Scritto da Daniele Molteni
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Kaiserslautern è una cittadina dello Stato federato della Renania-Palatinato nella Germania sud-occidentale, conosciuta come Lutern fin dall’882, prima di essere indicata con il nome odierno dai primi del XIV secolo in onore a Federico Barbarossa, che vi costruì un palazzo reale. Come molte altre città tedesche, nel corso della Seconda guerra mondiale subisce i bombardamenti degli Alleati, per poi essere ricostruita con caratteristiche industriali. Ancora oggi rappresenta un importante centro di trasbordo ferroviario, in cui vengono realizzati macchinari, parti di automobili e assemblati componenti hardware e prodotti software[1]. È nel contesto di ricostruzione post-bellica che nel 1960 nasce Vera Lutter, artista che dagli anni Novanta vive e lavora a New York utilizzando la fotografia come principale mezzo espressivo. Lutter si avvicina al mondo dell’arte con i suoi studi in scultura all’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera, per poi passare alla fotografia con un master alla School of Visual Arts di New York.
La mostra Spectacular. Un’esplorazione della luce, curata da Francesco Zanot negli spazi della Fondazione MAST a Bologna e visitabile dal 10 ottobre 2024 al 6 gennaio 2025, raccoglie venti grandi opere dell’artista tedesca in un percorso che attraversa la sua ricerca fotografica dagli anni Novanta ad oggi. Le immagini in mostra sono realizzate con una particolare tecnica che è il tratto distintivo dell’artista e consiste nel far entrare la luce attraverso un foro stenopeico all’interno di una camera oscura delle dimensioni di una stanza – riprodotta e allestita a scopo didattico alla sommità della rampa di ingresso alle Photo Galleries del MAST – entro cui si forma l’opera capovolta e in negativo, impressa su un enorme foglio di carta fotosensibile installato al suo interno.
Lontane dall’essere semplici “scatti”, queste rappresentazioni profonde della realtà ottenute mediante un processo temporale lungo e meditativo, raffigurano in bianco e nero spazi industriali e architetture silenziose e spesso, appunto, spettacolari. Sono la miniera di carbone di Hambach, il radiotelescopio Effelsberg, il dirigibile Zeppelin a Friedrichshafen, la fabbrica della Pepsi Cola a Long Island, o ancora l’imponente centrale elettrica Battersea Power Station di Londra, utilizzata nella copertina dell’album Animals dei Pink Floyd. Manifesti monumentali della tecnica e della produzione del capitalismo industriale da cui emerge l’iconografia del progresso tecnologico dell’umanità, i soggetti dai contorni sfumati assumono un’aura atemporale con la complicità dell’inversione dei bianchi e neri, delle luci e delle ombre, che esorta a una lettura duplice: un anatema contro la hybris umana e la decadenza dell’industria e dei suoi miti; una riflessione poetica sul viaggio e le capacità dell’essere umano di costruire muovendosi nel tempo e nello spazio.
Le opere, realizzate con lunghe esposizioni che vanno da poche ore ad alcuni mesi, stimolano riflessioni sulla transitorietà, la memoria storica e il suo deteriorarsi. Le atmosfere malinconiche ricordano la produzione musicale di James Leyland Kirby e in particolare il suo progetto The Caretaker (Il custode), nome scelto in onore del personaggio di Jack Nicholson/Jack Torrance nel film Shining. Conclusasi con la serie di concept album Everywhere at the End of Time, la ricerca dell’artista britannico si è contraddistinta per la manipolazione e la riproduzione deformata di dischi a 78 giri di musica da ballo campionata risalente agli anni Trenta, del genere presente nel film culto di Stanley Kubrick. Così come le sonorità lo-fi dei campionamenti parlano di spettri del passato e visioni familiari trasfigurate in un contemporaneo dove ciò resta è schizofrenia nostalgica[2], le fotografie di Vera Lutter riprendono infrastrutture comuni che ci appaiono come scarti rilasciati nel processo metabolico economico-industriale tardocapitalistico. In entrambi i casi, la tecnica e la scelta estetica provocano un ascolto e una visione straniante sulla modernità, che esortano a indagare le ambiguità delle impressioni della memoria, che è sempre qualcosa di alterato e alterabile.
Quelle di Vera Lutter sono immagini di viaggio e cambiamento, di transizioni, di arche volanti tra vecchi e nuovi mondi, raccontati con venature autobiografiche. Vascelli vuoti che trasportano merci e persone, come la camera oscura traghetta la luce dentro i simulacri di una realtà passata. Le rovine fagocitate dall’accelerazione del capitalismo avanzato e terziarizzato in Occidente, suggeriscono però nuove possibilità e visioni. Sfruttando lo spazio architettonico della camera oscura e l’irradiarsi della luce al suo interno, Lutter immerge l’osservatore in una visione metafisica originale, quasi a riproporre in chiave fotografica il mito della caverna di Platone. L’artista dimora nella pancia del dispositivo per svelare un altro mondo attraverso la propria reinterpretazione. Una verità epistemologica alternativa che produce delle crepe sulle certezze del reale, da cui emerge il contrasto tra la simbologia degli oggetti osservati, il ritmo accelerato della vita performativa quotidiana, e la lentezza della meditazione da cui le immagini sono prodotte e a cui invitano. In questo mondo capovolto l’assenza più grande è quella biologica, umana e animale, la cui vitalità non può essere catturata durante la lunga esposizione. Ne conseguono impressioni di futuro post-apocalittico che, collegato ai temi dell’energia e dell’inquinamento a cui i soggetti raffigurati richiamano, scrutano le conseguenze della crisi climatica e ciò che potrebbe rimanere dopo il passaggio dell’uomo. È una bellezza aliena quella che fuoriesce dall’abbandono all’inaspettato, nella coreografia incerta tra il solipsismo artistico e la natura che prova a catturare.
L’occhio scrutatore sugli spazi industriali – grandi edifici, aeroporti, cantieri, fabbriche e miniere – tra Europa e Stati Uniti, fa emergere dal negativo le continue trasformazioni economiche e sociali del territorio e dell’ambiente, dove l’oggetto invisibile e assente, l’umano, si fa presenza indiretta nelle infrastrutture e nei paesaggi urbani di cui è deus ex machina. È il caso dell’Erie Basin e il suo passaggio da porto per le materie prime industriali a sede di un negozio Ikea, come rappresentazione plastica dell’autocannibalismo capitalistico; ma anche della già citata Battersea Power Station – il più grande edificio di mattoni d’Europa – che ora ospita un centro commerciale e appartamenti di lusso. Le opere, uniche e irriproducibili, sono meta-immagini che interrogano, inoltre, sulla società del consumo e dell’omologazione, per invitarci a guardare l’essenza del visibile residuo con occhi nuovi e provare a comprendere come possiamo vivere (o sopravvivere) nelle rovine di una realtà segnata dalla messa in discussione dei paradigmi economici dominanti e dal rapporto perverso che l’umano ha instaurato con la natura. Per le tematiche affrontate, la mostra Spectacular di Vera Lutter si apre al dialogo con il contesto del MAST e con i temi cari alla Fondazione, come l’industria, l’innovazione, il lavoro e la logistica nella società globalizzata, lasciando aperte le domande più urgenti sulla fragilità e unicità delle grandi opere dell’industria moderna e sul loro impatto nel mondo contemporaneo. Una mostra che non offre al visitatore solo un’esperienza estetica, ma una riflessione sui mutamenti della società, sull’incedere lento e inevitabile della storia e sulla caduta dei grandi miti.
Nel suo ultimo libro, il romanzo Austerlitz pubblicato poco prima della sua scomparsa, lo scrittore tedesco W. G. Sebald narra le vicende del professore di storia dell’architettura Jacques Austerlitz, studioso come Lutter dei luoghi che tendono a racchiudere nella loro forma e dimensione i significati simbolici della modernità[3]. Parlando della stazione di Anversa, Austerlitz sottolinea come in essa vengano introdotte «in ordine gerarchico le divinità del XIX secolo: la miniera, l’industria, il traffico, il commercio e il capitale»[4]. Secondo lui, inoltre, «naturalmente qualcosa ci dice che gli edifici sovradimensionati gettano già in anticipo l’ombra della loro distruzione e, sin dall’inizio, sono concepiti in vista della loro futura esistenza di rovine»[5]. Non sembra dunque azzardato accostare queste riflessioni alla poetica di Vera Lutter e non è difficile notare quanto la biografia dell’artista tedesca – a cominciare dalla cittadina natia Kaiserslautern, che vede sorgere a pochi chilometri la più grande base militare aerea statunitense su suolo europeo[6] –, confluisca nell’indagine sulle divinità della contemporaneità; sul concetto di tempo e sul simbolismo degli oggetti nella sua ricerca attraverso la luce. Al termine del percorso della mostra Spectacular, proprio il concetto di tempo si esplicita e si sublima in quattro pannelli raffiguranti la Clock Tower di Brooklyn, che disegnano un cubo vuoto dove lo spettatore è invitato a entrare in piccoli gruppi. Una fragile riproduzione della realtà che richiama l’osservatore a un ultimo fugace sguardo sull’effimero, sul tempo che è «fra tutte le nostre invenzioni, senz’altro la più artificiosa»[7].
Per la concessione delle foto che accompagnano l’articolo si ringrazia Fondazione MAST.
[1] «Kaiserslautern», Encyclopaedia Britannica.
[2] James Leyland Kirby è una figura chiave della corrente musicale legata alla hauntology, concetto elaborato da Jacques Derrida in Spettri di Marx (Raffaello Cortina Editore 1996). Si tratta di un metodo decostruttivo di sostituzione della concezione dell’essere come presenza identificabile e costante con la figura dello spettro, ciò che non è né presente, né assente, né morto né vivo. In questa critica ontologica alla concezione lineare della storia e del tempo, il filosofo francese sostiene che il presente è sempre infestato da una “spettralità causale” che deriva dai fantasmi del passato e dalle promesse non mantenute del futuro. All’inizio degli anni Duemila, Simon Reynolds e Mark Fisher hanno ripreso questo concetto per descrivere l’arte che indaga l’inquietudine nostalgica per un futuro perduto, mentre rievoca un passato che “infesta” il presente, come nella produzione di The Caretaker. Si veda: Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma 2019; Valerio Mattioli, Dieci anni tra i fantasmi, «Vice», 1 ottobre 2014; Andrew Gallix, Hauntology: A not-so-new critical manifestation, «The Guardian», 17 giugno 2011.
[3] W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2006.
[4] Ivi, p. 14.
[5] Ivi, p. 21.
[6] La Ramstein Air Base, sede dello United States Air Forces in Europe-Air Forces Africa.
[7] W. G. Sebald, Austerlitz, p. 99.