sia insorto contro la distruzione del proprio mondo. Certo, anche leggendo la conclusione, dove Forti fa notare come il suo libro non abbia come compito che il mostrare solo alcuni esempi e che sempre nuovi casi vadano ad aggiungersi a quelli precedenti, si ha l’impressione che tutto questo fiorire di “resistenze”, per quanto possa consolarci, non basti. Forse il punto, quando si parla di distruzione di mondi, non è solo rassicurarsi dell’esistere di chi si oppone a tale distruzione, ma il cercare una via per cambiare la struttura di un sistema che continua a generare questa distruzione. Si potrebbe dire, di fare politica. E per fare politica è necessario tracciare una linea, capire dove è il problema. Forse esso sta in quell’hanno avvelenato l’Italia del sottotitolo del libro di Forti. Se questo hanno rimane però indeterminato, se non si trova un soggetto all’azione, una causa all’effetto, lo spazio della politica rimane vuoto. Questo è forse un compito di indagine per il futuro.